Barcellona, 8 marzo 2018 (Credits Fotomovimiento.org)
di Justa Montero Corominas
Attivista del movimento femminista
L’8 marzo[1] milioni di donne sono scese in piazza chiamate dal movimento femminista. Questa data passerà alla storia come il giorno della più grande mobilitazione femminista che si ricordi nello Stato spagnolo, e sarà registrata nella storia di vita di ciascuna delle donne che ha condiviso l’emozione di quel grido collettivo, indignato, rivendicativo, speranzoso e pieno di quelle motivazioni che lanciammo l’8 marzo.
I «collettivi femministi dell’8M» hanno messo al centro della piattaforma le diverse esperienze e le concrete condizioni di vita di noi donne, che, in modo massiccio, siamo chiamate ad esprimere i disagi accumulati e la fatica delle ingiustizie che attraversano la nostra vita e il modo in cui la società le tratta. Perché ci uccidono e ci aggrediscono sessualmente; perché le nostre vite sono precarie e attraversate da ingiustizie e disuguaglianze; perché ci parlano dell’uguaglianza ingannevole e dei cambiamenti che non arrivano mai; perché non c’è posto in cui il machismo non segni la nostra vita quotidiana, manifestandosi in molti modi diversi. Le donne hanno detto BASTA: vogliamo vite dignitose, un altro modo di relazionarci e un’altra società, e non siamo disposte ad aspettare ancora.
È stata una protesta globale, chiaramente politica, piena di emozione e ragione (due elementi essenziali per la rivolta femminista), in risposta a un appello che ha richiesto un cambiamento e il cui impatto politico, sociale e mediatico deve essere valutato in tutte le sue dimensioni.
Il carattere femminista della mobilitazione è stato inequivocabile, così come lo era il protagonismo del movimento femminista sin dalla sua convocazione e organizzazione. A questo appello hanno risposto per la prima volta molte donne che non si erano mai sentite prima attratte dal femminismo, ma che, indossati gli occhiali viola che sono stati offerti loro, hanno riconosciuto in quella proposta alcuni dei loro disagi e si sono unite alla protesta. Un disagio che ha le sue radici in vari motivi personali, spesso nascosti nel privato, che la mobilitazione ha trasformato in politiche.
In questo modo, lo sciopero femminista ha costruito un “noi”, il soggetto politico, critico nei confronti del binarismo, senza il quale la rivolta non sarebbe possibile. L’8M, inteso in tutta la sua ampiezza come un processo che include le innumerevoli manifestazioni finali, ha accordato una legittimità incontestabile al movimento femminista, che, in questo modo, si riconferma come riferimento per le donne nelle loro aspirazioni di vita diversa, trasformandosi anche in una speranza per l’intera società.
Rispondere alla domanda su come si è arrivate a questa gigantesca ribellione, che è stata anche la più grande mobilitazione sociale da molti anni nello Stato spagnolo, passa dal capire come questa possibilità va maturando da un movimento femminista autonomo. Come ogni movimento sociale, ha i suoi processi di accumulazione di forze, i suoi momenti di riflessione e, come esempio, ci sono le Giornate organizzate dal «Coordinamento statale delle organizzazioni femministe» (Granada, 2009), un autentico laboratorio di messa a confronto di idee, proposte e azioni: il femminismo del 15M (2011)[2]; le mobilitazioni per il diritto di decidere sul proprio corpo e contro la violenza machista (2014 e 2015); lo sciopero internazionale delle donne (2017); il lavoro costante dei gruppi e quello delle femministe senza gruppo; l’attivismo nei network/reti sociali; il crescente interesse per la teoria femminista; la maggiore presenza nelle istituzioni e in tutti gli spazi di un movimento inter-generazionale, con una crescente leadership di giovani donne.
E per analizzare questo successo, dobbiamo concentrarci sui processi profondi attraverso i quali è possibile connettere i nostri disagi con la capacità del movimento femminista di dare loro una propria espressione politica. Perché il movimento che convoca lo sciopero era già lì, sebbene molte e molti non potessero o non volessero vederlo.
Dalla «Commissione femminista 8 M» si è ripetutamente insistito, quando c’era ancora chi esprimeva reticenze, che sarebbe stato un fatto storico a partire dal quale nessuno poteva guardare dall’altra parte, e che avrebbe segnato un prima e un dopo, e così è stato. Il primo l’abbiamo conquistato, il dopo lo stiamo costruendo.
Lo sciopero è stato vinto prima dell’ 8 marzo
Giovedì 8 marzo lo sciopero era già vinto. Si convocava a uno sciopero dal lavoro, dal lavoro di cura, dal consumo e dallo studio; si trattava di mobilitarci durante tutto il giorno e di manifestare in molte. Ma è stato anche, fondamentalmente, il processo messo in moto da centinaia di attiviste che lo hanno inteso come inizio di un percorso di cambiamento nella coscienza e nelle pratiche delle donne. Si è diffuso per mesi come una macchia d’olio che alla fine ha raggiunto ogni angolo. Un processo in cui ogni femminista si è convertita in una scioperante.
La proposta ha raggiunto tutte le donne. Il dibattito avviato ha messo radici in città e quartieri, istituti e università, luoghi di lavoro, aziende, ospedali e nelle stesse case. E la risposta ha solo ampliato quella macchia d’olio: nelle azioni e nei colloqui con molte donne e alcuni uomini, si è passati dalla sorpresa per la proposta di uno sciopero femminista all’interesse per i contenuti, fino all’identificazione con i problemi che venivano evidenziati e alla determinazione per metterlo in pratica e realizzarlo in ogni ambito e territorio. Così si è garantito il successo dello sciopero, creando un tessuto sociale femminista.
Lo sciopero è stato vinto perché si è vinto il dibattito e si è trasformato in una volontà di rendere collettiva la protesta. L’hanno fatta propria gruppi di donne molto diversi, trasformandola nello sciopero di tutte: dalle lavoratrici domestiche alle pensionate, dalle studenti alle dipendenti precarie, dalle lesbiche e trans alle migranti, alle ambientaliste e a quelle che lottano per la casa e contro la povertà energetica, eccetera eccetera.
L’organizzazione delle giornaliste, dopo il manifesto “Noi giornaliste scioperiamo” con oltre 7000 firmatarie, ci ha regalato lo stesso giorno 8 un “blackout” di 24 ore nelle redazioni di praticamente tutti i media, in cui i giornalisti hanno coperto le notizie mostrando, come si proponeva lo sciopero, “il vuoto lasciato dalle donne”. Sono stati determinanti nella diffusione dello sciopero e uno straordinario megafono dello stesso. E il dibattito sulle condizioni di vita delle donne si è fatto largo in tutti i tipi di associazioni, entità, organizzazioni, perché in tutte c’erano donne in cerca di un sostegno attivo e in tutte hanno trovato una risposta entusiasta.
La conclusione è che in strada il femminismo ha conquistato l’egemonia e ha stabilito l’inizio di un nuovo sentimento comune. Un evento storico basato sull’esistenza e sul lavoro di un movimento con un’esperienza e un discorso sugli effetti che nella nostra vita hanno le zampate del patriarcato e dell’uscita neo-liberale dalla crisi. Anche perché sin dai suoi inizi è stato un processo partecipativo, consensuale, orizzontale e con molte pratiche apprese dal 15M. Un movimento che viene da lontano e che non si è mai arreso.
Credits: Fotomovimiento.org
Uno sciopero economico?
Il femminismo torna a proporre nuove forme di protesta sociale. Come altre volte, rende visibile e denuncia i limiti concettuali per spiegare una realtà che sotto questo sguardo risulta andro-centrica. In questo caso, il concetto è quello di “sciopero” e di cominciare a ridargli significato, adattandolo alla realtà delle donne. Il risultato della proposta di sciopero femminista sta proprio nella sua natura innovativa: trascende il concetto tradizionale, inteso come sciopero del lavoro nel campo della produzione, per estenderlo al campo della riproduzione sociale, del lavoro di cura e dei lavori domestici che fanno le donne. Pertanto, il termine “sciopero” assume un altro significato.
Lo sciopero femminista suppone proprio una sfida perché dopo l’8M uno sciopero non potrà mai più essere definito “generale” se non contempla quello del campo del lavoro di cura. A partire da questa data, uno sciopero ridotto all’ambito della produzione sarà sempre uno “sciopero parziale”. Il potere della proposta sta proprio nella sua capacità di collocare la centralità dei lavori di cura, articolandoli con i lavori nel campo produttivo e collocandoli come parte dello stesso processo economico.
Tutto ciò ha avuto implicazioni pratiche e ci sono sfide derivanti da questa esperienza che sono indirizzate principalmente ai sindacati maggioritari a livello nazionale. CC OO e UGT[3] sono stati sopraffatti dalla dinamica dello sciopero; per essere in ritardo; per averlo circoscritto a uno sciopero di due ore e per non aver risposto alla richiesta del movimento femminista di uno sciopero di 24 ore, nonostante il disaccordo e le proteste di molte affiliate; per non sostenere, di fatto, lo sciopero del lavoro di cura e dei consumi; inoltre, per non ridefinire il ruolo degli uomini (la maggioranza tra i lavoratori stipendiati e i soggetti protagonisti nei tradizionali scioperi del lavoro) in uno sciopero delle donne.
Lo sciopero dal lavoro si rivolgeva a tutte le donne con lavoro retribuito ed è stata seguito da molte più donne di quanto inizialmente si pensasse. Quelle che non hanno potuto, a causa della precarietà delle loro condizioni di lavoro, hanno trovato altri modi per partecipare allo sciopero dal lavoro di cura, partecipando alle assemblee preparatorie; alcune hanno dovuto prestare servizi minimi; la casistica è enorme. C’erano molti modi per scioperare. «Io per loro e loro per me» cantavano migliaia di donne che si sono radunate la mattina del 8 sotto il Municipio di Bilbao. Questa immagine, che è divampata come un incendio e ci ha commosse tutte, riflette chiaramente lo spirito della convocazione: tutte siamo in sciopero.
Prima di affrontare brevemente il tema dello sciopero del lavoro di cura, voglio aprire una parentesi per riprendere, come parte della genealogia femminista, gli scioperi che, nel corso della storia, hanno visto le donne protagoniste nel miglioramento delle loro condizioni di lavoro. Abbiamo alcuni esempi recenti in cui, inoltre, hanno vinto, come quelli fatti dalle lavoratrici delle residenze a Bizkaia[4] e dalle donne di «Bershka» a Pontevedra[5].
Tornando alla storia di 8M, lo sciopero della cura si costruisce a partire da molte piccole storie personali, familiari e di quartiere, che hanno anche reso visibile il vuoto che creiamo quando smettiamo di fare questi lavori, e come un semplice «Manolo, tesoro, pulisci il culo al bambino» sconvolga i programmi e le abitudini di coloro che non sono soliti corresponsabilizzarsi.
Ci sono molte esperienze da recuperare, come ad esempio il risultato dell’appello a pensare a soluzioni comunitarie, che ha avuto il suo riflesso nei quartieri nei “punti di cura” organizzati da gruppi di uomini. E così si è ampliato il dibattito sul lavoro di cura: la sua corresponsabilità, le condizioni di lavoro di chi lo fa, dentro e fuori le case e nel mercato, le risorse pubbliche, il modello di città o le catene di cura globali.
Ma la proposta di sciopero femminista ha introdotto un’altra complessità, perché quello che potrebbe essere un paradosso è diventato un elemento di grande interesse: è stato convocato uno sciopero che ha un evidente carattere economico (lo è non andare al lavoro, smettere di fare il lavoro di cura e non consumare) per ragioni che non si riferiscono solo alla dimensione economica della nostra oppressione o sono motivate solo dal funzionamento economico del sistema capitalista.
Perché le ragioni che ci hanno portato allo sciopero hanno a che fare anche con i nostri corpi, il nostro diritto di decidere, con il riconoscimento di identità non normative, con il diritto a vivere libere dalla violenza sessista, libere da ogni razzismo. Diritti individuali che il femminismo rivendica nel quadro della giustizia sociale e attraversati da altri assi della disuguaglianza sociale come classe, “razza”, età, status migratorio, identità di genere, abilità, scelta sessuale. Ciò determina il modo in cui noi donne li viviamo, li sentiamo e li rivendichiamo a partire da come siamo situate in queste gerarchie sociali.
L’approccio e la risposta allo sciopero parla anche del significato politico delle esperienze e delle soggettività per comprendere i nostri percorsi di vita, dei diversi modi di percepire e vivere le manifestazioni del patriarcato e, quindi, di rispondere a queste. Un antidoto, inoltre, a qualsiasi tendenza a stabilire un modo di essere, di sentire e di sognare uniforme e rigido.
La piattaforma con cui si chiama allo sciopero risponde a un’articolazione di quanto sopra esposto, degli elementi di ridistribuzione con quelli del riconoscimento; tra la dimensione economica ed ecologica e quella culturale e sociale che sostengono il sistema patriarcale, capitalista, razzista, etero-normativo e biocida contro il quale ci ribelliamo.
In questa articolazione, difficile da trovare nel discorso di altri movimenti e attori politici, sta la forza trasformativa della proposta fatta dall’ 8M. Si riflette nel suo manifesto e nell’agenda che definisce. Ma la sfida non è tanto quella di installare la diversità nell’immaginario, e nemmeno solo nei discorsi, quanto farlo nelle politiche concrete, all’ordine del giorno, come sottolineato da giovani donne, migranti, lesbiche, trans, con diversità funzionale. Perché un trattamento astratto delle donne che non “affondano le loro radici nella loro esperienza concreta” finisce per essere escludente e quindi sterile.
L’8M ha significato un passo molto importante per un femminismo che stava già considerando fondamentale articolare il centro comune partendo dalla diversità, mettere le nostre esperienze in relazione con le strutture sociali di dominio e con le relazioni sociali della disuguaglianza. Questo fa parte del successo della proposta e del monitoraggio dello sciopero. È l’impulso della quarta ondata femminista. Ma anche, sulla tabella di marcia segnata dal femminismo, ha messo la patata (non la palla) su diversi tetti: anche in quelli di coloro che lottano per un cambiamento economico e sociale radicale per rendere possibile un nuovo senso comune.
Il giorno dopo
Ancora con i postumi della sbornia di quanto vissuto, è tempo di pensare al “che fare ora”, nella gestione del risultato di una mobilitazione che ha reso esplicita una duplice richiesta: quella del cambiamento culturale, nelle idee, nei comportamenti, negli atteggiamenti che determinano brutalmente la vita delle donne (e basta guardare all’impunità sociale della violenza machista, dagli omicidi alle molestie nelle strade) e nei cambiamenti normativi, leggi, risorse e strutture.
Questo, che senza dubbio è un punto di forza della mobilitazione, dovrà esserlo anche dell’agenda femminista. La lettura de “la strada” è quella dell’ampiezza dei sentimenti, delle rivendicazioni e delle proposte gridate, cantate e riprodotte in mille modi. Un’agenda che, come spiegano i documenti sullo sciopero, ha a che fare con le urgenze e con uno sguardo verso un altro orizzonte; che non può concentrarsi solo su un aspetto o su una formulazione, sia esso il corpo, la cura, un tipo di violenza, oltrepassando i riduzionismi, siano essi economici o culturali.
La mobilitazione ha lanciato una richiesta di cambiamento. Il suo effetto si può già vedere in molte reazioni delle donne che iniziano a nominare il loro disagio, ad affrontarlo, a sollevare piccoli e grandi cambiamenti, raccogliendo la sfida “il personale è politico”. E la proposta collettiva parla di un’altra vita per le donne, socialmente ed ecologicamente sostenibile, di una proposta di cambiamento, nel senso forte del termine, di una trasformazione sociale profonda.
La potenza della mobilitazione ha smosso tutto, anche la destra neo-liberale che è passata dalla dequalificazione al tentativo di spaventare, smobilitare e limitare la portata dello sciopero. Non ce l’ha fatta. Ma cercherà di contestarne la narrazione, incluso il termine “femminista”, facendo apparire le discriminazioni come semplici disfunzioni del sistema, considerando le rivendicazioni sopportabili per il sistema, partendo da un approccio di pari opportunità tra uomini e donne, accompagnate da politiche economiche, sociali e di tagli delle libertà che non fanno altro che rendere oltremodo insopportabili le disuguaglianze.
Esiste la trasversalità del femminismo, così come la lotta per il suo significato, perché esiste il conflitto. L’interpretazione dei bisogni delle donne e l’orizzonte in cui possono essere risolti si scontra con le politiche patriarcali, neo-liberali, razziste, etero-patriarcali e repressive. Conosciamo i limiti, sempre più grandi, di ciò che può offrire un sistema per cui le disuguaglianze sono strutturali e necessarie per il suo funzionamento. Ecco perché le critiche al sistema sono ineludibili.
Ho scritto all’inizio che 8M è una data storica, che nei nostri occhi è impressa l’emozione collettiva di quel giorno nelle strade. Non posso concludere senza menzionare cosa significasse per me far parte di quel folto gruppo di donne che ha lavorato per molti mesi e ha vissuto intensamente questo processo collettivo. I forti legami creati da ciò che abbiamo appreso dalle nostre diversità, gli impegni e le risate, i messaggi roventi, il sostegno reciproco quando eravamo depresse, l’entusiasmo, la creatività e la grande intelligenza collettiva. Così possiamo arrivare dove ci proponiamo. E, naturalmente, il riconoscimento e la gratitudine infinita per le donne che, nel minuto 0, hanno avuto l’intelligenza, la visione politica e la decisione necessarie per porre la sfida di questo straordinario sciopero femminista.
Credits: EFDiversas
[2] Il 15 maggio 2011 iniziò la mobilitazione de l@s indignad@s – ndt
[3] CC OO: Commissioni Operaie, confederazione sindacale spagnola; UGT: Unione Generale dei Lavoratori, tra i più importanti sindacati spagnoli, storicamente vicino al Partito Socialista Operaio Spagnolo – ndt
[4] Ci si riferisce alle donne che svolgono lavori di cura nelle residenze per anziani e che hanno organizzato un grande sciopero a Bizkaia, costringendo sindacati e parte datoriale a giungere ad un accordo. qui alcune info: https://www.elsaltodiario.com/bizkaia/las-trabajadoras-de-las-residencias-de-bizkaia-ponen-fin-a-la-huelga – ndt
[5] Azienda di vestiti del gruppo Inditex (di cui fa parte Zara). Qui qualche info:https://www.publico.es/sociedad/inditex-trabajadoras-bershka-desconvocan-huelga-pontevedra-subida-salarial-120-euros-mes.html – ndt
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 44 – Numero speciale di Marzo 2020. Dossier dell’associazione Economistas sin Fronteras: “Economia Femminista: Visibilizzare l’invisibile”