di Nino Lisi
LA RIFORMA COSTITUZIONALE. VALUTAZIONI
1. L’ASSETTO ISTITUZIONALE
PREMESSA. A differenza dei precedenti contributi del tutto asettici, questa illustrazione dell’architettura istituzionale contiene – e non potrebbe essere altrimenti – anche valutazioni di merito. Per questo motivo ritengo corretto esplicitare le “premesse di valore” che, come in qualsiasi valutazione, sono chiamate in gioco nella mia. In tal modo chi legge può apprezzare se il suo punto di vista coincide con il mio o se ne differenzia e di quanto.
Il punto di vista dal quale ho valutato quanto è emerso dai documenti precedenti è il seguente:
La democrazia – “bene civile” prezioso – è in primo luogo rispetto dei diritti a partire da quelli dei soggetti più deboli e delle minoranze; è gestione dei conflitti senza violenza e senza sopraffazione; tende perciò a comporre punti di vista differenti e a conciliare interessi ancorché contrapposti; è valorizzazione delle differenze. Si basa sulla rappresentanza che non è una delega in bianco e che, specialmente in una società complessa, deve necessariamente essere supportata da forme di partecipazione diretta dei/delle cittadini/e. Si avvale di procedure e procedimenti adeguati. Le elezioni sono una di queste.
Il testo che segue si riferisce alla Parte 1 (I Dati di fatto)
IL PARLAMENTO
Il rapporto con l’Esecutivo
La Legge di riforma affida le funzioni di indirizzo politico e di controllo dell’Esecutivo alla Camera dei Deputati che può esercitarle potendo dare e revocare la fiducia. Il Senato ha potere di valutare le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni nonché di verificare l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. A parte la necessità di dare concretezza a questi due termini, è evidente che il Senato non ha comunque strumenti per influenzare l’Esecutivo non potendo né dare né togliere la fiducia.. La stabilità del Governo poggia dunque solo sulla Camera dei deputati e quindi sulla maggioranza che lo ha espresso. Più consistente è tale maggioranza e più forte è il legame dell’Esecutivo con la sua la maggioranza, più l’azione di governo può fare a meno di un rapporto costruttivo con le altre componenti della Camera dei deputati, cioè con le opposizioni. Viene pertanto sminuito il suo ruolo come luogo dove si prova a comporre, attraverso la dialettica tra le parti, vedute differenti, a conciliare interessi legittimi ma contrastanti e dove, evitando che ci sia qualcuno che lo faccia anche per conto degli gli altri, si cerca di identificare di volta in volta, con il concorso di tutte le parti, il “Bene Comune” che il Governo è chiamato a perseguire. Il venir meno di questo ruolo essenziale del Parlamento per la caduta della necessità per il Governo di prendere seriamente in considerazione il punto di vista delle opposizioni e degli interessi che rappresentano scalfisce il tasso di democraticità del sistema.
Verosimilmente è per la consapevolezza di tale conseguenza che la Legge di riforma prevede che “ i regolamenti delle Camere garantiscono i diritti delle minoranze” e che “il regolamento della Camera dei deputati disciplina lo statuto delle opposizioni”. Ma ciò non mi pare costituisca un contrappeso efficace, perché “regolamenti” e “statuto delle opposizioni” saranno approvati a maggioranza e senza alcuna salvaguardia da quella stessa assemblea al cui squilibrio di forze tra maggioranza e minoranze si vorrebbe porre riparo.
Alle minoranze non resterà che una funzione di controllo, ovviamente formale più che sostanziale e non potrà più contribuire, nel rispetto dei ruoli, alla formazione delle grandi linee delle politiche dello Stato, come in passato è invece avvenuto anche quando avevamo un sistema di “democrazia bloccata” a causa della convenzione ad escludendum che teneva lontano dalle stanze del potere la più forte opposizione che vi fosse in Parlamento e nel Paese.
E’ vero che la Legge di riforma non dà maggiori poteri al Presidente del Consiglio, ma per rafforzare l’Esecutivo non è indispensabile. E’ sufficiente ridurre i contrappesi, ciò che, come si è visto, fa appunto la proposta di riforma.
Il nuovo Senato
Così come è delineato, il Senato è lungi dall’essere la Camera di rappresentanza dei territori, come viene enunciato. E’ un organo di ben altra e non ben definibile natura, con competenze che esorbitano ampiamente dall’ambito della rappresentanza territoriale compresa quella di poter interferire sulla funzione legislativa svolta dalla Camera dei Deputati, e non soltanto su materie che riguardino i territori. Si dà dunque un intreccio di competenze tra le due Camere, in presenza del quale è per lo meno azzardato sostenere che i procedimenti di produzione legislativa sarebbero in ogni caso più snelli ed i tempi più brevi di quanto lo siano ora. In realtà si sostituisce il bicameralismo paritario con un bicameralismo imperfetto che non solo non semplifica l’iter legislativo ma fa addirittura insorgere la possibilità di conflitti di competenza tra le due Camere, tant’è che il legislatore ha ritenuto necessario inserire nella Costituzione un articolo che prevede che siano i Presidenti delle due Camere a trovare una intesa conciliatrice nel caso di conflitti di competenza. Ovviamente in caso di mancata conciliazione resterebbe il ricorso alla Corte Costituzionale, ma è facile immaginare quanto sarebbe grave un conflitto di competenza interno al Parlamento.
C’è poi un problema per la durata, perché, mentre per la Camera dei Deputati la si indica in 5 anni, non ho trovato, a meno di una svista (controllabile sul quadro sinottico spedito tra il 16 ed il 29 settembre), un’indicazione riguardante l’intera assemblea ma solo la durata in carica dei/delle suoi/sue componenti; durata che avendo inizi e scadenze diverse rendono fluido, cioè frequentemente variabile la composizione dell’aassemblea. Neppure mi è chiara la sorte del Senato in caso di scioglimento anticipato della Camera dei Deputati, perché nella legge di riforma mentre è detto che il Presidente della Repubblica può disporlo, non ho visto analoga norma per il Senato.
La configurazione del Senato delineata dalla legge di riforma è talmente ambigua, contraddittoria e lacunosa, che mi sembra improbabile che corrisponda ad un disegno appositamente studiato e ponderatamente voluto. Mi sembra piuttosto verosimile che essa sia il prodotto dei prezzi pagati per raccogliere i voti necessari all’approvazione di un testo in tempi rapidi e ad ogni costo, anche a quello dello snaturamento del disegno originario.
Qualunque ne sia l’origine, è comunque inaccettabile il vulnus che un organo costituzionale dalla natura tanto ibrida porterebbe all’architettura istituzionale, al suo funzionamento e, in ultima istanza, alla democraticità del sistema.
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E LA CORTE COSTITUZIONALE
L’aumento del quorum dal quarto al sesto scrutinio previsto dalla Legge di riforma costituirebbe una salvaguardia per il caso di un’eventuale strapotere della maggioranza; ma tale salvaguardia verrebbe meno a partire dal settimo scrutinio, passandosi dal calcolo del quorum sul numero dei componenti l’assemblea a quello sul numero dei presenti. In tal modo non solo si ridurrebbe il numero dei voti necessari alla elezione, ma si priverebbero le opposizioni della possibilità di non presentarsi in aula al fine di costringere una maggioranza riottosa alla trattativa e a trovare un punto di accorco. Si aprirebbe così la possibilità per una maggioranza consistente di eleggere da sola la massima carica dello Stato. Ciò avrebbe una ricaduta anche sulla composizione della Corte Costituzionale, perché dei suoi 15 membri 5 sarebbero nominati dal Presidente della Repubblica e 3 dalla Camera dei Deputati. Si darebbe il caso dunque che la maggioranza dei membri della Consulta proverrebbero dall’area di riferimento della stessa maggioranza da cui proverrebbero il Presidente del Consiglio ed il Presidente della Repubblica, nonché la seconda carica dello Stato. E’ infatti tutt’altro che improbabile che espressione della medesima maggioranza sarebbe anche il/la Presidente della Camera che, con l’assetto proposto dalla Legge di riforma, diverrebbe la seconda carica dello Stato, supplendo il Presidente della Repubblica in caso di assenza o impedimento.
LE REGIONI
E’ indubbio che l’inconveniente della frequente conflittualità tra Stato e Regioni nelle materie di competenza concorrente vada sanato. La Legge di riforma, per farlo, propone di attribuire in esclusiva allo Stato le materie nelle quali si potrebbero generare contese concentrando così poteri nello Stato centrale e riducendone alle Regioni. A ridurre ulteriormente la potestà legislativa delle Regioni interviene il comma 4 dell’art.117 della Costituzione che, come proposto dalla Legge di riforma, reciterebbe: “Su proposta del Governo la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. Si darebbe così all’Esecutivo un potere assoluto nel decidere cosa siano l’unità giuridica ed economica del paese e l’interesse nazionale e conseguentemente nell’ intervenire in materie che dovrebbero essere di competenza esclusiva delle Regioni. In più (benché non ve ne fosse bisogno poiché nemmeno per gli altri casi vi è l’obbligo per la Camera dei Deputati di accogliere le modifiche che il Senato può proporre sulle leggi, ma solo quello di pronunciarsi su di esse) è stabilito che in questi casi “la Camera dei deputati può non conformarsi alle modifiche proposte dal Senato della Repubblica”. E’ da supporre che si è sottolineato ad abundantiam che l’invasione di campo è senza appello,non tanto per porre bene al riparo l’autonomia dell’Esecutivo, ciò che sarebbe superfluo, ma per porla bene in luce.
L’INIZIATIVA LEGISLATIVA DEL CORPO ELETTORALE
La Legge di riforma propone che i Regolamenti delle Camere stabiliscano: (a) tempi e modalità con le quail devono essere delibate le proposte di legge di iniziativa popolare, (b) che un’apposita legge stabilisca le condizioni e gli effetti dei referendum popolari propositivi e d’indirizzo, in modo da evitare lo sconcio che il Parlamento ignori le prime e legiferi in difformità con i risultati dei referendum, come sinora è avvenuto , ad esempio per quello sull’acqua . Nel contempo però porta da cinquantamila a centocinquanta mila le firme occorrenti per la presentazione di proposte di legge e da cinquecentomila a ottocentomila quelle necessarie perché la validità dei referendum non sia legata alla partecipazione al voto della maggioranza degli aventi diritto ma alla maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati.
Si propone cioè da una parte di garantire efficacia alle iniziarive legislative del corpo elettorale ma dall’altra se ne rende ben più difficile l’esercizio effettivo .
CONCLUSIONI
L’analisi degli aspetti essenziali della proposta di riforma pone in luce che questa prevede:
- di aumentare i poteri dello Stato centrale a scapito delle Regioni,
- un’abnorme concentrazione di poteri a beneficio di una maggioranza consistente che si formasse in seno alla Camera dei deputati,
- ad un ampliamento dei margini di autonomia dell’Esecutivo per la sminuizione del ruolo della Camera dei deputati,
- un bicameralismo imperfetto che non semplificherebbe l’iter legislativo e crea i presupposti per l’insorgere di conflitti di competenza in seno al Parlamento ,
- l’appesantimento delle condizioni per l’esercizio da parte del corpo elettorale della funzione di iniziativa legislativa.
A me sembra che queste considerazioni, fondate unicamente su dati di fatto che riguardano esclusivamente il merito delle proposte di riforma, motivino solidamente il rifiuto della riforma proposta. Il NO è motivato non perché si vogliano lasciare le cose come stanno, ma perché non si vogliono cambiarle in peggio.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 26 di Novembre-Dicembre 2016 “Voglio cambiare davvero, quindi voto NO!“