di Marco Bersani
Vivere dentro una città le cui coordinate istituzionali, politiche e sociali sono state rese evidenti dall’inchiesta “Mafia Capitale” non è semplice.
Una città in cui il faro-guida delle scelte politiche ed economiche non sono i bisogni sociali e ambientali degli abitanti, ma i profitti delle potenti lobby immobiliari e finanziarie, che da decenni dominano il territorio.
Una città in cui ai vincoli di bilancio e ai diktat monetaristi del patto di stabilità si sacrifica tutto, chiamando “Salva Roma” un decreto che condanna ad una vita senza dignità ampie fasce di popolazione.
Una città in cui la politica ha ceduto il passo al management e gli amministratori locali hanno per anni fatto a gara ad essere tra i primi e migliori interpreti di questo orientamento, cercando la propria legittimazione non nel consenso delle persone, ma nell’autorizzazione a procedere dettata dai poteri forti.
Una città che ora è in mano direttamente a commissari e prefetti, che agiscono d’autorità, innestando il pilota automatico delle politiche liberiste, senza bisogno di alcun consenso, per quanto formale.
Un modello reso evidente dalla distorsione nell’utilizzo del termine legalità.
Concetto sconosciuto per tutto quello che sta sopra al “mondo di mezzo”, fatto di appalti truccati per i lavori della metropolitana, di finanziamenti alle lobby politiche attraverso la falsificazione dei biglietti di trasporto, di assunzioni clientelari negli appalti relativi ai servizi sociali, di utilizzo del territorio per la valorizzazione finanziaria dettata dalle grandi opere e dai grandi eventi.
Concetto utilizzato come vera e propria clava contro il mondo che dal basso si riorganizza, occupando spazi per restituire servizi ai quartieri, dando un tetto a chi non riesce a farsi riconoscere il diritto alla casa, riallacciando l’acqua a chi, non potendola più pagare, ne viene privato.
C’è un solco sempre più profondo tra legalità e giustizia sociale e non è per caso che questo solco viene approfondito, ma per lucido esercizio di potere a tutela degli interessi economici e speculativi, contro ogni esperienza di equa trasgressione dei codici di legge.
Roma non è, malgrado tutto, una città “normalizzata”.
Casa, scuola, beni comuni e molto altro vedono momenti alti (e spesso aspri) di conflitto sociale.
Questi momenti di conflitto sono, a nostro avviso, l’argine fondamentale e l’unica vera leva di resistenza al disegno autoritario in atto.
Ma, per trasformare questi movimenti in un’ampia coalizione di lotta dal basso, occorre analizzare a fondo queste dinamiche, capire come gli interessi finanziari ne hanno pervaso l’orizzonte, come è mutata nel tempo la condizione lavorativa e sociale, come si sono trasformati i conflitti sociali, quali sono le difficoltà, ai tempi della parcellizzazione sociale e della solitudine competitiva, ad invertire la rotta per costruire un altro modello di città.
É questo l’incipit con cui Attac Roma ha avviato la sua seconda università popolare, dopo quella dello scorso anno che aveva posto al centro dell’attenzione la città vista attraverso il filtro della segregazione urbana, sociale e di genere.
L’obiettivo che ci poniamo, oltre ad una maggiore conoscenza del contesto, è quello di aprire una discussione importante tra le reti di movimento che dal basso resistono alle lobby economico-finanziarie, immobiliari e speculative, e alla costante sottrazione di democrazia, sino alla sua negazione nei fatti.
Sono reti e realtà che, oltre a resistere, provano a sperimentare, ancora in maniera frammentata, forme di alternativa concreta all’attuale modello di città, autorganizzando e autoproducendo nuovi spazi di diritti e socialità, lavoro socialmente utile e servizi, e che rivendicano la riappropriazione sociale della città nel suo insieme.
Crediamo e vogliamo proporre a tutte queste reti e realtà un salto di qualità dell’analisi e dell’azione, affinché si passi, dall’insieme delle tante singole rivendicazioni, ad un approccio sistemico che metta al centro la domanda: cosa significa riprendersi davvero la città? Ovvero, possiamo iniziare a ragionare collettivamente su un percorso culturale-sociale-politico con una prospettiva a lungo termine ma concreta?
É in questo senso che, secondo noi, occorre un salto di qualità da parte dei movimenti, un alzare l’asticella delle aspettative e delle azioni, sapendo praticare la lenta impazienza, ovvero l’impazienza di chi non sopporta quotidianamente lo stato di cose presente, accompagnata dalla consapevolezza del tempo necessario a produrre un cambiamento reale, radicale e di sostanza.
Abbiamo proposto il nome evocativo di “Progetto Roma 2021”, ovvero un percorso che si dia obiettivi di tempo ampi – cinque anni – ma che chieda da subito intenzionalità soggettiva e percorso collettivo di costruzione.
Un orizzonte che ci aiuti a camminare senza scorciatoie, monitorandone collettivamente le tappe, costruendo, dentro le resistenze agli attacchi ai diritti, le proposte che producano un’ampia mobilitazione sociale, sapendo comunicare nelle migliori forme un altro modello di città.
Da tutto questo sarà attraversata la nostra università popolare, che terminerà a marzo con un confronto aperto tra Attac Roma e le diverse reti di movimento attive in città (dalla Rete per il dritto alla città al Laboratorio per lo sciopero sociale, dai movimenti di lotta per la casa alle realtà degli spazi sociali autogestiti).
Sarà una prima importante occasione di verifica della capacità di produrre una nuova intelligenza collettiva e plurale. Vi guardiamo con fiducia.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 23 di Gennaio-Febbraio 2016 “Verso una Nuova Finanza Pubblica e Sociale: Comune per Comune, riprendiamo quel che ci appartiene!“.