di Marco Schiaffino
Il tema dell’industria 4.0 si è guadagnato una certa attenzione anche in ambiti un po’ più evoluti dei soliti convegni confindustriali e qualcuno (finalmente) comincia a preoccuparsi di ragionare sul tipo di società che potrebbe delinearsi in seguito al boom delle nuove tecnologie.
I ragionamenti, però, sembrano fermarsi solo all’analisi dei possibili impatti occupazionali. Tema senza dubbio importante, ma che rappresenta solo una delle possibili conseguenze dell’impiego massiccio dell’automazione. Quale che sia la via di uscita dalla questione del calo occupazionale (riduzione del tempo di lavoro, introduzione di un reddito di cittadinanza incondizionato) restano aperte le domande riguardo altri possibili effetti collaterali.
Uno di questi riguarda come il mercato potrà adattarsi al nuovo scenario, in particolare per quanto riguarda le politiche a livello sociale. Se i governi continueranno a subordinare le loro scelte alla logica per cui l’unica priorità è quella di attrarre gli investimenti sul territorio, è molto probabile che assisteremo per esempio a un cambio di direzione (che si o si sta già delineando) nelle politiche neo-liberiste. Se negli ultimi 30 anni l’obiettivo è stato la flessibilizzazione del lavoro, ottenuta attraverso la precarizzazione delle vite di milioni di donne e uomini e lo smantellamento dei diritti dei lavoratori, con l’introduzione di un elevato livello di automazione è probabile che l’obiettivo cambi.
In uno scenario in cui il contributo del lavoro salariato incide sempre meno sui costi dell’impresa, la delocalizzazione verso paesi a basso costo di mano d’opera è destinata a rallentare. Spostare un’azienda nell’est Europa o in Asia avrà sempre meno senso ed è probabile che l’elemento più attrattivo diventerà, piuttosto che il costo del lavoro o la flessibilità (che è bene ricordare rispondere più a logiche di finanziarizzazione dell’economia produttiva piuttosto che a un mero calcolo costi/ricavi) l’aspetto fiscale. Un fenomeno in cui stiamo già assistendo nel campo della Web-Economy, con Amazon, Microsoft, Apple, Google e soci impegnati nella ricerca degli ecosistemi fiscali più favorevoli.
Il progresso dell’automazione rischia quindi di spingere la pratica del dumping fiscale a livelli nettamente superiori a quelli a cui oggi assistiamo, con il rischio di assistere a una progressiva accelerazione nella contrazione della spesa dedicata ai servizi pubblici in tutti quei paesi che continueranno a perseguire la logica dell’adeguamento agli interessi di mercato. Già negli ultimi anni, in Italia la riduzione delle spese sanitarie ha sostanzialmente sgretolato il concetto di universalità nell’accesso alle cure mediche, con il trasferimento dell’onere economico in capo alle persone.
Come risultato, gli ultimi dati parlano di 12 milioni di persone che non si curano in maniera appropriata perché “non possono permetterselo”. Lo stesso fenomeno interessa la previdenza, i servizi sociali, l’edilizia pubblica e tutti quegli strumenti di protezione delle cittadine e dei cittadini che dipendono per la loro esistenza dal sistema della fiscalità generale. In questo scenario, diventa urgente ragionare sulla necessità di affiancare all’innovazione tecnologica una forma di innovazione sociale, che partendo da un nuovo concetto di pubblico garantisca non solo quei diritti che la sbornia neo-liberista ha rottamato negli ultimi 30 anni, ma anche i nuovi diritti di cui abbiamo bisogno. Abbandonando per prima cosa l’idea di proteggere strumenti che non ci sono più e mettendo al servizio di tutte e tutti il nostro impegno per immaginare qualcosa di nuovo e diverso.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 33 di Marzo – Aprile 2018: “Fuori dal mercato“