di Marco Bersani
Affrontare il tema del referendum costituzionale dal punto di vista tecnico-giuridico o dal punto di vista politicista delle alleanze trasversali che si prefigurano, rischia di non far cogliere la portata reale di una scadenza che è un punto di svolta nella società italiana.
Siamo in un periodo – ormai lungo – di profonda trasformazione del modello capitalistico, che, nella sua fase della finanziarizzazione spinta, ha la necessità di rompere il “compromesso sociale” su cui è nata l’Europa, per mettere in campo una strategia di mercificazione dell’intera società, della vita delle persone e della natura.
Il compromesso sociale è quello fra capitale e lavoro, che ha segnato tutto il dopoguerra del continente europeo: per motivi geopolitici (Europa al confine della guerra fredda e dello scontro tra capitalismo statunitense e socialismo reale) e per motivi socio-politici (le lotte dei movimenti operai studenteschi e sociali), l’incedere del capitalismo in Europa ha seguito una strada differente dalle esperienze di altri continenti. Nasce da questi processi l’insieme di diritti riconosciuti che per decenni ha caratterizzato lo stato sociale di tutti i paesi europei.
Oggi, l’enorme massa di capitali accumulata sui mercati finanziari ha la stringente necessità di nuovi mercati sui quali riversarsi per garantire una nuova fase di accumulazione e il proseguimento del modello neoliberista dentro la più grande – per intensità e durata – crisi economica sinora accaduta.
Ma quali possono essere questi nuovi terreni di espansione se non esattamente quelli sinora fuori mercato, o comunque rigidamente regolati secondo l’interesse generale?
E’ questo il motivo per cui oggi sono sotto attacco i diritti del lavoro, i beni comuni, il territorio e i servizi pubblici: tutto deve essere infatti sottoposto alla valorizzazione finanziaria e alla profittabilità per pochi, mentre l’orizzonte esistenziale collettivo viene determinato dal concetto di “uno su mille ce la fa” e quello individuale dal concetto di “io speriamo che me la cavo”.
Se questo scenario è vero, e basterebbero i nuovi trattati internazionali di libero scambio in corso di negoziazione – dal TTIP, al CETA, al TISA – a dimostrarlo, dentro questi processi non può che essere rimesso in gioco anche il significato profondo della democrazia.
Un brevissimo excursus storico ci può aiutare a definire il problema: il modello liberista, poi affermatosi in Gran Bretagna con il governo Thatcher e negli Usa con il governo Regan, ha avuto in verità un antecedente poco studiato: il Cile di Pinochet, il cui sanguinoso colpo di Stato è stato salutato da Milton Friedman e dagli economisti della scuola di Chicago come “lo shock che rende politicamente inevitabile ciò che è socialmente inaccettabile”, dando vita al più completo piano di privatizzazioni della storia recente.
Se dunque l’atto di nascita del modello neoliberale avviene non attraverso la democrazia, bensì attraverso la feroce distruzione della stessa, questo significa che capitalismo e democrazia (per quanto formale), lungi dall’avere un rapporto di consustanzialità, hanno piuttosto avuto una relazione di contingenza.
In altre parole, se la democrazia è funzionale il modello la assume; pronto tuttavia a farne a meno laddove divenisse un ostacolo.
C’è un significato importante dentro queste riflessioni: se oggi ciò che interessa ai grandi capitali finanziari è l’espansione su tutti i settori sinora preservati alla mercificazione, può tutto questo essere realizzato mantenendo le attuali forme di democrazia?
E per stare alla nostra più stretta attualità: può il governo Renzi, dopo aver approvato in sequenza lo Sblocca Italia, il Jobs Act, la Buona Scuola e il decreto Madia, mantenere le garanzie – per quanto imperfette – dell’attuale Costituzione o ha la stretta necessità di imprimere una svolta autoritaria anche su quel terreno? Più che da un’articolata riflessione, la risposta viene resa evidente dalla pluralità dei poteri forti scesi in campo a sostegno del “sì” alla riforma costituzionale: da JP Morgan a Confindustrria, da Marchionne fino al recentissimo pronunciamento del presidente uscente Usa, Barack Obama.
Ecco perché collocare il sacrosanto NO al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre dentro i parziali alvei della disputa strettamente giuridica o, peggio ancora, della politica di alleanze partitiche, rischia di limitare la necessità di una forte mobilitazione sociale che fermi i disegni autoritari dei poteri forti, di cui il governo Renzi è lampante espressione.
E non solo. Bisogna votare NO e mobilitarsi per la vittoria referendaria anche per poter domani aprire la strada ad un nuovo processo costituente dal basso che, attraverso la partecipazione popolare, metta al primo posto la realizzazione di quanto previsto, e sinora mai attuato, dalla Costituzione, prevedendone anche dei cambiamenti sostanziali in direzione di una democrazia compiuta e partecipativa, oggi più che mai necessaria.
Altroché conservazione: vota NO chi vuole davvero cambiare la società.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 26 di Novembre-Dicembre 2016 “Voglio cambiare davvero, quindi voto NO!“