di Ubik (Articolo pubblicato su Dinamo Press il 4 settembre 2017)
Secondo i dati Inail relativi agli infortuni sul lavoro, nei primi sette mesi del 2017 (gennaio-luglio) sono morte 591 persone. Ventinove in più dello scorso anno nello stesso intervallo di tempo (+5,2%). Di questi, 531 erano uomini, 60 donne. Quasi 3 ogni giorno.
Ai morti, bisogna aggiungere i feriti: 380.236 denunce di infortuni, 36.224 di malattie professionali. Si tratta di numeri da guerra. O meglio di una strage silenziosa e continua, visto che chi crepa sta solo da una parte.
Nonostante ciò, questi dati non hanno avuto grande rilevanza mediatica. Il rapporto è stato presentato dai principali giornali mainstream nella sezione economia. Solo raramente si è visto qualche trafiletto nelle home page che recava la notizia di questa morte o dell’altra, avvenuta sotto il carico di una gru o dentro un cantiere.
Viene da pensare che le gru – come le officine, i forni, le autostrade, i cantieri, le vie urbane, gli spazi domestici – dovrebbero urlare “Allah Akbar” prima di uccidere. In modo da ottenere un po’ più di visibilità. Per loro, ma anche per le vittime: chi muore di lavoro, infatti, resta sempre e solo un numero. O al massimo un nome. Mai un volto, una storia. Non deve commuovere, né spaventare, tantomeno far riflettere.
Secondo i dati Europol, lungo tutti i 12 mesi del 2016, in tutti gli Stati europei, il terrorismo ha fatto 142 morti. 135 sarebbero quelli collegati a gruppi jihadisti. Per i primi mesi del 2017, l’agenzia dell’Unione Europea finalizzata alla lotta al crimine non ha ancora pubblicato dati ufficiali. Secondo stime ufficiose, però, non dovrebbero esserci particolari differenze rispetto all’anno precedente. In Italia il numero dei morti per terrorismo è 0. Tanto nel 2016, quanto nel 2017. Eppure l’esercito è schierato nelle principali città, mezzi da guerra presidiano musei e strade del centro, barriere di cemento sono piazzate sui corsi e sui lungomare di cittadine e paesi così piccoli che i “terroristi” potrebbero trovarli solo sbagliando strada. Già da mesi, sotto la minaccia del terrore vengono annullati concerti e feste. La polizia pretende di perquisire tutti quelli che partecipano a un corteo. Tronetti sparati per strada scatenano reazioni incontrollate, che possono provocare anche morti e feriti.
Prevenzione si dirà. Contemporaneamente, però, ogni giorno se ne vanno tre persone durante i turni di lavoro. In silenzio. Senza preoccupare più di tanto “la ggente”, troppo impegnata ad avere paura del terrore o a scaricare le frustrazioni di una vita sui migranti che tirano pietre ai bambini… salvo poi scoprire che erano stati i bambini, con i genitori, a tirare pietre ai migranti. Razzisti e fascisti non si scatenano sui social network: dai cadaveri di chi muore di lavoro hanno maggiori difficoltà a tirar fuori voti. E poi quelli che uccidono i lavoratori sono sempre stati loro amici e finanziatori, la storia lo insegna. Governo e parlamento non varano alcuna legge speciale, non inviano eserciti di ispettori nelle officine o sui cantieri, non arringano nessun popolino alla difesa dei “nostri valori”. I nostri valori, del resto, sono anche questi: sfruttamento e morte.
In fondo, come ha detto il ministro Minniti – quello che ha condannato a morte migliaia di migranti in Libia e sta provando a cancellare il diritto al dissenso qui in Italia – “le paure non sono una questione di statistiche, ma di percezione”.
E allora continuiamo a percepire – grazie ai Belpietro e ai Del Debbio, ai Salvini, ai Di Stefano e alle Meloni – che il pericolo viene da fuori, con i barconi e la barba lunga. Così intanto, gli stragisti di casa nostra, italiani da generazioni, possono continuare indisturbati a far fuori tre persone al giorno.
Davvero avevate creduto che la “sicurezza” fosse un carrarmato a piazza Venezia?
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 31 di Novembre-Dicembre 2017: “Lavoro e non lavoro”