Per una riconversione ecologica dell’economia – n.16, novembre dicembre 2014

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di Mario Agostinelli

Il concetto di conversione richiama la categoria del comportamento e le convinzioni essenziali a cui si ispira la coscienza individuale e/o sociale. E’ parola a dimensione prevalentemente etica, che riguarda innanzitutto la sfera personale e indica, anche metaforicamente, il percorso cosciente di un cammino altro da quello compiuto precedentemente.

Quando invece parliamo di riconversione e la associamo, come in genere accade, alla produzione di merci o servizi, indichiamo per lo più una decisione presa nella sfera economica – e talvolta politica – per destinare a nuove finalità delle attività ritenute in qualche modo esaurite, non più “convenienti” o, addirittura, non più compatibili con l’evoluzione della situazione di cui hanno fatto parte. Raramente introduciamo la “cifra” della crisi, la più profonda e più complessa che la modernità abbia fin qui affrontato, che riguarda la dimensione sociale, i limiti climatici e ambientali, la proprietà dei beni non economici che garantiscono uguaglianza rispetto al diritto ad una vita dignitosa.

Davanti alla minaccia di sopravvivenza della biosfera , alla crisi di civiltà e alla incapacità di alimentare il meccanismo di crescita ormai portato al parossismo dalla dittatura di un potere finanziario avversario della democrazia, conversione e riconversione ecologica avvicinano i loro campi di azione. Nel dibattito in corso, tutti e tutte convengono che non è possibile un’efficace alternativa economica e politica al meccanismo economico distruttivo in atto senza una profonda revisione dei comportamenti, del rapporto uomo-natura, della finalità sociale, “extra-economica”, del lavoro. La riconversione produttiva, cioè, non può più prescindere dalla sua “desiderabilità” sociale e ambientale.

Lungo questo percorso, è stato soprattutto Wolfgang Sachs negli anni ’90 a chiarire che giustizia sociale e giustizia ambientale devono inevitabilmente ricongiungersi. A dieci anni da Porto Alegre e da Genova, i movimenti possono ormai far propria una lettura organica delle ragioni della crisi in corso e della sua irreversibilità. Sono ragioni che riguardano una serie di rotture e conflitti, oltre quello tradizionale- pur sempre determinante – tra capitale e lavoro, e che hanno ormai conquistato fortunatamente le avanguardie delle organizzazioni dei lavoratori. Mai però come in questi ultimi anni il potere politico economico finanziario – dell’Occidente in particolare – si è opposto, tanto a livello locale e nazionale quanto a livello continentale e planetario, a riportare il sistema produttivo entro un quadro di sostenibilità imposto dai limiti fisici e biologici del pianeta in cui viviamo, salvaguardando, potenziando e qualificando l’occupazione e valorizzando la dotazione di tecnologia, di impianti e di conoscenze dell’apparato industriale e produttivo esistente.

La via allora è quella di una riconversione, votata sì alla discontinuità, ma gestita democraticamente, come risultato di una lotta per un potere non più esercitato solo sul terreno redistributivo. Ciò aprirebbe nel nostro Paese un dibattito sulla mancanza di una politica industriale e sul declino del nostro sistema produttivo, che riproduce condizioni di lavoro dequalificate, perde posizioni nella competitività internazionale, è fonte primaria di una precarizzazione che investe l’intera esistenza e alimenta un sistema di consumi e uno spreco di risorse naturali che pregiudicano la salute e le possibilità di vita delle prossime generazioni. Altro che Patto del Nazareno!

Per quanto mi riguarda, non c’è ipotesi dirigista che possa condurre alla riconversione ecologica dell’economia. La marginalità del lavoro nella società odierna e la riduzione del debito finanziario come pietra angolare del comportamento intergovernativo a cui la cittadinanza si deve piegare a discapito dei suoi diritti, fa sì che sia ormai introiettata nella dimensione sociale la rinuncia al potere istituzionale di tutto quanto si organizza fuori dalle élites industriali, economiche e finanziarie. Perciò, anche puntando alla modifica del sistema rappresentativo-istituzionale, occorre strappare e riconsegnare strumenti di potere “dal basso” a chi fa esperienze territoriali, lavorative, di relazioni sociali, attraverso le quali constata l’inadeguatezza di una “crescita” che non redistribuisce ricchezza e spreca lavoro e natura. Se la politica, aderendo in blocco all’ideologia neoliberista, non riconosce più centralità alle organizzazioni sociali – e questo è il nodo imprescindibile del conservatorismo reazionario di Renzi – bisogna allora aver fiducia nel riconnettere individui, lavoratrici e lavoratori, produzione, riproduzione, valorizzazione e organizzazione del territorio in forme di democrazia sociale ancora da strutturare ma già oggi capaci di formulare teoria e di praticare percorsi di lotta all’altezza di una nuova organizzazione del modo di vivere, lavorare, produrre e consumare nel territorio.

Una proposta in tal senso può trovare un punto di iniziale agglutinazione intorno all’obiettivo della riconversione dell’apparato produttivo e del consumo, a partire dalle punte energivore più esposte: a livello sia locale – nei punti di maggior crisi occupazionale – che regionale, nazionale e planetario: agire localmente, ma pensare globalmente.

Decisiva è l’azione, ma inserita in un contesto politico-culturale che ha già fatto un balzo in avanti spesso sottostimato. Una cultura capace di articolare e applicare categorie omogenee di interpretazione per settori interdisciplinari (i beni comuni naturali, innanzitutto: acqua, energia, aria, terra), per territori non omologabili all’arena del mercato (con le conoscenze specifiche che ogni gruppo si è fatto rispetto a dove vive e lavora), per individuazione di strumenti di politica economica e fiscale che inibiscano la deriva delle privatizzazioni (anche quando, come nel caso della Cassa Depositi e Prestiti si camuffano da cavallo ruffiano).

Se si riflette sulla molteplicità di lotte in corso, saperi tecnico scientifici, conoscenze del territorio e buone pratiche sono già il punto di forza delle esperienze di auto-organizzazione più rilevanti degli ultimi anni, nel campo dell’energia, dell’acqua, del trasporto, dell’agricoltura, alimentazione, urbanistica, educazione, gestione rifiuti, mobilità, salute. Ormai non è più questione solo di idee con cui affrontare la svolta, ma di pratiche da cui cominciare senza compromessi. Sulla valorizzazione di saperi, conoscenze e buone pratiche e sull’innesco diretto con le rivendicazioni territoriali e del mondo del lavoro, si può, a mio avviso, definire una nostra organizzazione non più a comparti tematici separati, in grado di costruire convergenze quando i problemi sono pluri-settoriali. Ci sono le urgenze del mondo del lavoro – le fabbriche che chiudono o che chiedono di sopravvivere sussidiando produzioni insostenibili, lo stesso mondo dell’impresa e del terzo settore, ma anche il mondo agricolo e della piccola distribuzione – e le amministrazioni locali. Dovremmo però “metterci insieme”, fare di cento conflitti e vertenze un unico programma politico. Non ci sono più orizzonti catartici a portata di mano ed una coerenza programmatica sui nodi essenziali citati è più che esaustiva. Dobbiamo, banalmente, lavorare insieme.

La questione energetica, dentro questo ragionamento, assume nella mia esperienza un’importanza cruciale, proprio per la trasversalità con cui questa lente traguarda il futuro. E non tanto per ragioni tecnologiche, quanto di organizzazione sociale. Un passaggio necessario da sistemi centralizzati ed extraterritoriali, propri dell’era fossile, a sistemi decentrati, alimentati da fonti rinnovabili e integrati e programmati   nel complesso delle risorse territoriali, produce visibilissimi riflessi sullo sviluppo dell’occupazione, oltre che sulla salubrità della produzione e sulla riduzione del consumo. Vengono così portate in primo piano le ragioni di un modello che prende ad esempio e imita la natura, che si riappropria del tempo, che applica la parola tagli agli sprechi anziché ai bisogni e ai diritti, e che punta a riarmonizzare lavoro e natura.

Se dovessi, in sintesi, indicare una linea di percorso per la riconversione economica dell’economia, sosterrei – a fronte di una crisi di civiltà – che il territorio è il luogo da cui ripartire; la riappropriazione del lavoro e i diritti dei lavoratori sono il passaggio cruciale per sostenere il conflitto per un mondo diverso; l’abbandono del concetto di “crescita” costituisce la direzione univoca verso cui procedere; l’accumulazione pubblica traduce la richiesta democratica di ridurre il potere privato; la ricostruzione della rappresentanza sociale, prima ancora che politica, raffigura l’urgenza da risolvere. Questo, nella convinzione che la riconversione-conversione deve essere un fattore che porta alla condivisione di orientamenti, al collegamento operativo e al coinvolgimento diretto degli attori dei conflitti sociali, dei promotori di buone pratiche, dei soggetti delle forme di resistenza oggi ancora frammentate ma da riunificare se si vuole capovolgere il dominio attuale.

Tratto dal Granello di Sabbia di Novembre – Dicembre 2014: “Riconversione ecologica”, scaricabile QUI

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