di Gianni De Giglio – da communianet.org
Lo scorso marzo, Unione europea e Turchia hanno sottoscritto l’accordo per la gestione dell’arrivo dei migranti sulle coste greche. Al prezzo di sei miliardi di euro la Turchia, attraverso dei veri e propri centri di identificazione all’interno del suo territorio, impedirà l’entrata in Europa (via Grecia) dei migranti catalogati come “economici”. A questo si aggiungerà il respingimento forzato in Turchia di quei migranti che, lungo la rotta balcanica, stazionano già in Europa e che saranno anche loro “certificati” come “economici” e quindi non meritevoli di protezione internazionale.
Con la formula “uno dentro e uno fuori” si aprirà una specie di “rubinetto”: per ogni siriano che potrà entrare in Europa ci dovrà essere in cambio il respingimento di un irregolare.
In nome dell’emergenza profughi lo “stato di eccezione” continua a farsi prassi. Il valore dei migranti e dei profughi è sempre inferiore a quello delle merci che continueranno a circolare liberamente all’interno dell’UE e tra l’Europa e il resto del mondo.
Per le leggi del capitalismo le merci e la finanza hanno bisogno di corridoi regolari e ben attrezzati. Invece per le persone che continueranno a scappare da carestie alimentari e crisi ecologiche, guerre, spossessamento di terra e risorse naturali, alcuni corridoi devono rientrare nel complesso industriale della sicurezza delle frontiere, altri devono invece rimanere rotte per miserabili. E non importa se le attuali e le prossime “maree migranti” continueranno a dotarsi di barconi inaffidabili in mano a trafficanti spietati e a mietere morti in mare. E non importa se ora è il turno della Turchia non rispettare la Convenzione di Ginevra o il diritto di asilo e tutte le sue procedure. L’importante è che il “regime delle deportazioni” non si applichi sul territorio europeo bensì rimanga fuori dai confini, affinché appaia meno vergognoso per l’opinione pubblica europea, portatrice dei valori dei diritti universali dell’uomo. Come se la vergogna dei ghetti e gli sgomberi di Calais, le tendopoli e il fango di Idomeni non fossero in Europa; come se gli hotspot già operativi in Puglia e Sicilia con le loro procedure “illegali” di identificazione e di trattenimento non fossero in Italia dove, in 72 ore e senza un minimo di copertura giuridica e di informazione sui propri diritti, si procede alla selezione tra chi merita la protezione internazionale e chi il rimpatrio, per usare un termine meno imbarazzante.
L’emergenza rende lo strumento aziendalistico del “consiglio di amministrazione” – i vertici tra i capi di stato europei – più celere ed efficace rispetto alle lunghe ed inutili discussioni parlamentari, a prescindere se si violino i diritti degli immigrati, quelli dei richiedenti asilo o dei rifugiati, se le frontiere rimangano chiuse arbitrariamente o all’improvviso compaiano fili spinati.
Fino a qualche anno fa si firmavano accordi con Gheddafi e Mubarak, oggi gli statisti di turno sono al-Sisi ed Erdogan. L’intervista ad al-Sisi pubblicata da Repubblica qualche tempo fa e la dichiarazione di Erdogan a poche ore dall’accordo del 18 marzo scorso, dimostrano quanto oggi siano loro due a sfruttare al meglio la destabilizzazione dell’area e le migrazioni che ne scaturiscono per ricattare e tenere sotto scacco la pavida e ininfluente classe dirigente europea, il cui baricentro politico rimane fisso sull’economia del debito e dell’austerità, sulla ricerca ossessiva della crescita del PIL e un’uscita dalla crisi che non c’è e a breve non ci sarà.
Nel frattempo ci siamo noi. Noi che piano piano ci stiamo accorgendo degli effetti nefasti di una serie di politiche economiche e sociali che non fanno altro che produrre un progressivo livellamento verso il basso delle nostre condizioni di vita e di lavoro, in perenne stato di precarietà e ricattabilità. Si tratta di condizioni sempre più equiparabili a quelle in cui si trovano anche i migranti. Non è un caso però che si vogliano rendere sempre più disagiate e miserevoli le loro condizioni, costringendoli ad entrare e soggiornare illegalmente in Europa per periodi di tempo sempre più lunghi ed incerti. Uno stato permanente di illegalità significa maggiore vulnerabilità e ricattabilità di fronte a qualsiasi esigenza che sia alloggiativa, di reddito o di lavoro.
Se da un lato rimane prioritario utilizzare le strutture di base e le risorse a nostra disposizione per organizzare al meglio l’immediata solidarietà, come la raccolta di beni di prima necessità o il supporto legale, contestualmente è necessario continuare a sostenere concretamente i percorsi di rivendicazione e autodeterminazione dei migranti, a favorire l’incontro tra diverse vertenze e sperimentazioni di accoglienza dal basso, a unire le pratiche mutualistiche a quelle conflittuali. Riuscire a strappare permessi di soggiorno collettivi, migliori condizioni di lavoro, alloggi dignitosi, significa prendere consapevolezza collettiva dei propri diritti con l’obiettivo di scardinare ed abbattere quel muro che ci vuole sempre più divisi tra migranti e nativi.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 24 di Maggio-Giugno 2016 “Il Grande Esodo“