SCHEDA 4: Il patto di stabilità

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Cos’è il Patto di stabilità interno

Il Patto di stabilità interno fissa le regole cui devono attenersi gli Enti Locali per concorrere al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica fissati dalle Leggi finanziarie (ora Leggi di stabilità), in relazione ai parametri di deficit e debito pubblico che derivano dagli impegni assunti a livello europeo (dal trattato di Maastricht al “fiscal compact”).

Esso ha dunque una lunga storia e, dopo essere stato introdotto per la prima volta con la legge finanziaria 1999, è stato modificato più volte in senso sempre più restrittivo.

Come è mutato nel tempo

Se in una prima fase indicava solo obiettivi di carattere programmatorio generale, progressivamente è passato a fissare grandezze vincolanti relative a tutte le voci di spesa degli enti locali.

In un primo periodo (1999-2005) il patto di stabilità interno ha avuto come obiettivo primario la riduzione della spesa per il personale: si è così passati dall’ingresso di un nuovo lavoratore ogni due che andavano in pensione, al rapporto 1 a 5, fino al definitivo blocco del turn over.

Secondo i dati Istat, dal 2001 al 2011, i lavoratori pubblici passano da 3.209.125 a 2.840.845; la contrazione maggiore si ha negli enti locali dove gli addetti passano da 478.805 a 428.218, con una riduzione del 10,6%.

In particolare, in tutto il settore pubblico si registra una contrazione significativa del personale in settori cruciali nel sistema di welfare italiano: istruzione (-130.000), sanità/assistenza sociale (-65.000).

In una seconda fase (2006-2010) l’obiettivo del patto di stabilità interno si allarga verso la drastica riduzione delle possibilità di investimento da parte degli enti locali.

Uno studio di IFEL (Fondazione dell’ANCI) sulla situazione finanziaria dei Comuni, dimostra come nel triennio 2008-2010 il saldo finanziario medio nazionale dei Comuni sia stato di 26,5 euro procapite, realizzato attraverso la concomitante riduzione delle entrate (-12,5 euro procapite) e delle spese complessive (-39 euro procapite). Quest’ultimo risultato, peraltro, deriva una crescita delle spese correnti (+39 euro) e da una riduzione delle spese in conto capitale (-78 euro). Detto in altri termini, in quel triennio i Comuni hanno sostanzialmente bloccato gli investimenti e ritardato i pagamenti degli stessi.

Infine, nell’ultimo quinquennio, si è arrivati alla riduzione massiccia della stessa spesa corrente.

anche all’andamento della spesa corrente, attraverso la costruzione di dettagliati parametri e coefficienti da applicare di anno in anno.

La stupidità del patto di stabilità interno

Delle diverse e compulsive rigidità con cui ogni anno viene definito il patto di stabilità interno, vi è un aspetto che ne denota la stupidità oltre ogni limite.

Agli inizi del 2013 i Comuni italiani avevano 9 miliardi di euro di disponibilità liquide e 9 miliardi di debiti verso le imprese. La logica avrebbe voluto che questi ultimi fossero saldati, ma molti enti non hanno potuto farlo perché il patto di stabilità interno glielo ha impedito.

Il meccanismo venne introdotto per imporre ai Comuni ed alle Province di spendere ogni anno soltanto il danaro incassato, congelando nella Tesoreria centrale di Roma (a partire dal 2012) tutti i risparmi conseguiti negli anni precedenti.

Ma, siccome le entrate correnti sono sufficienti appena a coprire le spese correnti, gli investimenti (ed i relativi pagamenti) rimangono fermi.

Capiamo il meccanismo infernale con un esempio semplice quanto quotidiano per un ente locale.

Un Comune decide di fare un’opera pubblica del costo di 400.000 euro; di conseguenza impegna la spesa e appalta i lavori necessari. La dita aggiudicataria realizza l’opera in due tempi, la prima parte nell’anno solare in cui ha vinto l’appalto e la seconda parte nell’anno successivo. Logica vorrebbe che il Comune liquidasse la prima parte (per 200.000 euro) nell’anno solare e la seconda parte (gli altri 200.000 euro) nell’anno successivo, facendo per entrambi i lotti riferimento all’impegno di spesa complessivo assunto. Questo non è invece possibile: il Comune potrà pagare senz’altro il primo lotto (200.000 euro) entro l’anno solare, ma per poter pagare il secondo lotto (gli altri 200.000 euro), essendo nell’anno successivo, non potrà utilizzare i soldi impegnati (nonostante li abbia!), ma dovrà trovare nuove entrate corrispondenti.

Già così il meccanismo dimostra la propria demenzialità. Ma immaginiamo che il Comune dell’esempio citato non riesca a realizzare le nuove entrate necessarie. In questo caso non salderà la ditta per il lavoro realizzato e verrà reso dalla stessa destinatario di un’ingiunzione di pagamento. In tal caso il danno diventa doppio perché dovrà ricorrere ad uno studio legale per difendersi per poi finire comunque con il versare al creditore il dovuto (addizionato dagli interessi). Mentre continua ad avere in cassa la cifra necessaria a cui, grazie ai meccanismi infernali del patto di stabilità, non può ricorrere!

Un patto di destabilizzazione sociale

Sembra evidente come il patto di stabilità interno, lungi dal porsi obiettivi di equilibrio finanziario, serva soprattutto a ridurre drasticamente la funzione pubblica e sociale degli enti locali, costringendoli, attraverso il progressivo collasso economico, a mettere sul mercato e a privatizzare le ricchezze pubbliche che possiedono: il territorio, i servizi, il patrimonio pubblico.

Il patto di stabilità svuota così anche la democrazia di prossimità, contribuendo ad indebolire il legame sociale delle comunità territoriali.

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