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di Andrea Baranes
Dieci anni fa la peggiore crisi finanziaria della storia recente raggiungeva il suo culmine, con il fallimento della Lehman Brothers. Una crisi esplosa negli USA ma che ha rapidamente contagiato l’intero pianeta, e l’Europa in particolare. Politici e istituzioni di tutto il mondo dichiararono all’unisono che le cose sarebbero cambiate, con un impegno a chiudere una volta per tutte il casinò finanziario.
Dieci anni dopo, a che punto siamo? Non solo le promesse sono state disattese, ma da diversi punti di vista la situazione è addirittura peggiorata. Riguardo nuove regole per il sistema finanziario, la montagna non ha partorito nemmeno il proverbiale topolino. Le attività speculative non sono state intaccate, i paradisi fiscali prosperano, la finanza si caratterizza sempre più per orizzonti di brevissimo termine e l’unico obiettivo di fare soldi dai soldi, in maniera sempre più staccata dall’economia e dalla società.
In Europa non si è riusciti ad approvare nemmeno le regole proposte dalle stesse istituzioni. Per fare un esempio, all’indomani della crisi l’UE domanda a un gruppo di esperti, guidati dal governatore della Banca Centrale finlandese Liikanen quali siano le principali riforme da intraprendere per evitare il ripetersi del recente disastro. Il rapporto mette al primo posto la separazione tra banche commerciali e di investimento, ma la stessa UE che aveva commissionato lo studio non da seguito alle conclusioni esposte. Lo stesso potrebbe dirsi per una tassa sulle transazioni finanziarie, malgrado il voto favorevole del Parlamento UE e la bozza di Direttiva pubblicata dalla Commissione europea, o in diversi altri casi.
La finanza è ripartita a pieno ritmo anche grazie alla montagna di liquidità immessa prima per salvare il sistema bancario internazionale e poi per fare ripartire l’economia, in particolare con il quantitative easing delle banche centrali. Oltre 11.000 miliardi di dollari da quelle di USA, Giappone ed Europa. Soldi che però sono rimasti in massima parte incastrati in circuiti puramente finanziari se non speculativi. Il risultato è un sempre maggiore scollamento dei valori finanziari, sospinti da questa liquidità, da un’economia che rimane al palo. La definizione stessa di una nuova bolla finanziaria. Più in generale, il combinato disposto di mancanza di regole da una parte ed eccesso di liquidità dall’altra sembra essere la ricetta perfetta per un nuovo disastro. Secondo diverse analisi, anche di istituzioni internazionali come l’Ocse o il Fmi, lo scoppio di una nuova crisi non sembra tanto questione di “se” ma di “quando”.
Rispetto al 2008 ci sono almeno due differenze sostanziali, tutt’altro che incoraggianti. La prima è l’aumento delle diseguaglianze in questi dieci anni. La seconda è che gli Stati e le finanze pubbliche portano ancora le cicatrici dei recenti disastri. Dato il contesto, è paradossale vedere come l’Europa non abbia in nessun modo rimesso in discussione i fallimentari dogmi economici applicati in questi anni. Una competitività esasperata e assunta a obiettivo a sé stante, e giocata sia verso i Paesi terzi sia all’interno della stessa Unione Europea. Un discorso che vale in particolare per il sistema finanziario, sia perché dovrebbe trainare l’economia in questa gara globale, sia perché le stesse banche europee devono competere con le loro omologhe del resto del mondo.
Ecco allora che le regole e le normative sono a taglia unica (“one size fits all”, nell’espressione inglese) e cucite sui gruppi di maggiore dimensione. Il risultato è sempre meno spazio per proposte bancarie fondate sulla prossimità con il territorio, i bisogni dei cittadini e comunque su approcci differenti, e la creazione di pochi gruppi di enorme dimensione, ovvero sempre più “too big to fail”.
Un esempio di queste regole a taglia unica e spesso lontane dalla realtà produttiva viene dal nostro Paese. A fronte di banche italiane con enormi problemi ed altrettanto enormi responsabilità per le scelte passate, le richieste in arrivo dall’UE non solo non rappresentano una soluzione ma rischiano concretamente di peggiorare le cose. Pensiamo in particolare alle sofferenze delle nostre banche, ovvero all’ammontare di crediti erogati che non rientrano. L’UE sta esercitando enormi pressioni perché le banche riducano tali sofferenze nei propri bilanci, in particolare rivendendole sottocosto ad attori specializzati sui mercati finanziari internazionali, tramite il meccanismo delle cartolarizzazioni.
Tra queste sofferenze ci sarà l’operazione spericolata o agli “amici degli amici”, ma c’è anche l’imprenditore in crisi di liquidità, l’artigiano in difficoltà, il mutuatario in ritardo di alcune rate per l’acquisto della propria casa. Nel momento in cui la banca è spinta a rivendere tali crediti al 20 o 30% del loro valore, a chi finiscono? Troppo spesso la risposta è a cosiddetti “fondi avvoltoio” e altri attori specializzati che eserciteranno ogni possibile pressione per rientrare dell’intero importo nel tempo più breve possibile.
Cercare di rimettere in sesto le banche potrebbe allora significare un impatto devastante sul tessuto produttivo del nostro Paese, per piccole imprese, famiglie e artigiani già indeboliti da anni di crisi e recessione. Non solo. Ma se chi compra sa che le banche italiane sono in difficoltà e ci sono pressioni dall’UE per accelerare la vendita, potrà tirare sul prezzo. Il rischio concreto è quindi di svendere tali crediti in difficoltà, con tutte le conseguenze appena esposte per il nostro sistema produttivo ma senza nemmeno rimettere in sesto quello bancario.
Uno dei molti possibili esempi da una parte di una finanza sempre più staccata dalla realtà, che arriva a danneggiare l’economia e la società di cui dovrebbe essere al servizio, e dall’altra di un sistema di regole che invece che arginare non fa che incentivare tale folle andamento. Serve un rapido quanto drastico cambio di rotta. In questo panorama a dire poco desolante, forse l’unico elemento di speranza è la crescente consapevolezza di fasce sempre più ampie della popolazione, che da un lato chiedono regole diverse per il sistema finanziario e dall’altro si interrogano sull’uso dei loro soldi e sul comportamento della propria banca o del proprio gestore finanziario. Un’Europa dei popoli che deve fare sentire la propria voce per un cambiamento dal basso non solo della stessa finanza, ma anche del percorso oggi intrapreso dalle istituzioni europee nel loro insieme.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 37 di Novembre – Dicembre 2018.