Riprendiamoci il nostro mondo

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di Salvatore Cannavò, Vicedirettore di Liberazione-Direttore della rivista Erre

il Manifesto, 31 agosto 2004

Le elezioni europee, e il manifesto, hanno avuto il merito di rilanciare il dibattito e la riflessione sulla “sinistra radicale” o di alternativa. E’ un fatto positivo che però, proprio perché motivato da un dato elettorale, nasconde un serio rischio. La molla che spinge molti esponenti della sinistra antiliberista a cimentarsi con il nodo in questione, infatti, sembra essere solo quella dell’accordo di governo a cui arrivare con un fronte “alternativo” più forte, coeso e omogeneo possibile. Intento nobile, certamente, ma piuttosto politicista e, soprattutto, asimettrico rispetto a quanto avvenuto negli ultimi anni. La sinistra di alternativa, infatti, ha un senso se coglie la domanda di spazio politico antiliberista e antiguerra che da Seattle, passando per Porto Alegre e Genova, Firenze e Mumbai, ha permesso di ricostruire una critica alla forma attuale del capitalismo, il liberismo, e al suo prolungamento imperiale, la guerra. I movimenti degli ultimi anni non hanno probabilmente ancora assunto un carattere anticapitalista (e tra l’altro sarebbe venuto il tempo di interrogarsi su molti limiti, ad esempio la capacità di delineare obiettivi concreti o di darsi una rappersentanza democratica), ma il loro indubbio merito sta proprio nell’aver alluso a quello spazio, nell’aver messo, inconsapevolmente, il dito sulla piaga delle sconfitte del Novecento e di aver ricreato condizioni favorevoli per uscire a positivo da quella sacca. In questo senso gran parte del lavoro da fare è di “ricostruzione”, di “rifondazione della politica”. Il senso prioritario di un processo di ricomposizione e di riagglutinazione di forze politiche e sociali, quale dovrebbe essere la sinistra alternativa che immaginiamo, sta proprio nella rottura del corto circuito che si è venuto a creare tra politica e società, tra movimenti e soggettività partitiche. Si tratta insomma di ricreare una relazione, delle connessioni, delle sperimentazioni che puntino a creare una nuova soggettività politica critica che faccia tesoro di errori e sconfitte (stalinismo e socialdemocrazia, per intenderci) senza però annullare l’acquisizione fondamentale dell’autonomia delle forze sociali che si organizzano e che costruiscono le condizioni per un’altra società possibile. Per questo un simile progetto dovrebbe individuare nel conflitto sociale il proprio processo costituente, a partire dal prossimo autunno: la costruzione di un ampio fronte politico-sociale che assuma il compito della cacciata di Berlusconi è premessa di qualsiasi accordo di programma o di convenzione programmatica. E’ un’esigenza inderogabile che non può essere lasciata solo alla Cgil e alle sue mediazioni con Cisl e Uil (e al rinnovato rapporto con Confindustria). Quest’iniziativa andrebbe costruita subito, individuando una piattaforma sociale essenziale (salario, precarietà, stato sociale, scuola, migranti, diritti, pace) che punti alla crisi del governo: lo sciopero generale ne costituirebbe, ovviamente, uno strumento prezioso. Altrimenti, parlare di Melfi rischia di cadere nella retorica.

Insomma, si tratta di prenderla dal lato della ricostruzione della soggettività anticapitalistica che certamente oggi si pone in relazione al governo delle destre e alla necessità di disegnarne un’alternativa.

Il programma quindi non può che essere l’elemento essenziale e integrante di questo progetto. Non si ricostruisce una nuova soggettività critica senza un’idea di programma, cioè di società alternativa. Anche in questo caso, però, la preoccupazione programmatica deve prescindere dalla questione dell’accordo di governo: insomma viene prima, è una condizione in sé. E’ ovvio che il nodo di come dare efficacia alla sconfitta di Berlusconi e di come si lavora per un’alternativa al liberismo si pone e richiede una risposta. Ma anche qui, solo se si possiede un progetto forte si può lavorare per costruire un’alternativa. La crisi del capitalismo, italiano e internazionale, oggi richiede una progettualità politica e una capacità di risposta a tutto campo che prescinde dalle formule politiche, dai giochi sulle primarie, dalle manovre di palazzo, dai vertici e dal leaderismo in generale: si tratta di un bisogno e di una prospettiva che non vivono in virtà della relazione con la sinistra moderata. Da questo punto di vista un’idea centrale è necessaria e può essere mutuata da uno degli slogan, a mio avviso tra i più efficaci, del movimento: riappropriamoci del nostro mondo. E’ un modo diretto e semplice di riproporre la questione della proprietà – intellettuale, dei mezzi di produzione: quindi delle forme della cooperazione sociale – che rimane il punto nevralgico della critica al capitalismo e l’unica possibilità reale di fondare una trasformazione radicale, essenza di una sinistra alternativa. Riappropriazione che ha il vantaggio di porre in termini diretti la questione del controllo democratico e sociale delle risorse; permette di uscire dalle secche di una discussione su “statalismo” e “nazionalizzazione e di porre l’altro nodo riproposto con forza dal movimento: la democrazia e quindi chi, come, quando, dove decide sui destini dell’umanità e, più prosaicamente, sul proprio futuro.

A partire dal concetto di riappropriazione sociale possiamo immaginare uno sviluppo del programma attorno alle urgenze più immediate. Per esemplificare ne indichiamo tre, ma il discorso può essere facilmente dilatato: riapppropriazione delle risorse produttive, energetiche e naturali da realizzarsi transitoriamente con un rilancio del controllo pubblico su alcuni gangli produttivi e di rete; riappropriazione del tempo e delle forme di lavoro a partire dal superamento della precarizzazione e attraverso il controllo democratico da parte dei lavoratori e lavoratrici sulla contrattazione e sulla vita lavorativa (compresa la pensione); riappropriazione del futuro con la messa a bando della guerra (Onu o non Onu, sia chiaro) a partire dall’assottigliamento delle spese militari, dalla “bonifica” militare del territorio e dal rigetto di qualsiasi ipotesi di esercito europeo.

L’individuazione del contesto generale, del senso profondo di un’ipotesi di alternativa – che, ripeto, oggi deve rispondere alla crisi profonda del capitalismo – serve anche a chiarire quale programma minimo sia accettabile ai fini di un accordo politico con i “riformisti”. Non andrebbe bene un programma di compromesso puro e semplice perché, data l’adesione, spesso acritica, della sinistra moderata ai dogmi del capitalismo (mercato, produttività, guerra ecc.) si tratterebbe di un compromesso tra due parti irriducibili. E non basterebbe il collante dell’antiberlusconismo a mutarne il segno. Quello che è accettabile è un programma con obiettivi transitori che rendano credibile l’avvio di quel processo di riappropriazione, essenziale al futuro della sinistra e alla fuoriuscita dal capitalismo. I sei punti proposti dalla Fiom, ad esempio vanno in questa direzione. Altrimenti, meglio pensare a soluzioni tecnico-elettorali capaci di battere Berlusconi ma senza mescolare tra loro ingredienti non mescolabili e il cui intruglio avrebbe solo l’effetto di depotenziare le ambizioni della sinistra di alternativa e di rendere più distante, e dolorosa, la distanza dai movimenti sociali. Qualcosa che abbiamo già visto e che non vorremmo dover ripetere.

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