di Marco Schiaffino
A poche settimane dal corteo milanese della mayday parade, rimane un’unica certezza: il tentativo di archiviare l’opposizione all’EXPO seppellendola sotto la cronaca degli “incidenti di piazza” è fallito. Una volta dispersa la tempesta mediatica sul “blocco nero”, sulle vetrine infrante e le auto date alle fiamme, ciò che rimane è la solidità di una protesta sociale che ha radici ben salde. Le poche ore in cui il corteo è finito ostaggio di pratiche che gli erano estranee non hanno potuto cancellare gli anni di elaborazione che la rete NOEXPO ha messo in campo.
Con tutti i dovuti distinguo, il paragone più efficace è quello di Genova 2001. Al G8 di Genova gli scontri e la violenza messa in campo dalla polizia non hanno frenato i movimenti, ma hanno sostanzialmente cancellato dall’agenda politica i temi che migliaia di donne e uomini avevano portato in piazza, nella critica al progetto di globalizzazione imposto dai “grandi”. Anche se quei temi hanno trovato altre dimensioni per sedimentare un patrimonio comune, la riduzione del conflitto sociale a problema di ordine pubblico ne ha frenato l’impatto sull’opinione pubblica. Il “riot” di Milano non ha avuto le stesse conseguenze. Anche la stampa, con le solite eccezioni, si è tenuta alla larga dalla tentazione di criminalizzare l’intero movimento di opposizione al EXPO. La narrazione è stata sostanzialmente quella di “un gruppo di infiltrati in un corteo pacifico”. Chi sperava si potesse replicare il copione andato in scena più volte negli ultimi anni è rimasto deluso.
La vera novità, però, è che mai come in questi mesi l’opinione pubblica si è dimostrata permeabile all’azione di chi si oppone alla logica EXPO. Il maxi evento milanese è un perfetto esempio del non-progetto di vita che ci viene proposto. Senza il movimento NOEXPO, lo sdegno dei milanesi e degli italiani sarebbe rimasto forse circoscritto alle vicende giudiziarie e all’imbarazzante livello di approssimazione e improvvisazione dimostrato dagli organizzatori. La sistematica critica portata avanti dai movimenti ha invece permesso di puntare i riflettori su questioni meno banali. A partire dall’ipocrisia di uno slogan “nutrire il pianeta”, utilizzato come cortina fumogena per proporre la solita passerella per le multinazionali. Nessun vero ragionamento sulla distribuzione, sulla sovranità alimentare o la finanziarizzazione del mercato del cibo.
Ma EXPO è anche molto altro. L’evento rappresenta la sintesi perfetta di quell’inversione di rapporto tra democrazia e mercato che il neo-liberismo sta imponendo in ogni angolo del pianeta. La cementificazione del territorio, la mancanza di una reale programmazione del dopo-EXPO, l’avvio di “grandi opere” subordinate a una logica miope sono state giustificate attraverso la retorica stantia della grande opportunità di guadagno per i cittadini milanesi. Roba che la promessa del milione di posti di lavoro del primo Berlusconi, in confronto, sembra quasi pudica. Soprattutto se si pensa che alla prova dei fatti, oltre alle richieste di migliaia di volontari per gestire il baraccone del secolo, EXPO ha generato soltanto lavori precari e sottopagati, confermando una volta di più (e sotto gli occhi del mondo) che la privatizzazione del mercato del lavoro può generare soltanto inefficienza, miseria, frammentazione sociale.
È in quest’ottica che la protesta NOEXPO è destinata ad andare ben al di là di EXPO 2015. Perché l’opposizione alla fiera del cibo non è solo sopravvissuta alle vetrine sfasciate. Ha messo in moto intelligenze e relazioni che hanno attraversato il territorio per anni. Ha creato consapevolezza e contaminazioni, aggiungendo ulteriori elementi per una critica articolata del sistema che ci viene imposto come “l’unico mondo possibile”. Il viaggio continua.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia di Maggio 2015 “Vantiamo solo crediti”, scaricabile qui.