di Pino Cosentino
La forte manifestazione del popolo della Val di Susa a Torino il 21 febbraio scorso, con migliaia di partecipanti e 21 sindaci, offre l’occasione di riesaminare il principio dell’autodeterminazione dei popoli, che è l’ovvio presupposto della democrazia partecipativa.
La Val di Susa si può ritenere un esempio, riuscito e realizzato, di democrazia partecipativa. Forse l’unico in Italia. Un popolo attivo, consapevole, in grado di usare le istituzioni elettive, invece di esserne usato.
C’era il progetto di nuova ferrovia che dovrebbe percorrere la valle. Un nucleo di cittadini lo ha studiato, ha capito che il progetto è dannoso per la valle (e per l’Italia), ha diffuso le informazioni, ha suscitato discussioni e confronti, ha sfidato la macchina di menzogne che gli interessi coinvolti riescono sempre a mettere su in questi casi. Si è creata una vasta consapevolezza, diffusa in ampi strati della popolazione, finché il no all’opera è divenuto largamente maggioritario e ha conquistato anche il livello istituzionale, le amministrazioni locali. Tutto bene dunque? Non proprio. Come è noto, questo ha portato all’occupazione militare della valle, con lo Stato italiano equiparato a un invasore.
La Val di Susa fa parte della Repubblica italiana, ma non ha nessun ente esponenziale che la rappresenti complessivamente a livello politico-amministrativo. Essa, come direbbe Metternich, è solo un’espressione geografica. Ben tre livelli politici le sono sovra-ordinati: provincia (di Torino), regione (Piemonte) e Stato. Con la recente riforma, che istituisce le città metropolitane, entrerà a far parte della Città Metropolitana di Torino.
Politicamente la Val di Susa non esiste, nell’ordinamento di cui formalmente fa parte. In quanto popolo che si esprime politicamente nelle forme della democrazia partecipativa essa ha invece un’esistenza concreta e vitale. Nelle entità che a diverso titolo la comprendono, vige lo Stato liberal-democratico, la sedicente (“sé-dicente“, cioè che se lo dice da sé) democrazia rappresentativa. Due “democrazie”, dunque, ma di natura così diversa nelle manifestazioni visibili e negli effetti, da sembrare una l’opposto dell’altra.
Alcuni dati su cui appuntare la riflessione: la manifestazione, a differenza delle altre volte, si è svolta a Torino, in “territorio nemico”; la ragione: protestare contro gli arresti del gennaio scorso; alla fine di quel mese si è anche aperto il dibattimento, voluto dalla Procura di Torino, contro Erri De Luca, imputato di istigazione a delinquere. Erri De Luca è stato incriminato per aver detto che nel caso della Val di Susa il sabotaggio è giusto. Affermazione assolutamente vera e fondata sulla fonte di legittimità suprema, che è la sovranità popolare e l’autodeterminazione dei popoli.
Se la Procura di Torino avesse ragione, saremmo di fronte a due “ragioni” opposte e contrarie.
La Val di Susa vive nella democrazia partecipativa, ma è incastrata in un organismo retto a democrazia rappresentativa. E’ stupefacente come molte persone, anche militanti in movimenti “alternativi” e (sedicenti) “partecipazioniste”, insistano nel ritenere pienamente legittimo questo sistema politico, al punto da presentarsi al giudizio degli elettori con una sfilza di punti programmatici, ma senza inserire in cima a tutto, come punto numero 1, presupposto e fondamento di tutto il resto: rovesciare questo sistema politico palesemente illegittimo perché in contrasto con i principi di sovranità popolare e di autodeterminazione dei popoli.
La Val di Susa mostra nella forma più dispiegata la contraddizione tra la legislazione presente e quella futura, tra la legislazione statuale, proprietaria, ancora fondata sulla totale ed esclusiva legittimità della rappresentanza, legislazione che ha le sue radici storiche nelle rivoluzioni inglesi del Seicento e nel codice civile napoleonico, da un lato; e una nuova legislazione, una nuova legittimità, la cui fondazione sta avvenendo sotto i nostri occhi, con le lotte delle popolazioni insediate nei territori ad affermare il proprio diritto all’autodeterminazione, come gli antichi Comuni, sorti in diversi casi come associazioni private ed evolutesi come un potere pubblico indipendente da ogni altro potere, embrioni di Stati moderni.
Nel caso della Val di Susa emerge con chiarezza il legame tra democrazia partecipativa, autodeterminazione dei popoli, territorio. Elementi, tranne il primo, consustanziali con la nozione di Stato.
Potrebbe perciò sembrare, quella tra organismo politico retto a democrazia partecipativa e attuale Stato liberal-democratico, una differenza da poco. Invece la sostituzione del sistema sedicente “rappresentativo” (o meglio a delega “senza vincolo di mandato”) con un sistema di democrazia partecipativa cambia di segno a tutto l’insieme. E’ la fine dello Stato come si è manifestato negli ultimi 5000 (e forse più) anni, dai faraoni egizi e dai palazzi reali sumerici fino a oggi.
In questa prospettiva, la stessa democrazia “rappresentativa” appare una breve parentesi, un rapido passaggio tra lo Stato come potenza estranea e spesso nemica delle popolazioni che l’ hanno creato, e l’organizzazione necessaria a una comunità ampia, complessa, fornita di una tecnologia adeguata, per costituirsi e mantenersi tale.
La Val di Susa, se volesse “teatralizzare” ancora di più la sua battaglia, potrebbe proclamare la propria indipendenza (ovviamente solo simbolicamente). Ma in un certo senso non ce n’è bisogno. La sua indipendenza è un fatto compiuto, che si manifesta con la qualità delle lotte che sta conducendo e con le soggettività che là si stanno formando.
E’ qui, “in Italia”, che non c’è la percezione del significato e delle conseguenze a lungo termine di questa lotta. Credo che nel prosieguo i suoi contenuti profondi diverranno sempre più palesi e dirompenti. L’Italia dovrà fare i conti con una sua “colonia interna”, che non sono i francofoni della Val d’Aosta né i germanofoni dell’Alto Adige.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia “Fermate il mondo: voglio scendere!” di marzo/aprile 2015, scaricabile qui.