di Guido Viale
Sabato 24 settembre a Milano quasi quattrocento persone hanno seguito il convegno “Il secolo dei rifugiati ambientali?”, promosso da Barbara Spinelli con il gruppo parlamentare europeo GUE/NGL, e organizzato dalle associazioni Laudato sì – Credenti e non credenti per la casa comune, CostituzioneBeniComuni e Diritti e Frontiere con il sostegno del gruppo consiliare Milano in comune e del Centro europeo Jean Monnet.
Il primo tema in discussione è la legittimità della qualifica (o “etichetta”) di “rifugiato ambientale”. La convenzione di Ginevra garantisce protezione internazionale alle vittime di guerre e persecuzioni politiche, religiose o sociali, ma non contempla questa figura. Secondo Roger Zetter dell’Università di Oxford il tentativo di estendere la stessa protezione a coloro che hanno abbandonato il loro paese a causa di disastri o degrado ambientale diluisce il concetto di profugo e riduce l’esigibilità dei diritti che oggi gli vengono riconosciuti. Ma soprattutto è dubbia la verifica della condizione di profugo ambientale, perché il rapporto tra degrado ambientale ed esodo non è mai diretto; molti altri fattori si vanno ad aggiungere nel corso del tempo nel motivare l’abbandono di un paese e nel definirne le tappe intermedie. “L’ambiente non perseguita” come fanno invece un regime o una guerra.
A questa posizione si è contrapposto François Gemenne dell’Università di Versailles-Saint Quentin, secondo cui a provocare l’esodo delle persone e delle popolazioni colpite da disastri o degrado ambientale non è “l’ambiente”, ma siamo noi: gli abitanti dei paesi sviluppati, con i nostri consumi, il nostro stile di vita, il nostro sistema economico. Per questo i profughi ambientali sono vittima di una persecuzione vera e propria e, come tali, hanno diritto a una protezione non meno di chi è perseguitato da guerre o regimi.
Il secondo tema emerso con forza è la dimensione planetaria del disastro ambientale, messa in luce soprattutto da Emilio Molinari, prendendo spunto dalle crisi idriche in corso o attese, e da Vittorio Agnoletto, che si è soffermato sul land grabbing e sull’imposizione, tramite trattati di partenariato, di rapporti di scambio devastanti con i paesi del Sud del mondo. L’origine dei profughi ambientali è questa. La cosa era stata prevista da tempo da varie agenzie tra cui anche il Pentagono, che già nel 1994 aveva scritto che Europa e USA si dovevano attrezzare militarmente per respingere i flussi che quei disastri avrebbero provocato, pena il rischio di esserne sommersi. I profughi come i nemici dell’Occidente del 21esimo secolo!
I numeri li ha poi forniti soprattutto Stephane Jaquemet, delegato dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati: tra l’altro, 27,8 milioni di sfollati interni (quelli che non hanno varcato i confini del loro paese) nel 2015. Guerre e violenze ne hanno creato 8,6 milioni; i disastri ambientali 19,2. Tra il 2008 e il 2014, 157 milioni di persone hanno dovuto abbandonare le loro terre e almeno un terzo di loro non ha più potuto farvi ritorno. Solo una frazione infinitesima di quei flussi ha sfiorato l’Europa.
Sull’intreccio tra guerre, degrado ambientale e progetti cosiddetti di sviluppo si è soffermata Marica Di Pierri, portavoce dell’associazione A Sud, mostrando come le aree interessate da questi tre fenomeni si sovrappongano quasi sempre.
Sul rapporto tra giustizia sociale e giustizia ambientale, cioè rispetto della Terra, della Natura, dei suoi cicli e dei suoi diritti, è intervenuto Giuseppe di Marzo, coordinatore delle campagne Miseria Ladra, Reddito di Dignità e Patto sociale per Libera, mentre il Coordinatore per l’ecosostenibilità della Cooperazione allo sviluppo Grammenos Mastrojeni ha spiegato come sia possibile intervenire sulle qualità dei suoli affidando alle popolazioni locali la gestione di progetti per restituirne la fertilità. Se ne salvaguarda così anche l’identità sociale e, con essa, un’alternativa all’emigrazione e una possibilità di ritorno. La desertificazione, infatti, disgrega le comunità e rende impraticabile la coesione e la cura del territorio.
Il tema dell’accoglienza è stato affrontato da don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità di Milano e animatore dell’associazione Laudato sì. L’emergenza non è la nostra; è di coloro che arrivano: sono i portatori di una rivendicazione di diritti e di dignità, mentre noi li “categorizziamo” in profughi e migranti economici per poterli respingere e nasconderci l’origine del problema. La politica non riesce a vedere nei nuovi arrivati una risorsa, ma solo un problema. Per questo occorre “deistituzionalizzare” l’emergenza, riconoscendo a tutti i diritti fondamentali di cittadinanza.
Fulvio Vassallo Paleologo, docente di Diritto di asilo a Palermo e Presidente di ADIF, ha denunciato il fatto che le politiche europee sui profughi si riducono ormai tutte all’esternalizzazione dei confini, cercando di affidare il contenimento di quell’esodo a regimi che non rispettano i più elementari diritti umani.
Il senso complessivo del convegno era stato anticipato da Barbara Spinelli: occorre risalire alle radici dei processi di espulsione dei profughi ambientali; rivedere le teorie economiche il cui concetto di sviluppo provoca in realtà i danni che sono all’origine di quei flussi; ma soprattutto attrezzarsi per intervenire sull’origine dei processi. Troppo spesso l’accoglienza, anche quella virtuosa praticata da molte ONG, si limita a compiti di tipo infermieristico: alleviare le sofferenze dopo che i danni sono stati provocati, invece di combatterne le cause.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 26 di Novembre-Dicembre 2016 “Voglio cambiare davvero, quindi voto NO!“