di Raphael Pepe
Lo scorso 24 Gennaio, il governo Letta ha approvato un decreto ministeriale per avviare il processo di privatizzazione delle Poste Italiane. Si tratta senz’altro di una scelta che era prevedibile, in quanto logico seguito del processo di liberalizzazione dei servizi postali imposto dall’Unione Europea. Già nel 1997, con la direttiva (97/67/CE) si era imposta l’apertura di un primo settore delle poste alla concorrenza, con le successive direttive del 2002 (2002/39/CE) e del 2008 (2008/6/CE) é tutto il servizio postale ad essere stato liberalizzato.
In Italia, già nel 1998, Poste Italiane diventa una società per azioni; come negli altri paesi europei, questa sarà l’occasione di frammentare i settori di attività dell’azienda. Se oggi si parla di privatizzazione di alcuni settori di attività del gruppo, é possibile grazie alla moltiplicazione delle filiali di Poste Italiane S.p.a e l’ubicazione negli ultimi anni di molti servizi in società partecipate della stessa. La trasformazione giuridica del gruppo ha anche permesso una moltiplicazione dei settori di attività: dalla telefonia mobile con PosteMobile S.p.a all’attività di cargo e charter con la Mistral Air S.r.l.
Per capire meglio quali siano gli effetti della privatizzazione sui servizi postali, é interessante vedere quanto successo nei paesi europei che hanno già conosciuto questo processo.
La Svezia ha aperto il settore postale alla concorrenza nel 1993, ossia due anni prima del suo ingresso nell’UE. Nel 1994, trasformava l’azienda in una SRL, la Posten AB. La Svezia batte tutti i record di prezzi nel settore, con il francobollo più caro d’Europa, il cui prezzo é stato aumentato del 90% tra il 1993 e il 2003. Nello stesso periodo, il numero di postini é diminuito di un terzo, così come gli uffici postali. Inoltre, molti servizi sono stati trasferiti in piccoli supermercati. Nel 2003, Posten ha evitato per poco la bancarotta.
Nel Regno-Unito, le Poste e la Telecom non sono state risparmiate dall’istinto privatizzatore della Thatcher. Nel 1981, la Post Office Corporation fu divisa in due società di statuto privato: la British Telecom e The Post Office. Sarà poi il governo Blair a privatizzare quest’ultima in un modo veloce quanto disorganizzato. La Posta prende allora il nome di Consignia, ma l’operazione é stata così disastrosa che il governo decise di rinazionalizzare la società. Le perdite dovute a queste trasformazioni sono state valutate a circa 1,5 miliardi di sterline. Con il nome di Royal Mail, é oggi una S.p.a a totale capitale pubblico; ma con la totale liberalizzazione avvenuta nel 2006 e la conseguente feroce concorrenza della società francese La Poste e dell’olandese TNT, sono stati chiusi ben 2.500 uffici postali, i salari sono stati congelati, i piani pensionistici sono stati riorganizzati, molti posti di lavoro sono stati cancellati, il lavoro part-time é stato generalizzato.
Lo stesso ritornello, si è sentito anche nei Paesi Bassi con la trasformazione della Koninklijke PTT Nederrland NV (KPN) in S.P.A nel 1989 e la liberalizzazione di alcuni servizi postali. Nel 1994, la KPN apre il suo capitale per poi fondersi con l’australiana Thomas Nationwide Transport (TNT) nel 1996. Due anni dopo TNT Post Group e KPN si separano e la prima diventa l’operatore postale numero uno del paese. Il gruppo TNT express opera in molti paesi a livello internazionale, ma dal 2008 circa il 15% dei posti di lavoro è stato soppresso a livello nazionale e nel 2009, il 70% della mano d’opera lavorava già a tempo parziale. In Olanda sono rimasti circa 600 uffici postali, e sono 1300 gli esercizi commerciali a sopperire a questi servizi.
Con la liberalizzazione dei servizi postali e la privatizzazione, gli effetti sono sempre gli stessi: tagli sul lavoro, diminuzione del numero di uffici postali e logico peggioramento del servizio. Le Poste non garantiscono più un servizio ai cittadini: ragionano in termini di mercato. Gli uffici postali che sono meno remunerativi per l’azienda vengono chiusi e spesso si arriva al punto che in alcune zone rurali la posta non é nemmeno più consegnata. Il numero di posti di lavoro viene fortemente ridotto e le condizioni dei lavoratori peggiorate, con contratti sempre più precari. In Italia, dal 2006, il numero di uffici postali é già stato dimezzato e Poste Italiane S.p.a conta più di 2.000 concorrenti sui servizi postali.
Con la trappola del debito pubblico e la necessità di fare cassa, l’Italia sta per svendere l’ennesima azienda pubblica a discapito dei cittadini, mito di cui, a ben guardare le cifre, emerge chiaramente la falsità: con la privatizzazione del 40% del gruppo, saranno circa 4 miliardi di euro ad entrare nelle casse dello Stato, il debito passerebbe così da 2.068 a 2.064 miliardi di euro. Infine, il prezzo di vendita é del tutto irrisorio se si considera che Poste Italiane conta 145 mila dipendenti e 24 miliardi di euro l’anno di fatturato.
Infine, ogni anno la Cassa Depositi e Prestiti – oggi partecipata dalle fondazioni bancarie che ne detengono il 18,4% – paga a Poste italiane 1,6 miliardi come “commissione” per la raccolta risparmio (circa 45 miliardi l’anno). Il Forum per un Nuova Finanza Pubblica e Sociale porta avanti da tempo una campagna per la socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti, che permetterebbe di sostenere gli investimenti degli enti locali per garantire il funzionamento dei servizi pubblici, della scuola, della sanità, e per promuovere una nuova economia sociale territoriale. La privatizzazione delle Poste Italiane non aiuterebbe questo processo di riappropriazione sociale della Cdp.
Tratto dal granello di sabbia di febbraio “TTIP: il pianeta al servizio delle multinazionali”, scaricabile qui