di Chiara Filoni
Grandi applausi per l’Italia quest’anno al termine del G20 di San Pietroburgo, per l’uscita dalla procedura d’infrazione per deficit eccessivo (il quale secondo Eurostat si attestava al 3 percento a fine 2012). I nuovi buoni allievi dell’Europa pero’ non registrano una perfmance altrettanto soddisfacente in merito all’ammontare del debito sul PIL: dal 116,4 per cento nel 2009 si passa al 127 nel 2012, con una previsione del 130,30 per cento per il 2013 (per un valore nominale di circa 2.060 miliardi di euro). Meno deficit, più debito: come é possibile?
Il calcolo é presto fatto se si tiene conto della montagna di interessi che si accumulano di anno in anno su un debito che é oramai insostenibile, ma che ci ostiniamo a voler pagare senza chiederci da dove viene, chi lo ha formato e negli interessi di chi.
Purtroppo tutte le proposte fin ora avanzate per far fronte all’elevato indebitamento europeo non tengono semplicemente conto della storia delle crisi di debito e dei loro annullamenti. Si da’ il caso infatti che, sin da quando le civiltà esistono, il problema del debito é stato quasi sempre risolto attraverso un suo parziale o totale annullamento e non per il tramite di misure neoliberiste nefaste e controproduttive, che pesano in maniera indiscriminata sulla popolazione. Gia’ tra il 2400 e il 1400 a.c. in Mesopotamia si contavano una trentina di annullazioni di debiti tramite decreto regio a favore dei cittadini; tanto che diversi autori (Toussaint, Husson..) hanno riscritto pezzi interi di storia dal titolo “gli annullamenti del debito nel corso della storia”.
Probabilmente ai ben pensanti del Fondo Monetario Internazionale (e non solo) sono sfuggiti questi dettagli dei manuali di storia, quando pochi giorni fa hanno avanzato l’idea di un prestito forzoso del 10 per cento sui conti correnti europei (un prelievo che per intenderci non tiene assolutamente conto della progressività sul reddito).
Dunque, l’odierna intoccabile morale riguardo al pagamento del debito pubblico a tutti i costi, a qualsiasi tasso di interesse e condizione, alimentata evidentemente dai creditori e dalle istituzioni internazionali, probabilmente non é mai esistita nella storia.Una morale, che senza risalire alla storia antica, é d’altronde facilmente scavalcabile dal punto di vista del diritto internazionale, il quale prevede ad esempio la possibilita’ del ripudio del debito illegittimo (o odioso), ovvero quel debito che non che é stato speso negli interessi generali (e in Italia l’elenco potrebbe essere lungo, dagli F35 agli interessi sui titoli di debito derivanti dalla speculazione, dalle grandi opere inutili al salvataggio delle banche ecc..).
Fortunatamente, i cittadini italiani, più svegli dei loro leader, hanno iniziato a porsi delle domande, sul perche’ ad esempio non tutto cio’ che paghiamo poi ci viene restituito in servizi (sarebbe questo in fondo lo scopo dell’idebitamento pubblico), o se sia legittimo o meno che buona parte di questi soldi vada nei forzieri delle grandi banche che hanno contribuito all’aggravarsi della crisi o che ancora diventi il pretesto per tassare in maniera indiscriminata la collettività. Alcuni di loro, come la commissione di audit di Parma, hanno già da tempo iniziato a studiare il tema, andando a spulciare tra le spese e i debiti contratti dal proprio comune, mettendo in pratica un vero e proprio audit del debito. A questo proposito, la stessa commissione, in collaborazione con il Forum Nuova Finanza Pubblica e Sociale, organizza il 26-27 ottobre prossimo un seminario a Parma (sala Bizzozzero) sulle modalita’ per intraprendere questo tipo di indagine cittadina, essenziale per comprendere l’origine e la natura del nostro debito, per identificare la sua parte legittima (quindi spesa nell’interesse della collettività) e quella illegittima, in quanto inghiottita da interessi privatistici e quindi suscettibile di cancellazione o per lo meno di messa in discussione. Uno strumento pratico, l’audit, di democrazia partecipata, per decidere dove vanno i nostri soldi e il nostro futuro. E’ ora di prenderne parte.