di Marco Bertorello
Spesso finanza e lavoro vengono considerate agli antipodi, aspetti di due realtà inconciliabili come l’economia finanziaria e quella reale.
In realtà risulta difficile ormai separare queste due sfere, che nel loro essere complementari definiscono i contorni dell’economia contemporanea nel suo insieme. Ovviamente il complesso e articolato processo in corso vede il lavoro soccombere alla finanziarizzazione, sia sul piano politico e di potere, sia su quello delle risorse. Soccombere però non significa diventare irrilevante. Soccombere significa diventare sempre più subalterno, scombinando la vecchia dicotomia tra lavoro dipendente e autonomo, tra lavoro stabile e precario. Creando persino potenzialmente nuovi elementi di condivisione e di riconoscimento reciproco tra identità diverse, ma accomunate dal medesimo destino sotto il dominio della finanza e dei grandi capitali.
La finanziarizzazione è la cifra del capitalismo contemporaneo, essa conclude il percorso che ha posto al centro il profitto, scardinando gli altri fattori produttivi. La logica dell’accumulazione è sempre la medesima, cioè la massimizzazione del tasso di profitto, un moto verso l’accrescimento del valore del capitale al tasso più alto possibile, ma la differenza è che spesso non è più necessario passare attraverso il sistema produttivo e di consumo. Parafrasando Sraffa, si può sostenere che si passa dalla produzione di merci a mezzo di merci alla produzione di finanza a mezzo di finanza. Cioè spesso salta il marxiano passaggio D-M-D1 (Denaro-Merce-Denaro) per giungere direttamente al D-D1. Dove D1 è maggiore di D. Tale novità non è semplicemente il frutto di una volontà di potenza del capitale, quanto piuttosto la risultante, consentita da condizioni tecniche e politiche, di una crisi nata a metà degli anni ’70 nell’economia reale.
Quest’ultima non riesce più a crescere come prima e progressivamente si afferma un regime finanziario di sostegno agli scambi, combinato con un regime debitorio (privato e pubblico) che consente sempre più di realizzare la valorizzazione del capitale saltando il passaggio produttivo. Quando tale passaggio resta necessario, perché si deve pur vivere e consumare prodotti materiali e immateriali, esso viene snaturato da un’economia in cui la riduzione salariale è compensata da una diffusione e facilitazione crescente del consumo a debito.
In tal senso viene ribadita la funzionalità di un sistema in cui le merci restano uno degli aspetti più importanti nell’affermazione dell’accumulazione, seppur non più l’unico né forse il principale. Ma la finanza non riesce a vivere interamente di vita propria e necessita di fagocitare sempre nuove terre vergini. Il meccanismo incessante di monetizzazione del debito e del suo rilancio costante, impedisce che si realizzi mai una conclusione del rapporto tra debitore e creditore. Tale processo viene ulteriormente potenziato mediante l’immissione continua di massa monetaria nel circuito finanziario, immissione garantita dalle banche centrali, una sorta di debito generico della collettività che va a sostituire il debito specifico privato sempre più in crisi. Inoltre la finanziarizzazione ha bisogno del circuito della merce attraverso una progressiva mercificazione appunto di quote crescenti di beni fino a ora considerati comuni o pubblici. Mettere a valore questi beni non è solo un sintomo di forza del sistema ma anche della sua debolezza, cioè del suo modesto grado di autosufficienza.
Quel che è certo è il crescente distacco del meccanismo finanziario di accumulazione non solo dalle tradizionali procedure dell’economia reale, ma soprattutto da quelle della vita reale comune. La finanziarizzazione fagocita parte dell’impresa, perlomeno quella che non si espande in una dimensione sovranazionale, ma soprattutto distrugge o umilia il lavoro. Tale scissione tra finanza e vita si esplica in qualsiasi dimensione quotidiana, ogni sfera non riconducibile direttamente alla valorizzazione del capitale viene abbandonata a se stessa e ogni sfera riconducibile a una potenziale valorizzazione invece viene snaturata e sussunta per tale obiettivo. Il lavoro dentro a questo vortice viene destrutturato, frammentato, precarizzato e, soprattutto, messo in competizione tra centro e periferia (e all’interno di questi stessi poli). Il ritrarsi della sfera pubblica e dei beni comuni dà vita a una tendenza che mette in moto qualsivoglia spinta alla valorizzazione privata del capitale. Anzi la sfera pubblica non viene abolita, ma più pragmaticamente messa quasi esclusivamente al servizio di tale processo di valorizzazione.
In questo senso anche il problema ecologico viene sottratto alle logiche di conversione, ma viene adattato alla necessità di valorizzazione. L’ambiente viene difeso se genera profitto, non può essere un costo economico, altrimenti diventa insostenibile. Paradossalmente l’impegno pubblico nelle energie pulite non è stato un modo per sostituire l’uso di energie inquinanti e fossili, ma è diventato rapidamente uno strumento di consumo aggiuntivo di energia, finendo per non incidere affatto sui livelli delle emissioni. Gli attuali equilibri post-crisi poi si sono dimostrati più insostenibili del previsto, la difesa ambientale più antieconomica di quanto sopportabile dal sistema. Perciò svaniscono accordi multilaterali come quelli di Kyoto e vengono approvati accordi bilaterali come quelli Usa-Cina che prevedono un’inversione di rotta tra ben 16 anni! Anche nella più ecologica Europa si procede con una logica che distrugge lavoro socialmente ed ecologicamente utile in quanto non genera profitti, mentre le reti infrastrutturali, urbane, paesaggistiche vanno in pezzi sotto i colpi dei cambiamenti climatici. Quante risorse dei 200 miliardi di investimenti annunciati dalla Commissione europea di Junker, ad esempio, saranno incanalate per far fronte a questo tipo di problemi? E quanto per rilanciare le consuete direttrici della crescita insostenibile?
Se da un lato la quantità di lavoro va riducendosi a causa dello sviluppo tecnologico e soprattutto della crisi, dall’altro vi sarebbe tanto bisogno di nuovi lavori per la riconversione ecologica ed economica di questo sistema, ma per ottenerli si tratta di mettere in campo un articolato processo di alleanze sociali che metta in connessione istanze ecologiche e produttive, per dare vita a una convivenza e a un regime di consumi diversi.
Tratto dal Granello di Sabbia di Novembre – Dicembre 2014: “Riconversione ecologica”, scaricabile QUI