1. Dalla sua esperienza di sindaco di Forlì, come vede la situazione degli enti locali al tempo della crisi?
Gli enti locali, in Italia, hanno tentato di reggere il colpo della crisi fin dal 2010. Lo hanno fatto, inizialmente, provando ad incrementare le risorse a disposizione, nel momento in cui il governo trasferiva loro funzioni “esattoriali” per ragioni propagandistiche e di maquillage finanziario (un processo di decentralizzazione formale, non sostanziale, in stile tipicamente italiano). Ma non ha funzionato, perché il drenaggio da parte del centro del sistema politico è stato molto forte e perché porzioni enormi di società civile son giunte ormai sull’orlo dell’esasperazione. A quel punto, è stato (ed è) allo stallo. Siamo in bilico: aumentare la pressione fiscale – diretta o indiretta – non si può; ridurre i servizi ai cittadini significherebbe depauperare ulteriormente le nostre comunità; incidere su personale e organizzazione sarebbe l’unica strada, con operazioni a mio giudizio coraggiose e necessarie. Ma naturalmente ci sono ostacoli enormi.
La mia opinione è che, contestualmente all’inevitabile ripensamento della macchina dello Stato, sia moralmente decisivo agire sulle rendite di posizione, ovunque esse si annidino: di qui la mia battaglia nei confronti delle multiutility per limitarne i profitti, ad esempio. Ma lo scandalo romano svela pure un extra-costo pagato dalle amministrazioni nell’ambito del sociale e del welfare, di solito considerato intangibile perché circondato da un’aura “morale” volta a perpetuarne le performances in eterno (spesso senza una vera ricognizione sugli effetti generati, sui bisogni realmente soddisfatti). Ecco, dobbiamo partire da lì per recuperare i soldi: percorso difficile per politici di professione, normalmente a libro paga; meno per cittadini-amministratori.
2. Il patto di stabilità sembra un nodo scorsoio avvolto al collo degli enti locali per favorire la privatizzazione dei servizi e la dismissione del patrimonio pubblico: dalla sua esperienza di sindaco pensa che andrebbe radicalmente cambiato? E, se sì, in quale direzione?
Il patto di stabilità è un vincolo uniforme eccessivamente rigido, costruito così perché – purtroppo – la nostra classe dirigente, a livello locale e nazionale, non sa usare della libertà di manovra e di decisione (che pure sarebbe necessaria), e ne abuserebbe. Il rigore del Mef, che discende direttamente da Bruxelles, è il frutto di una sfiducia nei nostri riguardi da parte delle istituzioni europee, ampiamente meritata nel corso dei decenni. Partendo dall’idea che la spesa pubblica debba essere contenuta – un principio sacrosanto, valido qui come in Nuova Zelanda – a me piacerebbe un sistema che utilizzi indicatori sofisticati di “buona politica pubblica”, di tutela dei “beni comuni”, e a quelli colleghi maggiore capacità di manovra. Una maggiore efficienza recuperata sul fronte delle partecipate, ad esempio – e dimostrata non a parole, ma nei fatti – dovrebbe potersi tradurre in una maggiore duttilità nell’intervenire sul fronte del disagio, dei servizi alla persona, e così via. Oppure: si potrebbero elaborare graduatorie dei possibili investimenti, magari resi trasparenti dall’applicazione sistematica (anche in Italia!) di procedure partecipative come quelle del débat public transalpino, e, attraverso un sistema premiale, fare in modo che i più importanti e meglio congegnati possano avere un aiuto extra patto da una Cassa depositi e prestiti recuperata alla sua funzione originaria. Mi rendo conto che ciò comporterebbe un esame accurato non solo dei bilanci, ma anche delle scelte ivi contenute; e che, per il Mef, ragionare sui saldi è più facile. Ma così continueremo a tagliare ai cittadini senza toccare le sacche di privilegio, che succhieranno tranquillamente fino all’ultimo euro in cassa, nel generale depauperamento delle condizioni individuali e collettive.
3. Enti locali e finanza: dalla sua esperienza, come e dove è possibile per un ente locale trovare le risorse per adempiere al proprio ruolo di luogo di prossimità degli abitanti e di erogatore di servizi?
La mia esperienza è stata molto lineare. Avevo ereditato un debito molto significativo e avevo una macchina comunale abbastanza costosa: aggredire i centri dello spreco non è stato quindi impossibile. Abbiamo ridotto all’osso tutte le spese superflue o discrezionali. Abbiamo rivisto i contratti in scadenza; abbiamo cercato di rinegoziare con i gestori dei servizi pubblici condizioni migliori. Talora ci siamo riusciti, altre no. Abbiamo conservato le rete del gas in mano pubblica, e ciò ha generato utili importanti per il bilancio. Abbiamo chiuso partecipate che non rispondevano alle finalità dirette dell’ente locale: penso alla società pubblica che gestiva l’aeroporto di Forlì, le cui perdite incidevano pesantemente sui bilanci municipali (in certi anni anche per il 5% della spesa corrente). Ritengo che, lasciando maggiore libertà d’azione ai comuni, e nello stesso tempo monitorandoli con attenzione (per evitare che siano attratti da ipotesi eccessivamente “creative”), si possano ancora ottenere risparmi significativi, senza toccare la qualità dei servizi. Ma ci vuole un progetto trasparente da parte degli amministratori. E tanto coraggio, perché le forze contrarie sono infinite, a partire dai portatori d’interesse che considerano la macchina municipale una mucca da mungere. E poi c’è il grande problema della qualità del personale dirigente. Sappiamo che una parte considerevole di questi dirigenti sono politici a tempo indeterminato senza una vera professionalità, messi lì in altri periodi della storia (come uova del serpente) per controllare e indirizzare nel tempo – con continuità e con gradualità – scelte e appalti. Capirne il profilo non è semplice, soprattutto se la “terra di mezzo” in cui operano è sottratta alla pubblicità e protetta da normative generali e da regolamenti appositamente studiati per stendere una cortina fumogena intorno al processo decisionale: e però una amministrazione degna di questo nome deve cercare di far emergere, come può e quando può, la rete collusiva che strangola le nostre finanze ovunque. E che è fonte non solo di sprechi, ma troppo spesso anche di malaffare. Si tratta, insomma, non solo di amministrare, ma anche di fare gli investigatori, di cercare la polvere sotto il tappeto. Se ne trova sempre, credetemi.
Tratto dal Granello di sabbia di gennaio/febbraio 2015 “Enti locali: cronaca di una morte annunciata”, scaricabile qui