Cattivi pensieri – Una “bizzarra” proposta di legge di iniziativa popolare

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di Pino Cosentino                                                                                                      

Si tratta del testo elaborato nel 2007-08 dalla Commissione presieduta da Stefano Rodotà, presentato nel 2010 dai senatori del PD come disegno di legge 2031, arricchito da una “interessante” relazione. Il disegno di legge del PD, compresa la relazione, è stato ora depositato in Cassazione da Ugo Mattei e altri. Secondo i promotori, questa proposta di legge sostituirebbe le ormai obsolete categorie giuridiche di “demanio” e “patrimonio pubblico” con l’innovativa categoria di “beni comuni”, garantendo  una maggior tutela dei beni comuni e dei beni pubblici, che sarebbero così salvati da future privatizzazioni.

Partirei da una domanda: quale privatizzazione si sarebbe evitata, o si eviterà in futuro, se fossero in vigore le norme che indica questa legge delega? Mi rispondo da solo: nessuna. Anzi, con questa legge in vigore, le privatizzazioni presenti, future e passate sono autorizzate. Anzi, autorizzate non basta. Bisognerebbe dire santificate, avvolte come sono in una nube di affermazioni magniloquenti sui beni comuni, di cui nella legge non c’è nessuna traccia, non dico della tutela, ma neppure dei beni comuni. In realtà vi si parla solo di beni pubblici.

Ma andiamo con ordine. Quelle che noi chiamiamo “privatizzazioni” sono o l’alienazione a privati di quelli che la legge delega definisce beni pubblici fruttiferi, come banche, società manifatturiere (Nuova Pignone, Finmeccanica) o di servizi (es: SACE, Telecom, Alitalia, o qui a Genova AMIU, spa a socio unico, il Comune di Genova, per la gestione dei rifiuti), o immobili come palazzi di uffici, case di abitazione, capannoni industriali ecc..

Tutte queste operazioni sono ammesse dalla legge delega, ed esse costituiscono la stragrande maggioranza delle privatizzazioni passate e future. Le prossime infatti dovrebbero riguardare ulteriori quote di società come ENI, ENEL, ENAV ecc., e di società non quotate, come Ferrovie della Stato e Poste, tutti beni pubblici fruttiferi, tranquillamente vendibili.

Nella legge delega non c’è traccia dei due capisaldi di ogni movimento anti privatizzazioni: 1) la gestione tramite aziende speciali, o forme giuridiche affini, dei beni e dei servizi necessari all’esistenza della società; 2) la proibizione di distribuire dividendi, cioè di assoggettare la gestione del bene o del servizio alla logica del profitto.

Carlo Petrini, nell’articolo uscito su La Repubblica a sostegno di questa legge delega, scrive che questa darebbe “allo Stato uno strumento per evitare in futuro nuove ondate di privatizzazioni selvagge come quelle che negli anni ’90 hanno svenduto pezzi di patrimonio pubblico a favore di privati, anche abusando delle concessioni”. Oltre alla vendita, la grande trovata per spremere profitti dai beni pubblici è appunto la concessione, che assume varie denominazioni. La legge delega inserisce furbescamente il permesso delle concessioni di quelli che chiama “beni comuni” in una frase che sembra invece negarle o quanto meno limitarle: “ne  è consentita la concessione [dei beni comuni] nei soli casi previsti dalla legge e per una durata limitata, senza possibilità di proroghe”. L’enfasi e l’attenzione del lettore cade su “nei soli casi previsti dalla legge”, “senza possibilità di proroghe” “per una durata limitata”.  “solo”, “senza”, “limitata” danno l’idea dell’impedimento, della costrizione, dell’ostacolo. Sarebbe quindi evitato quel ”abuso” delle concessioni di cui parla Petrini. 

In realtà non c’è nessuna condizione nuova, o più stringente. E’ già così. Tutte le concessioni sono “a norma di legge”, e ci mancherebbe altro! Hanno una durata prefissata (nel caso del SII 25-30 anni; la rete ferroviaria è data in concessione a RFI per 60 anni; le così dette “vendite” di beni demaniali, in realtà sono concessioni a tot anni, di solito 99). 

E attenzione: sono vietate le proroghe, ma non il rinnovo. “Dei beni comuni è consentita la concessione”. A chi? Alle multiutility, a fondi di investimento, a società orientate al profitto, è evidente. Non c’è una parola che vada in direzione diversa. E’ la santificazione dell’esistente.Questa legge fa il contrario di quello che dice: fornisce il quadro legislativo organico per le privatizzazioni, e non parla affatto di beni comuni. Come aveva capito benissimo Paolo Maddalena.

Infatti la lip al punto c) del comma 3 afferma seccamente che “Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o soggetti privati”. Tradotto: la proprietà, anche dei beni definiti “comuni” è pubblica o privata. Tertium non datur, con buona pace di tutto il pulviscolo retorico che avvolge e confonde i connotati di questa proposta.

I beni comuni non sono né pubblici né privati. Sono usi collettivi come l’ex asilo Filangeri di Napoli, o Mondeggi in Toscana. Mondeggi di per sé non è un bene comune, è un bene pubblico in stato di abbandono – di proprietà della Provincia, oggi Città Metropolitana, di Firenze – che è diventato un bene comune in quanto delle persone decidono di prendersene cura collettivamente. A proposito di Mondeggi: Carlo Alberto Graziani, nel suo articolo entusiasticamente favorevole a questa legge delega e deciso a rintuzzare le obiezioni di Stefano Fassina, riconosce a Mondeggi la qualifica di bene comune. 

Ma la norma della legge delega applicabile a questo caso – scrive Graziani – “sancirebbe la fine dell’esperienza di Mondeggi e delle altre simili che si sviluppano su beni pubblici. Occorre pertanto che, nel corso di approvazione della proposta, il Parlamento modifichi quella norma in maniera tale da evitare la chiusura di queste esperienze”. E qui veramente non si sa se ammirare tanto candore, o restare sbalorditi dalla capacità che ha l’essere umano di non vedere, quando non vuole, quello che ha davanti agli occhi, ossia che questa proposta è congegnata in modo tale da escludere l’esistenza di beni comuni e da consegnare i beni pubblici alla speculazione privata. 

Per fare quello che Graziani ipotizza, il Parlamento dovrebbe rivoltare questo testo completamente, invertirne la logica e fare una vera legge sui beni comuni. Ma quale Parlamento o governo lo farebbe? Non mancano solamente le norme sulle forme di gestione pubblica (azienda speciale o simili) e sul divieto dell’appropriazione privata di eventuali utili. Manca il popolo. Manca ogni idea di gestione partecipativa. 

Dardot e Laval, nel loro fondamentale saggio Del Comune, o della rivoluzione nel XXI secolo, del 2014, pubblicato in Italia da DeriveApprodi nel 2015, hanno ben presente l’esperienza italiana, che sembra invece dimenticata dai promotori della lip: “Il movimento italiano contro la privatizzazione dell’acqua… ha fornito un ‘interpretazione innovatrice dei beni comuni, rispetto alla tradizione giuridica, integrandovi la dimensione della «democrazia partecipativa»” (nota 9, p. 462).

Ne faccio ora un cenno solo di sfuggita, ma è da qui – ricordiamo lo slogan “si scrive acqua, si legge democrazia” – che occorre ripartire per ragionare e agire a favore dei beni comuni. C’è chi lo sta facendo, in Italia. Anche nelle sedi istituzionali. Attualmente è in discussione in Parlamento la legge di iniziativa popolare sul servizio idrico, seguita passo passo dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua. La lip “sui beni comuni” va esattamente nella direzione opposta.

 Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 39 di Marzo – Aprile 2019. “Si scrive acqua, si legge democrazia

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