Beni comuni fuori dal mercato

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marco bersani

di Marco Bersani*

L’evanescenza dell’antinomia fra Unione Europea e Stato nazionale è dimostrata dal progressivo affermarsi, nelle pratiche di lotta dei movimenti sociali e nella teorizzazione intellettuale alternativa, del paradigma dei beni comuni.

Se corrispondesse a realtà l’interpretazione di chi pensa che siamo di fronte ad un attacco ai diritti del lavoro, ai diritti sociali e ai servizi pubblici, portato avanti dal grande capitale finanziario e dall’oligarchia che governa l’Ue (parte vera), a cui si contrappongono gli Stati nazionali, quali luoghi di contrasto e garanti della protezione sociale (parte illusoria), non si comprenderebbe l’enfasi posta in modo sempre più marcato da parte dei movimenti sociali sul tema dei beni comuni.

Sarebbe sufficiente ricorrere alle antiche categorie di ‘pubblico’ e ‘privato’ o di ‘Stato’ e ‘mercato’ per comprendere i termini del conflitto, gli schieramenti e decidere la propria collocazione.

Ma che la situazione sia notevolmente differente, lo dimostra il fatto che, nell’ipotesi sovranista, quelle che vengono messe in acerrima contrapposizione sono due istituzioni pubbliche, Unione Europea e Stato nazionale.

Come non concordare sul fatto che l’Unione Europea, concepita in modo a-democratico, sia di fatto un potere oligarchico al servizio dei grandi interessi finanziari?

Ciò che tuttavia stupisce è la mancanza di ‘consecutio logica’ nel ragionamento: se l’Unione Europea è stata voluta dagli Stati nazionali, i quali hanno contribuito a scrivere, approvare e ratificare tutti i trattati, che ne hanno determinato il percorso, perché ciò che vale per l’Unione Europea non è altrettanto applicabile agli Stati nazionali?

Il motivo, a mio avviso, sta nel continuo attardarsi, da parte dei sovranisti, sulla nostalgia dei ‘Trenta gloriosi’ e dello stato sociale keynesiano; una sorta di remake di  ‘Good Bye Lenin’ 1 in salsa europea, che non permette di comprendere le profonde modificazioni intercorse nella fisionomia e funzione degli Stati dentro il capitalismo iper-finanziarizzato.

Ma, per fortuna di tutti, è la realtà a produrre le accelerazioni necessarie.

L’esperienza dei movimenti sociali alternativi, praticata negli ultimi due decenni, contro l’invadenza del mercato e contro la messa a valore finanziario dell’intera società, ha evidenziato come, non solo le istituzioni pubbliche ai diversi livelli non abbiano costituito alcun argine alla stessa, bensì come si siano progressivamente poste al servizio dell’espansione dei grandi interessi finanziari nella mercificazione della vita e della natura.

Sottoposte alla doppia tenaglia del mercato e di un pubblico trasformato in braccio armato dello stesso, le pratiche sociali dei movimenti hanno messo sotto attacco non solo l’appropriazione privata dei beni e della ricchezza collettiva, bensì il concetto stesso di ‘proprietà’, in quanto pernicioso in sé del diritto all’accessibilità e alla fruizione dei beni.

Nasce da queste considerazioni l’introduzione, nella teoria e nella pratica politica dei movimenti, del concetto di ‘beni comuni’, come qualcosa che rappresenta l’opposto dei ‘beni privati’, ma che va molto oltre quello di ‘beni pubblici’. Così come la necessità di contrastare le privatizzazioni, non ricorrendo al vecchio e inefficace concetto di ‘nazionalizzazione’, bensì introducendo la categoria della ‘socializzazione’.

E, a completamento -ancora parziale- dell’innovazione teorica, la riflessione sul ‘comune’, come altro dal ‘privato’ e dal ‘pubblico’.

Ciò a cui stiamo assistendo, nella teoria e nella pratica delle lotte, è il superamento della logica binaria -proprietà pubblica o privata- che ha dominato negli ultimi due secoli la riflessione occidentale, con la ricerca di una nuova forma di razionalità, capace di incarnare i profondi cambiamenti intervenuti, che investono la dimensione economica, sociale, culturale e politica.

E che implicano una diversa considerazione della cittadinanza, per il rapporto che si istituisce fra le persone, i loro bisogni, i beni che possono soddisfarli, modificando la configurazione stessa dei diritti e delle modalità del loro esercizio.

Quando si parla di beni comuni, ci si riferisce a beni e servizi, fisici o immateriali, naturali o sociali, concreti o cognitivi, situati o eterei, locali o globali che, in quanto necessari alla sopravvivenza in  vita delle persone e/o alla dignità e qualità della stessa, appartengono alle comunità viventi nei loro diversi insiemi.

Sono quindi beni che non possono, in alcun caso, essere gestiti secondo logiche di mercato, perché non mercificabili, ma che, al contempo, vanno sottratti anche alla potestà delle istituzioni pubblico-amministrative, perché nessuno può averne titolarità esclusiva.

Come ha scritto Stefano Rodotà: “I beni comuni tendono a configurarsi come l’opposto della sovranità, non solo della proprietà” 2.

Il paradigma dei beni comuni porta con sé una tale radicalità che può risultare ostico a chi continua, anche a sinistra, a pensare allo Stato o alle istituzioni pubbliche come autorità neutrali di garanzia, con il risultato di non coglierne la portata rivoluzionaria, ma di considerarli come un ritorno nostalgico a forme di proprietà arcaica. Ma come scrive ancora Rodotà: “Non è tanto il ritorno a ‘un altro modo di possedere’, ma la necessaria costruzione dell”opposto della proprietà’”.3

I beni comuni rimettono in campo concetti totalmente rimossi dalla dottrina e dalla pratica neoliberale, riscoprendo il ‘legame sociale‘ della condivisione, a fronte della solitudine competitiva; il ‘diritto al futuro‘, a fronte dello sguardo rivolto all’indice di Borsa del giorno successivo; ‘l’uguaglianza sostanziale‘ dei diritti, a fronte delle gerarchie piramidali basate sull’accentramento delle ricchezze; e ‘la democrazia‘ come partecipazione, a fronte della dittatura del pensiero unico del mercato.

Proprio in questa direzione, i beni comuni non vanno considerati come ‘cose’ a sé stanti e separate dalle relazioni sociali tra le persone, né come ‘fattori’ della produzione, in qualche modo spendibili. Come ha scritto David Bollier: “I ‘commons’ non sono una definizione giuridica per ‘l’interesse pubblico’, quanto una sorta di filosofia politica dotata di specifici approcci operativi e con effetti a lungo termine, perché ci coinvolge pienamente in quanto esseri umani”.4 

Ne consegue che i beni comuni non sono qualcosa di statico, classificabile una volta per tutte, ma un repertorio di pratiche di lotta e di cittadinanza, di mutualismo e di autogoverno, da parte di gruppi e comunità che li condividono e che, di volta in volta, attraverso le pratiche sociali, ne estendono il campo. Basti pensare alla recente tematica dei beni comuni urbani e del neomunicipalismo, che identifica l’intera città come sistema-bene comune.

Così come abbiamo visto per la ricchezza sociale prodotta, la riappropriazione sociale dei beni comuni diviene la base per la costruzione di un’alternativa di società, che rimetta il mercato al posto che gli compete, quello di luogo di compravendita paritaria di beni fra persone, e restituisca alla gestione partecipativa delle comunità locali, beni comuni naturali e sociali, il cui accesso, fruizione e gestione partecipativa rendono la democrazia un’esperienza reale e non una vuota formalità.

* estratto da Marco Bersani,“Europa alla deriva”, DeriveApprodi, Roma, 2019

[1]  Good Bye Lenin, esilarante film tedesco del 2003, ispirato al fenomeno post-riunificazione dell’Ostalgie; regia di Wolfgang Becker, casa di produzione X-Filme Creative Pool.

[2] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Bari 2012

[3] Ibid.

[4] D. Bollier, La rinascita dei commons. Successi e potenzialità del movimento globale a tutela dei beni comuni, Stampa alternativa, Viterbo 2015

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 39 di Marzo – Aprile 2019. “Si scrive acqua, si legge democrazia

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