di Monica Di Sisto (Vicepresidente di Fairwatch, Osservatorio italiano su commercio internazionale e clima)
“Uno dei motivi della sfiducia dell’opinione pubblica rispetto ad accordi commerciali (come il TTIP), e forse anche dello stallo dei negoziati multilaterali, deve ricercarsi nel fatto che, fino ad oggi, molti degli accordi commerciali vigenti hanno tipicamente trascurato la dimensione sociale e ambientale e hanno spesso anteposto gli interessi commerciali ad altri valori quali il diritto ad una vita sana o alla protezione dell’ambiente, solo per menzionarne un paio”.
Constatazione di buon senso, questa, che sottolinea come la lotta contro l’ennesima bordata di privatizzazioni e liberalizzazioni selvagge impacchettata nella fitta rete di misure strutturali e settoriali che caratterizza il Trattato transatlantico su commercio e investimenti oggi in discussione, non sia una fissazione da sinistri protezionisti, ma una scelta di responsabilità e di partecipazione democratica da parte dei cittadini e delle realtà organizzate che stanno dando vita a centinaia di azioni, campagne e comitati nelle due sponde dell’oceano per fermare i negoziati. Quando, però, arriva da Massimo D’Alema[i], oggi europarlamentare e tra i più concreti sostenitori della prevalenza degli interessi delle grandi lobby imprenditoriali nazionali ed europee sui diritti dei cittadini – scelta verificabile nelle posizioni da lui assunte negli anni sia nelle successive azioni di Governi da lui animati o sostenuti in patria rispetto alle progressive liberalizzazioni dei servizi essenziali e alla svendita dei beni comuni, sia in Europa rispetto a operazioni tentate in Europa in questo senso con direttive come Bolkestein e Acta, sia a livello multilaterale rispetto a Wto, EPAs e operazioni affini – c’è da avere le forze di stomaco.
Innanzitutto per l’apparente leggerezza con cui si ammette l’effettivo danno arrecato alla collettività da molte di queste politiche, non certo negoziate nel momento il cui il nostro era in vacanza su Marte, ma per precisa scelta di gran parte delle socialdemocrazie istituite europee di cui è stato sempre tra i pivot. In secondo luogo perché D’Alema, nello stesso intervento tenuto il 14 ottobre scorso a Washington ospite della Foundation for European progressive studies, si appella al premio nobel Stiglitz per convenire con lui che “i negoziati (TTIP), ad oggi, non si sono concentrati nella creazione di un nuovo sistema commerciale che metta l’interesse pubblico al primo posto. Al contrario, usando le parole del premio Nobel Stiglitz “sono stati focalizzati nella creazione di ‘un sistema commerciale gestito in modo da mettere al primo posti gli interessi delle corporations,”. La coscienza del danno arrecato e potenziale, dunque, c’era e c’è, e non c’è nessun motivo per credere che non ci sia anche in quei rappresentanti del governo Renzi che, insieme ai loro pari di Inghilterra, Germania, Francia e Spagna, a margine del Summit del G20 di Brisbane il 16 novembre scorso, hanno riaffermato a una voce “come Leaders (lettera maiuscola, in originale, di Europa e Stati Uniti, ndr), il nostro impegno per negoziati ampi e ambiziosi, nello spirito del mutuo beneficio, che portino ad un accordo di Partenariato Transatlantico su commercio ed investimenti di standard elevato. Rimaniamo impegnati, come lo eravamo al lancio dei negoziati nel giugno 2013, a costruire sulla base solida delle sei decadi del nostro partenariato economico per promuovere una crescita più forte, sostenibile e bilanciata, per sostenere la creazione di più occupazione sulle due sponde dell’Atlantico e per far crescere la nostra competitività internazionale”[ii].
Questi Leaders piccoli piccoli, insomma, ci stanno conducendo volenti a suon di piffero magico verso l’ennesimo baratro, come ha dimostrato di recente Jeronime Capaldo, della Tufts University del Massachusset, cui è bastato applicare agli stessi dati con cui la Commissione Europea ci promette ricchezza e lavoro[iii] le modalità di calcolo dell’Unctad, al posto di quelle della Banca Mondiale, per scoprire che molte variabili erano state omesse in quel conto e che se il TTIP andrà in porto ci sarà una perdita complessiva di posti di lavoro a livello continentale che raggiungerà quota 600mila al 2025, con perdite di reddito procapite per lavoratore che, a seconda dei Paesi considerati, varia dai quasi 5500 euro in Francia ai meno 3400 euro in Germania. Per non parlare, tra l’altro, della diminuzione di disponibilità economica che porterebbe a una contrazione della domanda, e quindi del Prodotto interno lordo, tra l’1 e il 2% al 2025[iv].
Sotto attacco diretto, però, con l’approvazione del TTIP, è anche la faticosa costruzione di alternative che i nostri movimenti hanno messo in campo per contrastare gli effetti devastanti della crisi causata da queste stesse politiche con approcci sistemici diversi rispetto a quelli dominanti. Pensiamo, ad esempio, alla difesa della proprietà contadina collettiva dei semi: in tutti gli accordi analoghi al TTIP come il TPP che gli Usa negoziano con i Paesi della sponda Pacifica, o gli EPAs, che l’Europa tratta con le sue ex colonie di Africa, Caraibi e Pacifico, si sta spingendo per un rafforzamento della difesa della proprietà intellettuale privata sui semi o all’adesione alla Union for the Protection of New Plant Varieties (UPOV), che promuove diritti simil-brevettuali e protegge con forza, dopo la sua riforma del 1991, il potere monopolistico dell’agrobusiness su molte varietà di coltivazione, a spese delle comunità contadine piccole o indigene, come denuncia l’Ong Grain[v] Ma c’è di più. L’Europa, nonostante tutta la retorica che diffonde sul tema degli Appalti pubblici verdi o sociali Green/Social Public Procurement) come motore di un’economia più sostenibile, sta insistendo fortemente perché si compia una liberalizzazione ampia e profonda di tutti gli appalti pubblici, per tutti i beni e servizi e in tutti i settori, tanto che la Ministro al Commercio francese Nicole Briq, tra le fan del TTIP, ha dichiarato si recente a Washington: “Sogniamo insieme un po’ rispetto al public procurement. Perché non trasformare il programma ‘Buy American”, che penalizza le nostre imprese, con “Buy Transatlantic” che rifletterebbe meglio la profondità del nostro impegno?”[vi]. Ma, come ci ricorda l’ong Usa IATP, all’interno del programma si trova, ad esempio, anche il progetto Farm to school che, analogamente alla nostre Mense scolastiche bio o bioeque, ha permesso agli studenti delle scuole pubbliche e private di oltre 50 Stati Usa di mangiare cibo coltivato o allevato localmente al posti del cibo spazzatura diffuso nella maggioranza delle mense Usa, e ad aziende agricole locali piccole, medie ma soprattutto “pulite” di sopravvivere [vii]. E’ l’attacco frontale al “pensare globale-agire locale”, bestia nera dei nostri Governi[viii], delle nostre corporations e precondizione di molta parte della riconversione ecologica e sociale per la quale ci battiamo, e che potrebbe essere colpita al cuore dal TTIP, che sembra le dedicherà un capitolo intero di misure ad hoc[ix].
Ci permetta la ministro Briq, tanti di noi stanno lottando contro il TTIP, come contro tutte le altre operazioni simili di liberalizzazione commerciale, per permettersi il lusso di sognare ancora. Sogni che si toccano nelle associazioni, nei sindacati, nelle fabbriche recuperate, negli orti urbani, negli spazi di cultura e socialità, nelle case occupate, nei co-working, nei media alternativi, e che ci hanno consentito di resistere a quella desertificazione economica, sociale, emozionale e creativa dei nostri territori imposta come risposta a quella crisi che le loro politiche hanno generato. Il successo della prima Assemblea nazionale della Campagna Stop TTIP Italia che si è tenuta l’8 novembre scorso a Roma e che ha visto la partecipazione di circa un centinaio di attivisti e rappresentanti provenienti da altrettanti comitati e realtà locali lo ha dimostrato [x]. Siamo tanti, diversi, oltre 300 organizzazioni e più di mille donne e uomini di tutta Italia con percorsi, attitudini, culture e storie diverse alle spalle, ma con uno stesso obiettivo. Cambiare rotta, oltre il ciglio del baratro, con la capacità di chi faticosamente da anni apre strade per risalire, per farlo insieme a chi si lancia danzando, a chi precipita senza accorgersene. Chi oggi se la ride al sicuro, però, sappia che lo butteremo giù, con la forza delle nostre ragioni. E come ha ammesso per motivi tutti suoi persino D’Alema, abbiamo ragione e da tanto, troppo tempo.
Tratto dal Granello di Sabbia di Novembre – Dicembre 2014: “Riconversione ecologica”, scaricabile QUI
[i] L’intero intervento si trova qui http://www.feps-europe.eu/assets/eacd01d9-3190-4733-b07a-f98a520aa27f/speech%20mda%20.pdf?utm_source=Monthly+Newsletter&utm_campaign=fb5cb72d3b-Economic_news_n_37_23_2014&utm_medium=email&utm_term=0_4aea2f6f40-fb5cb72d3b-109312457
[ii] Il testo della dichiarazione si può scaricare qui http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_Data/docs/pressdata/en/ec/145769.pdf
[iii] http://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2013/march/tradoc_150737.pdf
[iv] Lo studio di Capaldo è disponibile sul sito della Campagna Stop TTIP Italia alla pagina Docs http://stop-ttip-italia.net/documenti/
[v] http://www.grain.org/article/entries/5070-trade-deals-criminalise-farmers-seeds#sdfootnote2sym
[vi] http://consulfrance-sanfrancisco.org/spip.php?article2819
[vii] http://www.iatp.org/blog/201411/trade-vs-local-economies-procurement-on-the-table#sthash.DzKtGswG.dpuf
[viii] La posizione Usa contro la localizzazione http://www.ustr.gov/trade-topics/localization-barriers
[ix] http://www.iatp.org/files/2014_05_01_Localization_KHK.pdf
[x] Un primo report dell’Assemblea e un servizio di Libera tv sulla giornata http://stop-ttip-italia.net/2014/11/10/stopttip-italia-riparte-da-roma/