L’Europa sulla nuova Via della Seta

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di Simone Pieranni

Il progetto di Nuova via della Seta lanciato dal presidente della Repubblica popolare Xi Jinping nel 2013, prevede, tra le rotte terrestri, anche una rete di trasporti che arriva direttamente in Europa (in Germania e via Duisburg in Gran Bretagna e Spagna). Pechino ha bisogno di investire, e lo ha fatto attraverso acquisizioni, investimenti, non ultimo il porto nord europeo belga di Zeebrugge dopo quello del Pireo, e di rapporti diplomatici, oltre che economici, capaci di consolidare le relazioni tra Cina ed Europa soprattutto alla luce della recente guerra commerciale con gli Usa di Trump.

Il principale partner cinese è la Germania, segue la Gran Bretagna, mentre nell’ultimo anno uno dei paesi che più si è avvicinato alla Cina è proprio l’Italia.

È necessario premettere alcune considerazioni: l’approccio della Cina, anche all’Europa, è quello che si sta ormai verificando in altre parti del mondo; la Nuova via della Seta – attraverso i suoi strumenti finanziari – è pronta a riversare soldi per infrastrutture e asset (energia, macchinari industriali e di recente anche tecnologia) anche in Europa, ma il vecchio continente – come altre zone del mondo – si trova oggi di fronte al consueto dilemma degli investimenti cinesi. Prestiti, e quindi rischio debito, ma non solo.

Negli ultimi tempi i rapporti tra Unione europea e Cina sono stati ondivaghi e non solo per responsabilità cinese. Pechino ha chiari i suoi obiettivi: rafforzare le relazioni economiche con i paesi dell’Unione europea, negoziando però a proprio modo, cioè quasi sempre in termini bilaterali. Da parte dell’Unione europea si osserva il consueto atteggiamento: non c’è, di fatto, una politica estera, né economica comune; ogni stato europeo cerca di trovare il modo migliore per rapportarsi alla Cina e c’è chi lo fa con successo, chi ottenendo meno risultati.

La Germania ha consolidate relazioni con la Cina, da sempre. Nel periodo delle aperture economiche a fine anni ’70 e durante la loro accelerazione tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 i tedeschi hanno creduto nel miracolo cinese e ne traggono oggi le conseguenze. Ma in generale l’atteggiamento – quanto meno di facciata – di Bruxelles è ambiguo: da un lato i singoli paesi cercano soldi e investimenti cinesi, dall’altro alcuni documenti rilasciati dall’Unione europea hanno espresso, nel tempo, non pochi dubbi sulla corsa egemonica cinese a cominciare proprio da un documento del 2017 firmato dagli ambasciatori europei molto critico nei confronti della Nuova via della Seta.

Anche in questo caso, come accaduto in altre zone del mondo, qualcosa è cambiato con il profilarsi più netto delle politiche economiche di Trump alla presidenza Usa. La scelta protezionista di Donald Trump ha finito per portare l’Unione europea a cercare una sponda più consona con la Cina e non solo, si pensi agli accordi commerciali conclusi proprio quest’anno con il Giappone.

La svolta – in questo senso – si è avuta quest’estate con l’incontro tra Cina e Unione europea. Il summit è arrivato successivamente, di poco, all’affermazione di Trump secondo il quale il vero nemico degli Usa sarebbe proprio Bruxelles. Non è un caso che nella dichiarazione finale firmata dal presidente della Commissione europea Juncker e dal premier cinese Li Keqiang – che nell’ambito dei rapporti Ue-Cina prende il posto di Xi Jinping, a sua volta – all’epoca – impegnato in un rilevante tour in Africa – si facciano riferimenti costanti ai mercati aperti, liberi, trasparenti – proprio in contrapposizione al protezionismo trumpiano – e ci sia un protocollo allegato relativo specificamente alle questioni climatiche e alla messa in opera del trattato di Parigi nonostante Washington si sia defilata. Senza parlare dei lusinghieri giudizi nei confronti del Wto, criticato da Trump e al quale la Cina si è appellata proprio per i dazi commerciali posti da Washington alle sue merci.

Buoni propositi, inviti ad aumentare il volume di scambio tra Ue e Cina – nonostante la bilancia commerciale penda, così come con gli Usa, a favore di Pechino. Ma quanto emerge davvero, al di là delle intenzioni e della volontà comune di tenere aperti tutti i tavoli di negoziazione – tra gli altri sulla ricerca scientifica e la cooperazione strategica – è un dato lampante: nei 44 punti complessivi e finali dell’incontro, Bruxelles regala alla Cina alcuni successi non da poco, specie se si ricorda che nei precedenti due incontri non si era arrivati a una dichiarazione congiunta a causa dei dissidi sulla questione del mar cinese meridionale, unita a uno scetticismo neanche troppo velato di Bruxelles sulla Nuova via della seta di Xi.Nel documento finale di questo incontro del luglio 2018, intanto, si fa solo un vago riferimento alla collaborazione sul tema dei diritti umani; ancora più rilevante è il modo con il quale viene trattato il tema del mar cinese meridionale, senza fare alcun cenno alle contestate – quanto meno in Asia – operazioni militari cinesi nell’area; ma quanto davvero risulta clamoroso è il punto 3 dove si legge: «L’Unione europea riconferma la sua One China policy», legittimando i recenti atti di bullismo di Pechino nei confronti di mezzo mondo, per quanto riguarda l’isolamento completo di Taiwan e l’accettazione che l’isola venga considerata come una sorta di provincia cinese.

Come mai l’Ue è sembrata così prona alla volontà cinese? Non c’entra solo Trump, bensì la più generale strategia europea di Pechino.

Prima dell’incontro a Pechino, infatti, Li Keqiang era stato in Germania: in quell’occasione i due Paesi – la Cina è il principale partner commerciale di Berlino – avevano stretto accordi per circa 20 miliardi di euro. Oltre a questo Pechino ha consentito alcune operazioni di investimento di importanti aziende tedesche, ad esempio al colosso chimico Basf, in territorio cinese; in questo caso la Cina è venuta meno alle restrizioni che di solito usa per l’ingresso sul suo mercato di aziende straniere. In più a margine dell’incontro di Berlino era stata liberata e accolta in Germania Liu Xia, la moglie del premio Nobel per la pace Liu Xiaobo morto in un carcere cinese,  confermando dunque un’intesa tra Cina e Germania ben avviata dopo un periodo di minima turbolenza.

E le ragioni di questo periodo più tiepido precedente all’incontro di Berlino, sono da riscontrare nell’ambito del cosiddetto 16+1, ovvero il think tank nato nel 2002 tra Cina e i Paesi dell’Europa orientale (Albania, Bosnia Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Macedonia, Montenegro, Polonia, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia).  Poco prima di recarsi a Berlino Li Keqiang era stato a Sofia per l’incontro del 16+1, visto da sempre con sospetto dall’Unione europea, perché interpretato come un tentativo cinese di erodere la compattezza dell’Ue.

A parziale discredito cinese va detto che ancora il volume di commerci con questi Paesi è inferiore sia a Paesi asiatici, come Corea del Sud e Giappone, sia soprattutto all’Unione europea. E chi ha particolarmente a cuore questa area è proprio la Germania. Gli ultimi incontri europei della Cina vanno dunque nella consueta direzione per quanto riguarda Pechino: dialogare con tutti e spingere in ogni ambito per la Nuova via della seta, visto che in Asia alcuni progetti cominciano a riportare i primi intoppi.  Da parte di Bruxelles – dunque – potrebbe essere maturata l’idea che, a fronte dell’America di Trump e della Russia di Putin, tanto vale rischiare di provare a gestire nel modo meno dispendioso il rapporto economico-politico con la potenza cinese.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 37 di Novembre – Dicembre 2018. “Europa: la deriva di un Continente?

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