di Matteo Iannitti (Catania Bene Comune)
Tra crisi sociale e privatizzazione dell’amministrazione comunale.
Sull’orlo della bancarotta. Catania è la decima città d’Italia per numero di abitanti e il suo debito pubblico è di 1miliardo, 232milioni, 310mila euro. Nel 2012 è stato sancito lo stato di pre-dissesto finanziario e nel febbraio 2013 è stato approvato un piano di riequilibrio, oggi in vigore, che prevede tagli alla spesa per 527milioni di euro, da distribuire fino al 2023, oltre al rispetto degli obblighi gestionali che vincolano i comuni in pre-dissesto: tasse ai massimali, rincaro delle tariffe per i servizi a domanda individuale, privatizzazioni, esternalizzazioni, blocco delle assunzioni.
Un disastro sociale per un Comune che ha già il primato nazionale per “criminalità minorile”, per numero di processi per mafia rispetto al numero di abitanti, per tasso di analfabetismo e che è in fondo alle classifiche per qualità della vita.
Governata dal 2013 dal Partito Democratico e dal Sindaco Enzo Bianco, già ministro degli Interni (e responsabile della mattanza del movimento no global nel 2001 a Napoli), Catania, dopo 3 anni di pesantissima austerità è, oggi, secondo la Corte dei Conti, in bancarotta: le tasse ai massimali e un progressivo impoverimento della popolazione hanno generato un aumento dell’evasione fiscale, lo Stato ha tagliato i trasferimenti di 46milioni di euro in due anni, la Regione Sicilia di 8 milioni in un solo anno. Ma le spese di rappresentanza, consulenze esterne, spese legali milionarie non sono state minimamente ridotte; al contrario, questa Amministrazione le ha addirittura aumentate, mentre la città ha perso un asilo nido su due e i dipendenti dei servizi sociali non percepiscono lo stipendio da mesi.
Si arricchiscono nel frattempo Cassa Depositi e Prestiti, Dexia Crediop Spa, Monte dei Paschi di Siena Spa e Unicredit Spa che vantano buona parte dei crediti con il Comune e continuano a speculare con tassi d’interesse enormi. Basti pensare che Unicredit, solo per le anticipazioni di cassa concesse al Comune di Catania, guadagna ogni anno quasi due milioni di euro di interessi.
Una situazione finanziaria ingestibile, mirabilmente pilotata per fare gli interessi di pochi contro un’intera comunità e un banco di prova e di sperimentazione: quali sono le conseguenze dell’austerità, del rigore finanziario e del disinvestimento pubblico a sud del sud?
L’austerità a sud. La retorica sulle bellezze della Sicilia, sul patrimonio archeologico e barocco, sul mare e sul vulcano più alto d’Europa fa da sempre il paio con una crisi sociale che in questo territorio ha raggiunto già 5 anni fa i livelli della Grecia in termini di disoccupazione, tasso di povertà assoluta, abbandono scolastico, emigrazione. La presenza di una costante situazione di ricatto dei ceti meno abbienti ha favorito, creando un circolo vizioso: il dominio di una classe politica che sulla clientela e sulla collusione col potere mafioso ha basato la propria attività amministrativa. Ciò ha legittimato, fornendo uno straordinario alibi, il disinvestimento pubblico e la demonizzazione di qualunque finanziamento volto alla redistribuzione della ricchezza.
Il federalismo fiscale, in questo contesto, ha definitivamente affamato gli enti locali del meridione bloccando qualsiasi processo di emancipazione e riscatto.
L’austerità dei patti di stabilità, dei piani di riequilibrio finanziario, dei tagli lineari alla spesa pubblica al sud ha incrociato la deindustrializzazione, la crisi del comparto agricolo, il blocco del turn over in tutte le amministrazioni pubbliche.
Uno scenario inedito e innovativo anche per i signori delle banche interessati a mettere le mani su patrimoni e servizi degli enti locali. In un contesto di così profonda crisi e povertà, le tasse ai massimali non hanno fatto aumentare le entrate, bensì il tasso di evasione; l’aumento delle tariffe ha generato una fuga dai servizi, le svendite del patrimonio non hanno trovato acquirenti, le operazioni speculative non hanno incrociato finanziatori e persino le gestioni in “project financing” sono tutte fallite. Se non si è ricchi, l’unica strada diventa quella dell’emigrazione, che ha raggiunto i livelli più alti degli ultimi 40 anni. Le Università siciliane negli ultimi 5 anni hanno perso più del 20% degli iscritti, mentre rapine e spaccio di droga e armi sono drammaticamente diventati comparti produttivi indispensabili per la sopravvivenza di centinaia e centinaia di famiglie nelle zone più povere di Catania. Crisi dentro crisi, in maniera criminale, stanno devastando la Sicilia peggio di qualunque carestia.
La privatizzazione dell’amministrazione pubblica e l’esternalizzazione delle scelte politiche. Amministrare il disastro sociale, economico e culturale, per chi non si pone il tema della trasformazione e della critica dell’esistente, è complesso. Difendere l’austerità e il partito di Governo e contemporaneamente avere responsabilità amministrativa rischia di diventare impossibile. Eppure sono centinaia gli amministratori che si trovano in questa situazione.
L’applicazione delle norme sui bilanci degli enti locali genererebbe default finanziari e insurrezioni popolari, mentre la discussione politica dei temi di bilancio nei consigli democraticamente eletti porterebbe alla ribalta l’ingiustizia e la follia di vincoli finanziari insopportabili.
Per risolvere tali contraddizioni gli enti locali vivono una sospensione della democrazia: i bilanci non vengono discussi, ma approvati in fretta e furia, con estremo ritardo e sempre sull’orlo del baratro; si nega una discussione sul merito e si diffonde solo lo spettro delle conseguenze catastrofiche di una eventuale bocciatura o di un ritardo nell’approvazione. Un “bere o affogare” continuo e artatamente congegnato.
Tale meccanismo ha solo un’esigenza: il cinismo della Giunta comunale e la sua compattezza politica (o la sua mediocrità). È infatti la Giunta a dover redigere e delibare i documenti contabili e a doverli discutere ed approvare prima della loro pubblicazione e discussione negli organi democratici. Un intoppo in quella fase e tutto salta. Così alcuni comuni hanno deciso di esternalizzare persino la redazione dei documenti contabili, annullando anche questo passaggio democratico, deresponsabilizzando l’amministrazione dalla propria più grande responsabilità.
A Catania è il Centro Studi Enti Locali ad essersi dimostrato disponibile a scrivere, per conto dell’amministrazione comunale, un nuovo Piano di riequilibrio finanziario, oggi al palo in attesa della conversione del Decreto Enti Locali da parte del Parlamento. Si tratta di una società privata toscana, molto vicina ad ambienti governativi, che ha già avviato collaborazioni e consulenze con molti comuni della Sicilia Orientale. Obiettivo di questa società, e delle altre che potrebbero formarsi, è “curare” l’amministrazione pubblica al posto degli organismi democraticamente eletti, orientarne le politiche senza alcun vincolo di mandato ma solo attraverso incarichi di consulenza: una tecnocrazia privata che si sostituisce alla politica, svincolata dalla vita democratica. Un modo per i privati di controllare le amministrazioni e un modo per pessimi amministratori di deresponsabilizzarsi di fronte a scelte impopolari.
La necessità di una speranza. Tra crisi economica e tecnocrazia, disgregazione e nuovi fascismi, l’orizzonte non appare incoraggiante, eppure è solo dalle comunità dei territori, da quei Comuni che, comunque vada, rappresentano l’avamposto dello Stato e della socialità, che si può immaginare un’alternativa. Catania non è una città dove vi è stata una “rivoluzione arancione” e non ha vinto le elezioni un Sindaco antisistema, come la stragrande maggioranza dei comuni italiani. Non abbiamo alcuna sperimentazione di governo da esportare ma solo una battaglia di resistenza, estenuante e difficile, che non abbiamo intenzione di abbandonare.
Forse è giunto il momento di unirsi, tutti e tutte, coloro che hanno vinto le elezioni e stanno già costruendo città ribelli e coloro che non hanno ancora vinto ma hanno intenzione di cambiare le cose, nella consapevolezza che non basta solo sconfiggere l’avversario per cambiare davvero. Con uno sguardo al sud del sud, a rischio spopolamento, che ha bisogno di ritrovare la speranza e di iniziare a sentirsi comunità.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 25 di Settembre-Ottobre 2016 “Chi è in debito con chi?“