SCHEDA 3: Il debito pubblico

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Dati numerici attuali (dicembre 2014)

Debito pubblico Italia: 2134,8 miliardi (135% rispetto al PIL)

di cui:

Amministrazioni centrali: 2.035,6 miliardi (95,36%)

Enti locali: 99,2 miliardi (4,64%)

Comuni: 44,83 miliardi (2,1%)

Chi detiene il debito pubblico italiano

il 30% detentori esteri (banche, fondi d’investimento etc.)

il 10,6% Banca d’Italia e BCE

il 42,2% banche, fondi comuni ed assicurazioni italiane

il 10% famiglie italiane

il 7,2% altri gestori italiani

Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità?

Negli ultimi 20 anni (1995-2014), il bilancio dello Stato si è chiuso con un avanzo primario 18 volte su 20: Le uniche eccezioni sono il 2009 (-0,9%) e il 2010 (0%).

Complessivamente, il totale dell’avanzo primario nel ventennio 1995-2014 è stato pari a 670 miliardi di euro.

Il che significa che i cittadini italiani hanno dato allo Stato 670 miliardi in più di quello che hanno ricevuto dallo stesso in termini di servizi.

Quei 670 miliardi sono andati a coprire gli interessi sul debito pubblico, in una spirale che, con le attuali politiche di austerità, è destinata ad autoriprodursi senza alcuna via di uscita.

Cos’ è il debito pubblico

Per debito pubblico si intende il debito accumulato dallo Stato nei confronti di altri soggetti, individui, imprese, banche o stati esteri, che hanno sottoscritto un credito sotto forma di obbligazioni o titoli di Stato (Bot, Btp, Cct, etc.) destinate a coprire il disavanzo di bilancio cioè il deficit.

Il debito pubblico italiano a fine 2014 è di 2.314,8 miliardi di euro, il 135 per cento rispetto al Prodotto interno lordo.

Nel periodo tra il 1950 e il 1969 quel rapporto è stato del 30%, tra il 1970 e il 1979 è salito al 65%, al 94,7% nel 1990, al 108,8 nel 2001, fino al 135% attuale.

Come si è formato

Una prima causa dell’aumento del debito pubblico italiano è legata alla politica fiscale in favore dei capitali adottata nel corso degli anni 70 e 80. In quel periodo, infatti, la spesa pubblica italiana è stata inferiore, tra i 5 e i 10 punti del Pil, rispetto a Francia e Germania, ma la pressione fiscale è stata ancora più inferiore, tra i 10 e i 15 punti; in particolare, le imposte sui redditi da capitale sono passate dal 41,3 al 31,4 per cento, circa il 10 per cento in meno, mentre si è espansa oltre ogni limite l’evasione fiscale. All’origine dello specifico debito italiano c’è dunque meno stato sociale da una parte e molte meno tasse per la parte agiata della popolazione dall’altra.
Una seconda causa dell’aumento del debito pubblico va fatta risalire al “divorzio” fra la Banca d’Italia e il Ministero del Tesoro, avvenuta nel 1981. A partire da quella data, la Banca d’Italia non è più intervenuta nell’acquisto di titoli di Stato, dismettendo la funzione calmieratrice degli interessi sugli stessi e facendoli schizzare alle stelle.

Dal 2007 ci si è poi messa la crisi economica.

Ma la dilatazione dei debiti è stata una precisa scelta delle politiche degli ultimi decenni all’insegna del neoliberismo. Propagandando la necessità di garantire i profitti per aumentare gli investimenti, e sperando di conseguenza di aumentare l’occupazione, quelle politiche hanno prodotto una riduzione drammatica dei salari, dello stato sociale e una generalizzazione delle privatizzazioni.

Secondo l’Ires-Cgil, in dieci anni, dal 2000 al 2010, i salari hanno perso circa 7.000 euro del loro potere di acquisto mentre i profitti netti delle maggiori imprese industriali italiane (campione Mediobanca) dal 1995 al 2008 sono cresciuti di circa il 75,4% e, al contempo, dal 1990 a oggi, si registra una crescita dei redditi da capitale (rendite) pari a oltre l’87%.

Sempre secondo il centro studi della Cgil, l’andamento degli investimenti in rapporto ai profitti, negli ultimi trent’anni, è calato del 38,7%. Questo significa che i profitti non sono stati reinvestiti nella crescita economica ma nella rendita finanziaria che ha garantito ulteriori utili grazie agli interessi dei debiti pubblici, agli interessi dei debiti privati dei lavoratori – cresciuti per effetto della riduzione dei salari – alle speculazioni monetarie e dei prodotti derivati, trasformando la finanza globale in un gran “casinò”.

Quando il gioco è finito, quando i debiti sono divenuti troppo alti è sopraggiunta la crisi. Ma con la scelta di salvare le banche, facendosi carico delle perdite prodotte dai grandi istituti finanziari un debito che era privato è stato trasformato in ulteriore debito pubblico.

Perché il debito pubblico va ristrutturato

Come si evince dai dati iniziali sul bilancio dello stato negli ultimi 20 anni, l’avanzo primario accumulato con politiche di austerità è stato interamente devoluto al pagamento degli interessi sul debito.

Oggi gli interessi sul debito rappresentano il 75% dell’ammontare totale del debito stesso. Sono la terza voce di spesa (85-90 miliardi) dopo la previdenza e la sanità e sono pari al 5.3% del Pil.

Questo significa che, anche solo per mantenere immutato l’indebitamento anno dopo anno, il Pil del nostro Paese dovrebbe crescere annualmente più del 5,3%.

Evidentemente impossibile nell’oggi e nel futuro.

Se a questo aggiungiamo la sottoscrizione fatta dall’Italia del “fiscal compact”, ovvero l’impegno nel ventennio 2016-2035 a riportare, dall’attuale 135% del rapporto debito/Pil al 60%, con un esborso annuo di ulteriori 50 miliardi, l’evidenza della necessità di ristrutturare il debito pubblico appare chiara.

Anche guardando al diritto internazionale, non esiste l’obbligo assoluto di rimborsare i debiti: per gli Stati viene prima l’obbligo di proteggere i diritti umani e i diritti economici, sociali e culturali delle loro popolazioni. Si guardi l’articolo 103 della Carta dell’Onu, in cui si prescrive la superiorità dello Statuto delle Nazioni Unite, quando ad esempio impone “l’elevamento dei livelli di vita”, il “pieno impiego” o “lo sviluppo dell’ordine economico e sociale”, su tutti gli altri obblighi contratti dagli Stati.

Analoghi esempi possono essere fatti per la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo(1948, articolo 28), per i Patti sui diritti economici, sociali e culturali (1966, articolo 1) e per la Dichiarazione sul diritto allo sviluppo (1986, articolo 2).

 

Il debito degli enti locali

A maggior ragione, la necessità di ragionare in maniera diversa, in merito alla sostenibilità del debito e delle politiche monetariste, vale per gli enti locali.

Sempre guardando ai dati posti all’inizio della scheda, vediamo come i Comuni concorrano al debito pubblico italiano solo per il 2,1%. Ma, nonostante questo, le misure di stabilità finanziaria insistono soprattutto sugli enti locali medesimi, il cui contributo al “risanamento” (tra tagli ai trasferimenti e patto di stablità), richiesto dalle manovre 2009-2015 è passato dai 1650 miliardi del 2009 ai 16655 miliardi del 2015 (+909%).

Dal 2008 al 2014, le varie manovre hanno comportato impatti sulla spesa primaria del 26% per i Comuni (pari, in valore assoluto, ad oltre 15 miliardi) e si è determinato un correlato incremento della pressione fiscale con una contrazione rilevante degli investimenti (che ha raggiunto mediamente per i Comuni il 60% delle economie di spesa).

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