Per cambiare, il 4 dicembre io voto NO

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di Pino Cosentino

Il 4 dicembre gli italiani decideranno il destino del governo Renzi e di quel che rappresenta nella politica italiana. Gli elettori, nella stragrande maggioranza, voteranno su questo e non sulle modifiche alla seconda parte della Costituzione (Ordinamento della Repubblica) che formalmente sono l’oggetto della consultazione referendaria.

Per molti versi è giusto e ragionevole che sia così, dato che la proposta di riforma costituzionale è stata presentata come il coronamento dell’operato del governo. Tuttavia il contenuto che forma l’oggetto che approveremo o respingeremo non può e non deve essere ignorato.
Sono disponibili diverse ottime analisi della riforma costituzionale. L’intento di questo intervento non è di aggiungerne un’altra, ma di offrire al fronte del NO, e a tutti i cittadini e cittadine interessati all’argomento, spunti di (spero utile) riflessione.

 

Non c’è dubbio che siano necessari profondi cambiamenti. 

La “scossa” del 2007-08 ha messo a nudo la gravità della crisi sistemica in atto, accelerando i processi di arroccamento dei ceti privilegiati a protezione dei meccanismi che perpetuano le loro posizioni. Oggi, contrariamente alla vulgata corrente, la posta in gioco non è la crescita, ma il consolidamento dell’economia dello sfruttamento, della dissipazione e della truffa attraverso un’evoluzione autoritaria dei sistemi politici. Dal 2007 la funzione del sistema politico quale parte integrante dei meccanismi che permettono a una minoranza di parassiti di vivere tra agi e onori è divenuta manifesta a chiunque abbia gli occhi aperti, almeno un po’. 

Si moltiplicano i provvedimenti che trasferiscono ricchezza dai ceti produttivi a quelli parassitari, sotto la voce “costi della crisi”. Dove la “crisi” è assunta come una catastrofe naturale che colpisce tutti e tutte indistintamente. Invero anche il sistema è in crisi, perché sono in crisi le sue strutture portanti, le aziende pubbliche e private. La corsa all’arricchimento individuale (Deng Tsiaoping: “Arricchirsi è glorioso”) svuota le organizzazioni che detengono la ricchezza, ad opera di top manager e azionisti/capi politici. Sicché le strutture produttive – aziende pubbliche e private – affondano nei debiti, come gran parte delle famiglie, perché la ricchezza si concentra in un settore minoritario della popolazione, intesa come “famiglie”.
Un caso esemplare è quello delle banche, in crisi nonostante gli enormi guadagni realizzati con i loro imbrogli. Ciò avviene perché i profitti non restano in azienda ma vanno agli azionisti. La regola è: individui (sempre meno) sempre più ricchi, organizzazioni (dall’azienda allo Stato) sempre più povere. I “pubblici” poteri assecondano questa tendenza, perché essi stessi hanno perso la dimensione collettiva e sono occupati da bande di predoni.

Sul referendum costituzionale il governo ha interesse ad allontanare la discussione dai contenuti e ad attirare l’attenzione sull’evento in sé, come fosse la performance di un artista. Invita ad apprezzare la bellezza del gesto, sollecitando un giudizio estetico.
Per ottenere questo risultato deve condizionare lo sguardo dell’osservatore, guidandolo a vedere da un lato un eroe dell’innovazione, che arditamente prefigura e crea il futuro; dall’altro ammuffite, polverose mummie che con contorti quanto noiosissimi ragionamenti si industriano a fermare l’innovazione inchiodando il mondo a una vita crepuscolare di decadenza e immobilismo. “Tu elettore vuoi essere il collaboratore del giovinetto eroico o il macabro complice delle mummie mortifere?”. Ribaltare la realtà è una operazione in cui Renzi è maestro, come il lupo della favola. I suoi oppositori, però, talvolta sembrano voler suffragare l’immagine delle “due Italie”: una che corre e una che sta ferma. Una che costruisce il futuro e una che rimpiange il passato.

Diciamolo forte e chiaro: bisogna cambiare. Bisogna cambiare il sistema politico per cambiare l’economia e la società. Se è necessario, cambiare anche la Costituzione.

La Costituzione è stata già cambiata 15 volte, non è più quella del 1947.
In effetti bisogna riconoscere che certe sue parti vanno cambiate, o integrate, in particolare proprio quelle che riguardano la forma di governo e anche la forma dello Stato. La Costituzione non è un feticcio.
Bisogna opporsi a questa “riforma” perché ci porta indietro, perché è regressiva, perché va nella direzione opposta a quella giusta.

BISOGNA CAMBIARE, IO VOTO NO

Le modifiche proposte riguardano tutte l’ordinamento della Repubblica, cioè la forma di governo. Non è facile per il pubblico comprendere le conseguenze delle novità che verrebbero introdotte in caso di vittoria dei sì.

L’attenzione si è concentrata sulla fine del bicameralismo “perfetto”. La riforma del Senato comporterebbe un processo legislativo più snello e una minore spesa. Il primo “vantaggio” è contestato da molti costituzionalisti, il secondo può essere accettato. Il primo “vantaggio” è contestato perché restano ben 15 materie in cui il Senato legifera con la Camera, inoltre può, come adesso, intervenire anche su ogni altra proposta di legge, attraverso emendamenti di cui comunque la Camera dei Deputati deve prendere visione e su cui deve pronunciarsi.

Ma la critica punta soprattutto su un aspetto che i proponenti della riforma cercano di oscurare, o far passare come questione irrilevante: la composizione del nuovo Senato, che diventa un organo di secondo livello, come le province: in poco tempo ben due organi costituzionali vengono così sottratti alla sovranità popolare. Il governo e gli altri sostenitori del sì sottolineano che i nuovi senatori trarranno comunque la propria legittimazione da un voto popolare, quello con cui sono stati eletti consiglieri regionali o sindaci. Si scivola così verso una concezione in cui l’elezione popolare non seleziona chi va a ricoprire una funzione, ma un membro del ceto di governo, che quindi è abilitato a ricoprire più funzioni secondo le decisioni della corporazione di cui è membro. Insomma, un’elezione “abilitante”. Che ciò implichi una significativa traslazione di potere dai cittadini alla classe politica sfugge ai più. O viene accettata, perché è stata interiorizzata una concezione della democrazia che considera le élite la sede della ragionevolezza e della competenza in un mondo dominato da irrazionalità, emotività e ignoranza. Idea che se poteva avere una giustificazione uno o due secoli fa oggi è sempre meno fondata nella realtà.

O meglio, il fondamento nella realtà è dato dal fatto, sempre più evidente, che i governi traggono la loro legittimazione dai “mercati”, sicché il voto popolare è una ratifica a posteriori che, qualora vada contro le indicazioni dei”mercati”, è considerata un’aberrazione prova di infermità mentale – “antipolitica” o “populismo” sono le due categorie utilizzate – da ricondurre alla ragione, anche con la forza.

I fatti però vanno nella direzione opposta.
I fatti dicono che le difficoltà che stiamo attraversando derivano dall’eccesso di potere di un ceto politico che si è integrato con i poteri economici ed ha abbandonato il popolo al suo destino.

Il governo Renzi dispiega la sua efficienza nell’attuare i provvedimenti richiesti dalle istituzioni finanziarie – banche, assicurazioni, fondi di investimento… i cosiddetti “mercati” – cercando di ridurne le conseguenze con leggi di puro stampo “populista”, come gli 80 euro in busta paga, i 500 euro per gli studenti, la quattordicesima per le pensioni più basse ecc..
Assoggettare la società e l’economia alle esigenze di valorizzazione del capitale (in termini più correnti: alla fame di dividendi degli investitori…) comporta pesanti conseguenze sociali: disuguaglianze sempre più profonde e stridenti, migrazioni di popoli, distruzione dell’ambiente naturale.
I governi hanno la necessità di avere strumenti più efficienti di contrasto dei movimenti di protesta, destinati a svilupparsi sempre di più con la crescita del disagio sociale e la ricchezza sempre più sfacciata dell’esigua fascia di popolazione che si arricchisce con la finanziarizzazione.
Così da una parte si parla di partecipazione, dall’altra si neutralizzano i pochi episodi di partecipazione, come l’ultimo referendum sull’acqua pubblica, e si manomette la democrazia che c’è.

La riforma costituzionale voluta da Renzi è coerente con le politiche dei governi che lo hanno preceduto, da Prodi a Berlusconi, da Monti a Letta: mani libere all’arricchimento dei pochi a danno dei molti.
Mentre da una parte si sono spalancate porte e finestre alla moltiplicazione dei prodotti finanziari, alle fusioni tra banche, alla “banca universale”, insomma a quella che Galbraith definì “l’economia della truffa”, il lavoro veniva svalutato e avvilito, producendo una drastica redistribuzione di ricchezza a favore dei ricchi e gettando le basi della crisi in cui siamo immersi dal 2007.
Per continuare queste politiche occorre rimuovere ogni velleità di ribellione del popolo, occorre centralizzare il potere politico per togliere ogni prospettiva di successo a qualunque rivolta locale.
Questo è l’obiettivo della “riforma” renziana: un ulteriore accentramento del potere politico, fino a rendere possibile il dominio assoluto di un capo, impresa che la Costituzione del 1948 rendeva impraticabile, e con l’attuale costituzione rimane impervia.

Quello che occorre è una riforma costituzionale opposta a quella renziana. Per prima cosa eliminare il pareggio di bilancio incluso in Costituzione nel 2012, all’articolo 81. É un provvedimento che sancisce la sottomissione del popolo italiano al comando degli usurai internazionali. Bisogna invece ripubblicizzare tutto il sistema del credito, ristabilire il valore centrale e primario del lavoro, decentrare il potere, introdurre un’efficace tassazione delle transazioni finanziarie, costruire una reale democrazia partecipativa.
Per fare ciò bisogna cambiare la Costituzione, inserendovi il principio che i poteri legislativo ed esecutivo, a tutti i livelli, devono essere condivisi da istituzioni elettive e dal popolo, e quest’ultimo deve avere una serie di strumenti per esercitare le sue prerogative.

Non vi sono altre strade per uscire da una crisi di civiltà che sta sgretolando la società e il vivere civile, prima ancora dell’economia.

Serve innovazione, Renzi è il passato
Per questo
IO VOTO NO

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 26 di Novembre-Dicembre 2016 Voglio cambiare davvero, quindi voto NO!