Ripensare il mondo a partire dalla cura

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di Maite Ezquerro Sáenz, Mugarik Gabe y Red Decrecimiento y Buen Vivir

Il modello che oggi è in crisi e che si tenta di rimettere in piedi, è costruito su fondamenti etero-patriarcali, antropocentrici e capitalistici che mettono a rischio gli equilibri ecologici che consentono la vita e le relazioni di interdipendenza che ci sostengono come umanità. Pertanto, è essenziale promuovere processi educativi incisivi che approfondiscano le cause e gli effetti di quelle situazioni che vogliamo invertire e promuovano una coscienza critica e solidale.

Per andare verso un modello che metta la vita al centro, dobbiamo prendere in considerazione alcuni fattori fondamentali, come il fatto che abbiamo oltrepassato i limiti fisici del pianeta, il che obbliga all’inevitabile decrescita della sfera materiale dell’economia. Un altro fattore molto importante è l’interdipendenza, il che significa accettare che dipendiamo radicalmente dalla cura e dal tempo che altre persone ci dedicano, dal momento della nascita fino alla morte. Sebbene questo fatto possa sembrare ovvio, il capitalismo si è sviluppato voltando le spalle a questa dipendenza di base, tanto quanto all’evidenza che, come specie vivente, otteniamo dalla natura ciò di cui abbiamo bisogno per vivere, cioè siamo esseri eco-dipendenti. L’altro pilastro della transizione con giustizia sociale è la distribuzione della ricchezza, necessaria su un pianeta con risorse limitate. E infine, il fattore più allarmante, è la necessità di agire con urgenza. Assistiamo a un esaurimento delle risorse naturali, a un degrado degli ecosistemi e a un’alterazione del sistema ambientale globale, la cui manifestazione più inquietante è il cambiamento climatico, il che ci mette in stato di urgenza ecologica che richiede l’attuazione di misure immediate.

Passare ad altri modelli richiede che la cittadinanza si riconosca come soggetto politico attivo per la trasformazione. È molto importante partecipare, organizzare e mobilitarsi con altre persone per chiedere che le politiche pubbliche cambino, così come capire che anche la nostra vita quotidiana è rivoluzionaria. Inoltre, comprendiamo che realizzare tale transizione è possibile solo se lo facciamo a partire dal lavoro fatto insieme e dall’articolazione di discorsi, lotte e movimenti. Perciò, dalla Rete della Descrescita e del Buen Vivir e collettivi alleati di diversi settori (movimenti sociali, Organizzazioni Non Governative per lo Sviluppo, reti e sindacati) è stata lanciata la campagna «Tipi-Tapa Bagoaz: verso Vite SOStenibili », per socializzare e influenzare il contenuto della pubblicazione «Costruire collettivamente partendo da Euskal Herria: analisi e rivendicazioni per la costruzione di una società giusta ed equa, basata su stili di vita sostenibili». Questa pubblicazione è il risultato di un processo di riflessione e costruzione collettiva in cui raccogliamo tanto proposte e richieste rivolte alle istituzioni quanto proposte alternative a livello individuale e collettivo intorno a quattro assi principali:

■ Economia al servizio delle persone.

■ Decrescita energetica.

■ Sovranità alimentare.

■ Cura delle persone come uno dei pilastri della sostenibilità della vita.

Nell’ambito della campagna «Tipi-Tapa Bagoaz: Verso Vite SOStenibili» in cui siamo immerse, abbiamo effettuato varie azioni di sostegno alla rivendicazione delle proposte elaborate, è stato concordato un manifesto sottoscritto finora da 62 collettivi e si sono tenuti numerosi incontri con istituzioni basche. Inoltre, per socializzare i contenuti concordati, sono state realizzate diverse attività, come azioni di strada, spazi di dialogo in numerosi comuni, diffusione nei social network, presenza nei media, elaborazione di materiali pedagogici (fumetti, documentari o video di clown), ecc.. Nell’ambito del processo, e come culmine della campagna, celebriamo il Tribunale popolare per il diritto alla vita sostenibile (Bilbao 23 e 24 febbraio 2018), in cui sono stati segnalati casi di violazione di diritti da parte di imprese e Stati a livello locale e globale, in linea con i quattro assi su cui stiamo lavorando dalla rete.

Questo Tribunale Popolare denuncia la violazione di quattro diritti specifici:

■ Diritto al territorio e alla sovranità alimentare.

■ Diritto a un tenore di vita dignitoso.

■ Diritto ad un accesso equo e sostenibile all’energia e alla sovranità energetica.

■ Diritto alla cura. Sistemi di cura giusta, equa e corresponsabile.

In questo articolo spiegheremo alcune delle riflessioni, rivendicazioni e proposte concordate nel processo, relative all’asse sviluppato da Feminismos Desazkundea, La cura delle persone come uno dei pilastri della sostenibilità della vita, che sono ampiamente dettagliati nella pubblicazione citata. Inoltre, affronteremo la violazione dei diritti relativi alla cura presentata al Tribunale Popolare per il diritto alla Vita Sostenibile attraverso l’asse Diritto alla cura. Sistemi assistenza giusta, equa e corresponsabile.

Prendersi cura delle persone come uno dei pilastri della sostenibilità della vita[1]

Intendiamo la sostenibilità della vita come «tutte quelle attività e processi che rendono possibili vite vivibili universalmente, in equilibrio con gli ecosistemi (esseri viventi e ambiente) sia presenti che futuri » e pensiamo che all’interno del sistema capitalista non sia possibile generare vite vivibili universalmente che rispettino i limiti del pianeta. La logica dell’accumulazione del capitale e quella di sostenere la vita sono incompatibili: dobbiamo scegliere, la nostra scommessa è mettere la vita al centro del sistema economico e sociale, al posto del capitale. Ci concentriamo sulla cura delle persone, come uno dei pilastri che sostengono la vita. Crediamo che la sostenibilità della vita sia responsabilità dell’intera società, tuttavia l’attuale organizzazione sociale dell’assistenza è molto ingiusta. L’assistenza non è intesa come una responsabilità collettiva, quindi non agiamo corresponsabilmente, la soddisfazione dei bisogni di assistenza ricade sulle famiglie e all’interno di queste principalmente sulle donne (gratuite “per amore” o retribuite, spesso in condizioni precarie), quindi il risultato è una distribuzione del lavoro di cura basata sulla disuguaglianza di genere, etnia e classe sociale.

E’ evidente l’incapacità dell’economia di mercato a soddisfare i bisogni di assistenza in modo socialmente equo, oltre che a dare risposta ai bisogni globali della vita in modo eco-sostenibile. Per andare verso un modello che metta la vita al centro del sistema dobbiamo tenere conto dei criteri di giustizia sociale, per i quali una chiave è che la soddisfazione dei bisogni sia universalmente soddisfatta e un’altra è che la giustizia sociale non è sostenibile in un sistema di dominio attraversato da disuguaglianze di genere, di classe o etniche. Inoltre, la soddisfazione dei bisogni deve realizzarsi entro i limiti fisici del pianeta, mettendo in discussione nel nostro modo di vivere  la centralità della produzione, del lavoro e del consumo. «Insomma, dobbiamo chiarire quali tipi di strutture sono potenzialmente valide sia quando si allocano risorse finite sia quando si tratta di rispondere alle domande su: quali bisogni soddisfare? Per chi soddisfarli? Come soddisfarli? con l’obiettivo di vivere vite che meritino l’allegria di essere vissute».

Per avanzare su questa strada abbiamo concordato una serie di proposte e rivendicazioni rivolte tanto alle istituzioni quanto a livello individuale e collettivo. Di seguito ne condividiamo alcune, che sono prioritarie nell’elaborazione di un manifesto per la socializzazione e l’incidenza dei contenuti del processo.

Estratto dal Manifesto della Campagna Tipi-Tapa Bagoaz! Verso vite sostenibili. La cura delle persone come uno dei pilastri della sostenibilità della vita

Cosa proponiamo:

■ Ridurre il tempo dedicato all’occupazione e la distribuzione dei lavori retribuiti tra l’intera popolazione in età lavorativa

■ Distribuire equamente tra uomini e donne tutti i lavori di cura necessari per la sostenibilità della vita

■ Rendere visibile la nostra condizione di esseri eco-dipendenti e interdipendenti

■ Facilitare la creazione di spazi pubblici in cui autogestire collettivamente, democraticamente e comunitariamente i bisogni di una vita sostenibile, come l’assistenza di persone, le mense comunitarie, i giardini urbani, le lavanderie, lo scambio di oggetti e di conoscenza, gli spazi per il tempo libero e l’incontro intergenerazionale, ecc.

■ Promuovere l’accesso al sistema di assistenza come diritto universale, che deve essere garantito da parte delle istituzioni pubbliche (attraverso la professionalizzazione del settore, gli aiuti e tutte le misure necessarie).

■ Garantire la sanità e l’istruzione pubbliche, di qualità, ad accesso universale e gratuito.

■ Integrare trasversalmente nelle materie scolastiche l’approccio alla sostenibilità della vita: cosa sono i bisogni vitali di base e quali attività li soddisfano e come eseguirle.

■ Equiparare il congedo di maternità e paternità non trasferibili e pagati al 100%.

■ Abbinare i diritti delle lavoratrici domestiche allo statuto dei lavoratori.[2]

■ Ridurre il divario salariale della società per raggiungere livelli da 1 a 3.

Diritto alla cura. Sistemi di assistenza giusti, equi e corresponsabili [3]

Nell’ambito dello stesso processo di lavoro in rete, abbiamo organizzato insieme il Tribunale  Popolare per il Diritto a Vite Sostenibili, in cui, per denunciare violazioni dei diritti umani legate alla  organizzazione sociale dell’assistenza da un punto di vista globale, sono stati selezionati due casi specifici di collaboratrici domestiche, uno locale e uno internazionale. Entrambi i casi sono rappresentativi di un folto gruppo di donne lavoratrici domestiche che hanno visto violati i loro diritti: le loro testimonianze ci permettono di capire come questo modello di organizzazione sociale colpisce la quotidianità e la vita delle persone.

Il caso di Floriberta Roblero[4]  rende visibile la situazione di violenza e sfruttamento che le donne immigrate affrontano a Tapachula (città di confine nello stato del Chiapas, tra Messico e Guatemala). Sono molte le giovani donne guatemalteche che migrano, sono stigmatizzate come straniere “senza documenti”, povere, ignoranti, indigene, “serve”, “donne di strada », ecc. e devono affrontare il razzismo, il classismo e il machismo. Inoltre, l’offerta di lavoro per loro si concentra nel lavoro agricolo, nell’industria del sesso, nell’intrattenimento o nel lavoro domestico e di cura. Flori era emigrata a Tapachula all’età di 14 anni per contribuire all’economia familiare, lavorando come tirocinante in condizioni di lavoro molto difficili, con un solo giorno di riposo a settimana, senza ferie o giorni festivi e con una giornata di lavoro dalle 6 del mattino alle 12 di notte, senza diritto ad avere una vita propria, tempo libero, salute, sessualità, ecc. Quando rimase incinta, fu licenziata e quando ebbe problemi di salute fu costretta a tornare al suo luogo di origine, vedendosi negato il suo diritto alla maternità e alla salute. A ciò dobbiamo aggiungere i rischi di entrare e uscire dal Paese, nonché quelli di detenzione per le persone senza permesso di soggiorno. Flori ha incontrato lo Spazio Femminile e fondato la rubrica radiofonica «La voce del Parco», uno strumento comunitario per informare le donne migranti sui loro diritti.

Il caso di Pilar Gil Pascual[5]  ha molto in comune con quello di Flori. È anche lei emigrata da adolescente da un ambiente rurale e da una situazione familiare di povertà (Roa de Duero, in Castilla y León) in un ambiente urbano (Bilbao) in cerca di opportunità di lavoro. Al suo arrivo nel 1958, lavorava come domestica interna e successivamente come esterna. Pilar racconta la sua esperienza come governante, denunciando le umiliazioni, gli abusi, i maltrattamenti e la mancanza di riconoscimento che ha dovuto affrontare. Inoltre, la sua testimonianza mostra la pressione che le donne subiscono quando sviluppano un lavoro di cura gratuito e non riconosciuto, come nel caso dell’obbligo di prendersi cura dei familiari o delle persone vicine, vittime di ricatti emotivi e di colpevolizzazione da parte dell’ambiente familiare e sociale. Pilar ha deciso di scegliere liberamente di chi prendersi cura, ribellandosi al mandato della divisione sessuale del lavoro, e inoltre partecipa attivamente ai movimenti sociali per la difesa dei diritti di tutte.

Questi casi ci mostrano come il mancato riconoscimento dei lavori di cura subito dalle donne, si traduca in una situazione di disuguaglianza e ingiustizia sia sociale che legale che economica. Pertanto, vogliamo rivendicare e riconoscere l’importanza e la centralità che i lavori correlati con la cura hanno rispetto alla sostenibilità della vita.

Per soddisfare le esigenze di cura di una società, ci sono vari agenti che possono intervenire: le istituzioni pubbliche, le imprese, il terzo settore, la comunità e le famiglie. Tuttavia, ci si scontra con il fatto che l’organizzazione sociale di cura è ingiusta a livello globale, basandosi sul lavoro di cura non retribuito, svolto principalmente dalle donne nelle famiglie e nel lavoro domestico, anch’esso per lo più svolto da donne in condizioni di lavoro precarie, cosa che si verifica in diversi paesi del mondo. Il lavoro domestico è sempre stato un lavoro da “donne povere”, quindi estremamente  caratterizzato da disuguaglianze di genere, classe, etnia o status migratorio, e che nel contesto della globalizzazione si è internazionalizzato, dando origine al fenomeno noto come catene globali della cura. Questa forma ingiusta di organizzazione della cura implica “l’esistenza di due classi sociali: una che può esigere di ricevere cure e l’altra che deve darle» (Pérez Orozco, 2017).

Possiamo dunque affermare che c’è un rifiuto sistematico del diritto alla cura. ONU Donne [la Commissione ONU sulla condizione delle donne nel mondo, NdT] definisce così (2014) il diritto alla cura:

“Diritto proprio e universale di tutta la cittadinanza, nel duplice significato di cittadini/e che hanno bisogno di cure e di quelli che se ne prendono cura. È un diritto multidimensionale che implica: 1) il diritto a ricevere le cure necessarie in diverse circostanze e momenti del ciclo di vita, evitando che questa necessità dipenda dalla disponibilità individuale di reddito e dai legami familiari o affettivi; 2) il diritto di scegliere se farsi assistere o no, coniugando il diritto all’assistenza in condizioni degne con il diritto di ricevere cure (cioè assistere non è un obbligo nell’ambito dei ruoli di genere e prestare assistenza non è in conflitto con il godimento di altri diritti).

Il diritto all’assistenza deve essere per tutte le persone, cioè universale. “Il diritto a non curare non  implica il disinteressarsene, ma ripensare la responsabilità della cura come qualcosa che riguarda l’intero gruppo sociale. E, di conseguenza, il diritto a non garantire assistenza implica perciò la possibilità di scegliere chi assistere  e di delegare l’assistenza quando contraddice altri diritti fondamentali» (Pérez Orozco, 2017).

Per progredire verso un sistema giusto di organizzazione delle cure dobbiamo iniziare riconoscendo il Diritto all’Assistenza, come ha fatto la Giuria del Tribunale Popolare per il Diritto alla Vita Sostenibile nella sua sentenza e continueremo a lottare per elevare allo status di diritto questa realtà invisibile e ingiusta. Perché vogliamo un mondo “in cui non ci prendiamo cura delle vite che sono possibili solo a spese di altri, ma delle vite che meritano la gioia di essere vissute da tutte-tutte-tutte» (Pérez Orozco, 2017). La sentenza della giuria[6] del Tribunale popolare per il diritto a vite sostenibili in relazione ai casi di Floriberta e Pilar è scritta come segue:

Denuncia e condanna:

  1. La cultura dello sfruttamento lavorativo delle lavoratrici domestiche migranti, accettata se non promossa da diversi attori statali e istituzionali che decidono di ignorare il quadro normativo esistente e incompleto negli Stati interessati.
  2. La mancanza di riconoscimento e di memoria storica sui contesti che hanno portato le donne a migrare e la situazione di vulnerabilità in cui sono state relegate sia nel contesto della guerra civile e il dopoguerra spagnolo sia nel genocidio del Guatemala.
  3. Le pratiche razziste, machiste, etero-patriarcali e colonialiste degli Stati di Messico e Guatemala e dello Stato spagnolo, che assegnano esclusivamente alle donne la responsabilità della cura e le obbligano a giorni di lavoro doppi e tripli.
  4. La legislazione obsoleta dello Stato spagnolo, che, nonostante i recenti cambiamenti nel 2011, non garantisce ancora i diritti del lavoro delle lavoratrici domestiche.
  5. I privilegi goduti e difesi da uomini, imprese, governi, oligarchie e istituzioni che beneficiano dello sfruttamento delle lavoratrici domestiche e della “catena di cura”.
  6. I datori e datrici di lavoro di Tapachula, in Messico, ed Euskal Herria [Paese Basco, NdT] per lo sfruttamento delle lavoratrici domestiche, il trattamento degradante e le situazioni di molestie sessuali e stupri che queste subiscono sistematicamente.

Sollecita gli Stati a:

  1. Riconoscere il diritto universale alla cura, inteso come: a) il diritto a ricevere assistenza in circostanze specifiche e in momenti diversi del ciclo di vita, evitando che questa necessità dipenda della disponibilità individuale di reddito e da legami familiari o affettivi; b) il diritto di scegliere se vuoi garantire assistenza o meno, combinando il diritto all’assistenza in condizioni decenti con il diritto a ricevere assistenza.
  2. Ratificare la Convenzione ILO n.189 sul Lavoro dignitoso per le lavoratrici e i lavoratori domestici, adattando la legislazione esistente sulle lavoratrici e i lavoratori domestici ai parametri internazionali di protezione dei loro diritti umani.

Note:

[1] Sezione del capitolo “La cura delle persone come uno dei pilastri della sostenibilità di vita”, preparata da Feminismos Desazkundea per la pubblicazione “Costruire un collettivo da Euskal Herria: analisi e richieste per la costruzione di una società giusta ed equa basata su stili di vita sostenibili”. https://www.decrecimientoybuenvivir.info/wp-content/uploads/sites/4/2016/06/EHtik-eraiki-CAS_WEB.pdf

[2] Convenzione sul lavoro dignitoso per le lavoratrici e lavoratori domestici (entrata in vigore: 05 settembre 2013) C189-2011.

[3] Questa sezione si basa sul Rapporto sull’asse del diritto alla cura della corte popolare per il diritto a vite sostenibili realizzato da Amaia Pérez Orozco, nei casi documentati da CDH Fray Matías de Cordova AC e da Desazkundea e Bruges e altri femminismi come nella risoluzione emessa dalla giuria della Corte https://www.decrecimientoybuenvivir.info/es/tr Court-popularvidas-sostenibles/ Di seguito è citato come Pérez Orozco, 2017.

[4] Organizzazione che lo documenta: CDH Fray Matias de Cordova AC.

[5] Organizzazioni che lo documenta: Feminismos Dsazkundea e Brujas y Diversas.

[6] Formata da Patricia Bárcena García, Aura Lolita Chávez, Yayo Herrero López, Yolanda Jubeto Ruiz, Júlia Martí Comas, Maria Eugenia Rodriguez Palop, Janaina Strozake e Begoña Zabala González.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 44 – Numero speciale di Marzo 2020. Dossier dell’associazione Economistas sin Fronteras: “Economia Femminista: Visibilizzare l’invisibile

 

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