di Nino Lo Bello
Nel vecchio continente, tuttavia, questo processo non sembra dare i risultati sperati: dall’Inghilterra al Galles, dalla Francia (caso Grenoble) alla Spagna ed alla Germania, per non parlare di altri paesi, si assiste, soprattutto per la gestione dei servizi idrici, al perseguimento dell’obiettivo del profitto a scapito della qualità del servizio e all’accrescresi dei fenomeni di scarsa trasparenza, aumenti tariffari, rapporti impari tra autorità locali e gestori, corruzione, problemi sui lunghi affidamenti ai privati, irregolarità.
In alcuni casi si passa dalla privatizzazione alla rimunicipalizazione
In Italia l’attuazione della legge Galli segna da anni il passo e il principio di buon senso che l’aveva animata – l’utente finale deve farsi carico dei costi del servizio – si sposa, con grandi difficoltà, con la situazione di fatto di uno sfruttamento eccessivo e sconsiderato delle risorse idriche con perdite medie che si aggirano intorno al 30%, con investimenti dell’industria dei servizi crollati dall’85 ad oggi ad un terzo, con un terzo degli italiani che non gode di un accesso regolare e sufficiente di acqua potabile.
In realtà si vuole attuare la legge Galli facendo pagare ai cittadini i disservizi, affidando la gestione ai privati senza garanzia di miglioramento della distribuzione e della qualità dell’acqua.
Questo, se è difficilmente pensabile per la distribuzione ad uso potabile, ancor di meno lo è per gli usi irrigui: l’aumento delle tariffe per l’irrigazione (almeno per il Sud) al di sopra di 50 centesimi di euro/mc provocherebbe solo costi insopportabili e l’abbandono delle campagne.
In questo panorama il governo attuale, cogliendo solo la possibilità di incremento di buoni affari e l’allargamento delle clientele e quindi dei consensi, vara nella finanziaria 2002 l’art. 35 (norme in materia di servizi pubblici locali) nel quale impone con molta chiarezza l’obbligatorietà da parte degli Enti locali di far gestire i servizi idrici ai privati, dettando precetti, tempi e modalità di attuazione.
Gli attuali gestori (municipalizzate, piccoli comuni?) devono scorporare le reti, gli impianti e le altre dotazioni conferendone la proprietà ad una Spa (anche se con capitale a maggioranza pubblico), mettendo a gara la gestione del servizio per l’affidamento ad un’altra Spa (o consorzi di aziende), la quale può a sua volta affidare ad altre società la manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti: da una azienda pubblica con l’obiettivo del pareggio di bilancio, si passa a tre livelli di società per azioni che, per missione istituzionale, sono chiamate a produrre reddito.
In tal modo, non solo si ha difficoltà a comprendere come possano diminuire i costi, ma viene vanificata la funzione democratica del controllo diretto del cittadino sulla gestione, cittadino che viene trasformato in un anonimo cliente.
Si codifica l’assunto che un’azienda pubblica, in quanto tale, non può essere efficiente e che solo il privato è indice di produttività e benessere.
Ciò, se non è vero in un ambito ” di una industria privata razionale che ha bisogno di un diritto di cui si possa far calcolo e di una amministrazione secondo regole formali” (Weber), è ancor meno possibile, soprattutto nel Mezzogiorno, in presenza di un capitalismo d’avventure e speculativo, di ogni sorta di capitalismo politico che vive in un sistema economico in cui non c’è universalità del precetto né della sanzione e il cui capitale sociale è interamente fondato sulle relazioni amicali e parentali, caratterizzato dalla generale riluttanza alla cooperazione allargata ed impersonale, dalla intrinseca “instabilità” di ogni accordo e dalla conseguente stagnazione di attività di “mercato”.
Su queste considerazioni, tanti Enti Locali (circa 110), associazioni e gruppi organizzati di cittadini, stanno intraprendendo una dura battaglia:
battaglia costituzionalista in difesa dell’autonomia delle scelte delle singole comunità locali,
strategia di disobbedienza civile per le disposizioni inique dell’art.35 della finanziaria contro gli interessi dei singoli cittadini,
costruzione di percorsi alternativi come, ad esempio, la realizzazione di Consorzi tra aziende pubbliche e comunità locali, che intendono usare (al Sud) i fondi di Agenda 2000 per rendere efficienti i sistemi di distribuzione, sprecare il meno possibile e mantenere una buona qualità dell’acqua;
battaglia, in generale, di civiltà, sulla base del principio che vivere non significa consumare, che non è vero che tutto ciò che non può essere venduto non ha valore per la nostra società e che sempre più spesso le categorie biologiche possano diventare categorie politiche.
Tutto ciò pensato in un disegno globale i cui i problemi dell’acqua, della terra e dell’aria insieme a quelli della pace, dell’immigrazione e dello sviluppo dell’umanità siano affrontati in un progetto di necessario equilibrio e nella visione che un mondo nuovo è possibile.