I CONTI SOCIALI NON TORNANO

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di: Marco Bersani

“Il debito inizierà a scendere perché la nostra politica di bilancio è virtuosa” ha dichiarato il ministro Padoan alla presentazione del rapporto Ocse sull’Italia. Un’affermazione decisamente coraggiosa da parte dell’inossidabile ministro, soprattutto se teniamo conto dei numeri prodotti da quando occupa il dicastero dell’Economia: durante i governi Renzi e Gentiloni, infatti, il debito è aumentato di oltre 176 miliardi, mentre sono scesi al minimo storico gli investimenti pubblici.

Cosa ci sia di virtuoso in questo percorso resta materia oscura, ma, di fronte al fondamentalismo dell’Unione Europea, che ha di nuovo segnalato il rischio di tenuta dei conti pubblici, imponendo di fatto una manovra aggiuntiva al governo che uscirà dalle urne di primavera, anche Padoan cerca di ricavarsi la sua piccola parte nel copione della farsa neoliberale.  

Già, perché in questo balletto di cifre sul deficit strutturale -dovremmo garantirne la riduzione del 0,6%, la “flessibile” Ue ci ha concesso lo 0,3% e i soliti furbetti italiani propongono lo 0,1%- ciò che in realtà continuano a non tornare sono i conti sociali, ovvero le conseguenze concrete nelle vite delle persone di una democrazia appaltata agli algoritmi monetari.

L’ultima ricerca del Centro Studi di Unimpresa dice che, tra il 2015 e il 2016, altre 105mila persone sono entrate nel bacino dei deboli in Italia, portando la popolazione a rischio povertà alla enorme cifra di 9 milioni e 347mila persone. Alla tradizionale platea dei disoccupati, si sono nel tempo unite ampie fasce di lavoratori che, pur avendo un impiego, lo svolgono nella più totale precarietà di reddito e di diritti (6,27 milioni, secondo Unimpresa).

Un’Italia povera che si estende a macchia d’olio e lentamente sega il ramo sul quale il Paese è seduto, se è vero -come scrive l’Istat nel rapporto 2017- che sono i più giovani ad essere i più poveri: dal 2012 ad oggi, sul totale delle famiglie in povertà assoluta, sono il 3,9% quelle con persona di riferimento over 64 anni, mentre arrivano al 10,4% quelle con persona di riferimento sotto i 35 anni. 

Ma l’austerità liberista, non contenta dei rami, ha preso di mira anche le radici: sono 3,5 milioni i bambini che vivono in povertà in Italia, con drammatiche conseguenze a livello di abbandono scolastico, esclusione sociale, alimentazione, attività fisica e salute (Atlante dell’infanzia a rischio 2016 di Save the Children). E’ d’altronde il normale risultato di investimenti per l’infanzia che vedono l’Italia al terz’ultimo posto in Europa, con una quota di spesa sociale per infanzia e famiglie pari al 4,1%, contro l’8,5% della media europea, e con fondi per fronteggiare l’esclusione sociale pari allo 0,7%, contro l’1,9% della media europea.

Si vive male dal punto di vista sociale, ma anche a perenne rischio ambientale. E’ l’ultimo rapporto di Legambiente e ricordarci che 7,5 milioni di persone vivono o lavorano in aree a forte rischio idrogeologico, con danni che, solo nell’ultimo triennio, ammontano a 7,6 miliardi.

Se a tutto questo aggiungiamo il fatto che oltre un terzo degli italiani ha rinunciato -in tutto o in parte- a curarsi e che l’abbandono scolastico è fra i più alti in Europa, il quadro è più che definito: la cosiddetta stabilità finanziaria -peraltro mai realmente perseguita- serve a produrre la destabilizzazione sociale, così come la trappola del debito ha l’unico scopo di proseguire le politiche di espropriazione sociale di diritti, beni comuni e democrazia.

Un enorme castello di carta tenuto in piedi solo dalla nostra paura e rassegnazione. “Così quando il sole muore fiore perdi il tuo colore, le qualità che ti hanno reso vero, ma chi lo dice che il fiore è nero” cantavano i Nomadi e forse dovremmo tornare a farlo anche noi.

Pubblicato su Il Manifesto del 25.11.17

 

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