La più sintetica fotografia del nostro tempo è nel rapporto tra due numeri riferiti al 2013, uno dei quali riguarda l’ammontare del Pil mondiale, mentre il secondo il volume delle attività finanziarie: ebbene, mentre il primo dato è pari a 75 bilioni di dollari (75mila miliardi), il secondo è pari 993 bilioni di dollari (993mila miliardi). E se in 10 anni il prodotto interno lordo mondiale è raddoppiato, il volume delle attività finanziarie è triplicato, con nessuna soluzione di continuità, malgrado la crisi globale esplosa nel 2007 e tuttora in corso.
Ad aumentare l’inquietudine di questi dati è l’analisi della struttura di questa enorme massa di denaro: solo 283mila dei 993mila miliardi di dollari costituiscono la cosiddetta finanza primaria, ovvero azioni, obbligazioni ed attivi bancari, mentre i restanti 710mila miliardi di dollari sono prodotti derivati scambiati fuori dai mercati regolamentati (la cosiddetta “shadow banking”, la finanza-ombra), dei quali solo un’infinitesima parte è legata a transazioni che hanno a che fare con l’economia reale. Per fare un esempio, su 100 scommesse finanziarie sul prezzo del grano, solo una è direttamente legata alla produzione e alla distribuzione dello stesso, mentre le altre 99 sono pure speculazioni finanziarie.
Dentro questa enorme massa di denaro basata su scommesse sui tassi di interesse, sulle valute, sui prezzi delle materie prime, sull’andamento degli indici azionari, sul fallimento di stati o di grandi imprese, secondo la stime della Bacca dei Regolamenti Internazionali, si annidano rischi massimi pari a 19mila miliardi, una cifra superiore al prodotto interno lordo degli Stati Uniti.
Ma come si è arrivati a questa finanza-casinò?
Per capirlo occorre fare qualche passo indietro e ritornare agli anni ’70 del secolo scorso, quando, grazie ad una serie di rivoluzioni tecnologiche nel campo dell’informatica, della comunicazione e dei trasporti, che ha permesso una progressiva globalizzazione del sistema economico-produttivo, sino ad allora ancorato all’interno dei confini statuali, si è affermata l’ideologia liberista raccontando a tutti una favola, che più o meno suonava così: “Facciamo dell’intero pianeta un unico grande mercato, liberalizziamo i mercati finanziari e diamo piena libertà di movimento ai capitali; togliamo loro ‘lacci e lacciuoli’, legati a concezioni obsolete e sconfitte dalla storia, eliminiamo tutti i vincoli sociali e ambientali, e sarà il libero dispiegarsi del mercato ad autoregolare la società, producendo un enorme ricchezza che, se anche non ridurrà le diseguaglianze sociali, produrrà a cascata benessere per tutti”.
La conclusione di quella favola è stata ben diversa perché, pur essendo stata prodotta un’enorme ricchezza, non vi è stata alcuna redistribuzione sociale, al punto che le diseguaglianze nel pianeta non sono mai state così ampie nella storia dell’umanità.
Di conseguenza, già alla fine degli anni ’70, il modello si è trovato immerso in una crisi da sovrapproduzione e mancata allocazione su nuovi mercati : ovvero, si è dovuto confrontare con una stragrande maggioranza della popolazione mondiale talmente impoverita da ritrovarsi senza alcun potere d’acquisto, e con una fascia minoritaria con capacità d’acquisto, ma che in breve tempo aveva comprato e consumato quanto era nelle proprie possibilità. E’stato a questo punto, e per rispondere esattamente a questo impasse, che il modello capitalistico ha modificato il proprio agire, trasferendo enormi risorse direttamente sui mercati finanziari, ovvero ovviando alla difficoltà di continuare ad ottenere profitti scambiando merci con la ricerca di profitti semplicemente scambiando denaro. Si potrebbe quindi asserire che, lungi dall’essere la crisi del capitalismo creata dalla finanza, è stata proprio quest’ultima a posticiparne di almeno venticinque anni la crisi, consentendo nel frattempo profitti di inimmaginabili proporzioni.
“Il Governo approva la manovra e attende con ansia la riapertura delle Borse per conoscere il giudizio dei mercati”. E’ sufficiente questo, ormai usuale, titolo di giornale a rivelare l’incubo dentro il quale la favola di allora ha precipitato l’intero pianeta. Come divinità dell’antica Grecia, i mercati sono diventati una realtà “astratta e impersonale” che domina le vite delle persone, le
economie delle società, le istituzioni politiche. Perché pur essendo “inavvicinabili ed inconoscibili” i mercati provano emozioni: possono dare e togliere fiducia, divenire euforici o collerici, turbarsi. E alle popolazioni non resta altro che fare continui sacrifici in loro onore, sperando di ingraziarli per suscitare la loro benevolenza o per mitigarne la collera.
Questa enorme massa di denaro accumulata sui mercati finanziari, assieme ad un’enorme ricchezza per chi la possiede, porta con sé tuttavia un problema di non facile soluzione: come evitare che l’enorme rigonfiamento dell’economia ‘virtuale’ non si trasformi in un ciclo di “bolle” che esplodendo producono altre “bolle”, le quali preparano la nascita di “bolle” successive, in un circolo vizioso senza fine? Una parte di questa ricchezza finanziaria va dunque reinvestita in mercati ‘reali’, anche per ri-alimentare l’accumulazione finanziaria.
Ma qui, il modello si ritrova con l’identico problema che già gli aveva procurato il primo impasse, mettendo in crisi la favola liberista: la parte depredata e impoverita del pianeta continua a non poter comprare alcunché, mentre la parte dotata di potere d’acquisto ha in buona sostanza già comprato tutto l’acquistabile. Occorre dunque inventare nuovi mercati per questa fascia di popolazione.
Ma cosa si può vendere a chi ha già acquistato tutti i beni possibili? L’unica possibilità consiste nel mettere in discussione i diritti e i beni comuni per aprire nuovi terreni di valorizzazione per gli interessi finanziari. Se si trasforma il diritto all’istruzione in bisogno economico, questo comporterà che una parte della popolazione non potrà più studiare, ma coloro che se lo potranno permettere pagheranno per potersi istruire; se si trasforma il diritto alla salute in bisogno economico, vorrà dire che una parte della popolazione morirà perché si curerà in ritardo, ma coloro che se lo potranno permettere pagheranno per garantirsi la salute. Se si trasforma l’acqua da bene comune in bene economico, si ottiene di per sé un mercato dal profitto garantito, poiché l’acqua è essenziale alla stessa sopravvivenza delle persone.
L’attacco ai diritti e ai beni comuni è dunque una imprescindibile necessità per il modello capitalistico per uscire dalla crisi con un nuovo ciclo di accumulazione finanziaria. Per questo, la lotta per i beni comuni è innanzitutto un conflitto fra Borsa e la vita, ovvero tra un mercato onnivoro e pervasivo che determina l’intera vita delle persone, mettendola a valorizzazione finanziaria, e la necessità di intere fasce di popolazione di riappropriarsi di ciò che a tutti appartiene e deve servire l’interesse generale e non il business privatistico.
Ed è esattamente quello che si è affermato nel nostro Paese con la straordinaria esperienza del movimento per l’acqua e della vittoriosa campagna referendaria: perché finisca la schiavitù del mercato e della finanza, occorre affermare i beni comuni come principio fondamentale del diritto alla vita e come humus ineludibile della coesione sociale. Ma se la battaglia dell’acqua ha aperto la breccia per la costruzione di un altro modello sociale, la crisi sistemica in cui il pianeta -e l’Europa in particolare- è immerso da oltre sette anni sta tentando di chiudere ogni spazio, cercando di rendere il modello liberista l’unica e indiscutibile possibilità.
Per far questo, di fronte ad una perdita di consenso ormai evidente per il cosiddetto ‘pensiero unico del mercato‘ si è cercato di ovviare con la terapia dello shock.
Milton Friedman, uno dei massimi teorici del liberismo, diceva : “Lo shock serve a far diventare politicamente inevitabile ciò che è socialmente inaccettabile”.
E’ sotto questo auspicio che si è costruita artificiosamente la trappola del debito pubblico e della sottomissione di ogni diritto e bene comune alle esigenze della stessa.
E’ come se si fosse risposto all’intera società, che, votando al referendum sull’acqua, aveva decretato la fine dell’ideologia del “privato è bello”, con queste parole : “Bene, voi non condividete più la nostra visione del mondo, voi non credete più alla favola del ‘privato è bello’. Poco importa. Basta che vi sia chiaro che, se anche privato non è più bello, è tuttavia obbligatorio e ineluttabile”
E’ per consentire un nuovo ciclo di spoliazione di diritti e beni comuni che si è costruito lo shock del debito, con il necessario contorno di angoscianti allarmi sul fallimento del paese, il baratro dell’economia, l’affaccio sul precipizio della nazione.
Ciclo che, mentre viene portato avanti attraverso le politiche monetariste imposte dai trattati dell’Ue e dalle politiche di austerità portate avanti dai singoli governi, si cerca di rendere irreversibile con un nuovo e segretissimo trattato in corso di negoziazione tra Usa e Ue: è il Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, meglio noto come TTIP.
Questo trattato ha lo scopo di creare la più grande area di libero scambio del pianeta, permettendo all’interno della stessa la piena libertà d’investimento attraverso l’abbattimento delle cosiddette barriere “non tariffarie”, ovvero tutte le legislazioni del lavoro, ambientali, sanitarie, di gestione pubblica dei servizi che, per il loro stesso esistere, rendono più difficile la piena libertà d’investimento.
E’ il tentativo di realizzare l’utopia delle multinazionali, le quali potranno fare causa presso tribunali speciali, formati da tre avvocati d’affari, a qualsiasi autorità pubblica -dall’ente locale allo Stato- possa, attraverso deliberazioni o norme di difesa dell’interesse generale, pregiudicarne profitti attuali e futuri.
Se passasse questo trattato, volutamente tenuto nascosto alle popolazioni, il liberismo sarebbe l’unico orizzonte possibile e la democrazia a qualsiasi livello semplicemente non esisterebbe più, sacrificata assieme ai diritti e ai beni comuni, sull’altare dell’indiscutibilità dei profitti.
Se la crisi è sistemica, non ci sono che due possibilità: salvaguardare il sistema, accettando che l’intera vita delle persone e la natura siano messe al servizio dell’espansione degli interessi finanziari, oppure uscire dalla rassegnazione, prendendo coscienza collettiva della necessità di abbandonare un sistema che, per garantire enormi profitti ad un’esigua minoranza di persone, condanna alla povertà e alla solitudine la stragrande maggioranza della popolazione.
Su questo secondo sentiero, la riappropriazione sociale dei beni comuni diviene la base per la costruzione di una diversa società, che sappia mettere in campo una nuova economia socialmente ed ecologicamente orientata, partendo dalla condivisione collettiva su ‘cosa, come, dove e per chi‘ produrre; che si riappropri della ricchezza sociale prodotta- a partire da una nuova finanza pubblica e sociale- per garantire redistribuzione e investimenti socialmente utili; che faccia della partecipazione sociale l’humus per una nuova democrazia pluri-livello, in grado di coniugare forme di democrazia diretta e partecipativa con forme di rappresentanza profondamente rinnovata.
Una società che deve rovesciare il senso dei concetti di spazio e di tempo propugnati dall’ideologia liberista : se in questa lo spazio si amplia dismisura, fino a far diventare il pianeta un unico grande mercato, e il tempo si restringe drasticamente sino a considerare come unica scadenza l’indice di Borsa del giorno successivo, occorre che il nuovo modello sociale operi inversamente, restringendo lo spazio verso l’ambito territoriale delle comunità locali, all’interno delle quali si deve auto-produrre la gran parte del necessario, ed estendendo esponenzialmente il tempo delle scelte a quello della conservazione dell’ecosistema per le molte generazioni che verranno.