Per una convergenza dei movimenti

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di Roberto Morea (Transform Italia)

Per molti anni l’opposizione alla globalizzazione del mercato e della finanza è stata un lavoro portato avanti soprattutto dai tanti Movimenti che si facevano carico di individuare le criticità, per non dire catastrofi, che quel modello di sviluppo e di economia produceva.

Quella opposizione partiva da un’analisi puntuale dei singoli aspetti, ma aveva anche la capacità di individuare i fili che tenevano insieme le tante crisi che attraversavano la vita del pianeta e dei suoi abitanti. Pensare globalmente e agire localmente è stato uno dei pilastri di quella stagione a esemplificare le connessioni che intercorrevano tra le singole questioni e le diverse aree del mondo.

Quella fase storica, dei primi anni di questo secolo, è stata segnata da una capacità di intrecciare le tante tematiche e di rendere di massa quella opposizione e insieme di generare una mobilitazione nell’opinione pubblica, fino a far pensare che, di fronte alla caduta del muro di Berlino e del mondo diviso in blocchi, proprio quella mobilitazione globale emergesse come la seconda potenza mondiale nel momento in cui sembrava che il predominio USA e della finanza non avesse più sfidanti.

Gli eventi hanno purtroppo smentito la capacità di quella potenza mondiale di contrapporsi alle scelte di guerre, che già dalla dissoluzione della Jugoslavia hanno accompagnato la fine dell’equilibrio del terrore della guerra fredda.

Per quella sconfitta e per l’incapacità di tenere legate insieme le singole questioni man mano gli spazi di convergenza, creati attraverso i Forum mondiali e quelli continentali, si sono esauriti, senza che altre forme di conflitto siano emerse a sostituire quelle forme di convergenza.

Per alcune di quelle Organizzazioni che ne facevano parte ha prevalso l’idea che la propria autonomia rendesse più chiara la specificità del tema particolare e, allo stesso tempo, che quel tema potesse essere letto come una leva con cui far emergere il conflitto e, attraverso questo, l’interesse generale. Questa tesi, che credo abbia anche una sua fondatezza, ha però indebolito la capacità di mettere insieme i pezzi e trasformato in una militanza settoriale quella che era stata in grado di raccogliere punti di vista e approcci diversi tra loro.

Oggi siamo di fronte a uno scenario totalmente differente. La nuova dottrina isolazionista del mondo occidentale spinge per una messa in discussione di quella globalizzazione a cui sembrava non esserci alternativa. La crisi economica del 2008, aperta con la bolla speculativa, ha accompagnato una ristrutturazione capitalista che ha attaccato con ancora maggiore aggressività gli interessi generali e collettivi, creando ancor più diseguaglianza, povertà e accelerando una crisi climatica a cui nessun governo sembra porre molta attenzione.

Le politiche del mercato globale sono accantonate per far posto a “prima i miei interessi”. Così la critica alla globalizzazione fatta per far estendere giustizia sociale e ambientale trova una alternativa nella difesa degli interessi particolari e senza che il dominio del mercato, anche se più ristretto, venga messo minimamente in discussione. Un’alternativa che ha la possibilità di crescere da un lato sul malcontento e il rancore, per una sempre più grave ingiustizia e una crescente povertà; dall’altro sullo sconforto e il senso di impotenza.

Su queste due diverse posizioni di rancore e di sconforto, prosperano la destra e l’estrema destra che riescono a essere contemporaneamente sistema e antisistema. Un’avanzata che però può esserci solo per un sempre più esteso esodo non solo dalle urne, ma dai conflitti e dalla partecipazione.

In questo scenario credo sia importante e necessario ricostruire una rete di attivisti che, a partire dall’esperienza degli scorsi anni, riprenda il filo delle possibili alternative, partendo dai caratteri universali che giustizia sociale e difesa dell’ambiente devono proporre. Ma soprattutto che questa rete sia rafforzata dalle esperienze di movimento che con le nuove leve si pongono e affrontano la questione della sopravvivenza della specie umana sul pianeta.

Qualora questo accadesse credo, però, che servirebbe un ulteriore passaggio, che anche i movimenti di inizio secolo non si sono posti: la questione del progetto politico.

Per decenni ci è stato detto e ripetuto quanto fosse importante separare la vita dei Movimenti dalla politica partitica; sentire e vivere il mondo della società civile come corpo a sé stante, senza contaminazioni con la questione della rappresentanza e del ruolo del potere. Un errore di valutazione, che anche le stesse forze politiche hanno fatto e continuano a fare. In competizione con la primazia del prima l’uno poi l’altro, è stato disperso anche per questo un patrimonio di mobilitazione. Patrimonio che poteva e deve poter continuare a essere la base per costruire non solo una piattaforma rivendicativa, ma anche una vera e propria alternativa di società.

Questo sembra ancor più necessario oggi a livello europeo per l’avanzata delle forze più regressive e di estrema destra che, mai come ora, prevalgono nei vari paesi. Ma anche di fronte a una opposizione farlocca che vorrebbe contrastare questa destra in nome delle regole del capitalismo globale e degli interessi dell’europeismo di mercato, a cui immolare ulteriori privatizzazioni e precarietà.

Il tutto mentre, come i due ladri di Pisa, si azzuffano e si insultano su questioni più che marginali, benché totalmente d’accordo su quelle essenziali. La Guerra prima di tutto.

L’invasione dei territori ucraini da parte della Federazione Russa ha contribuito a delimitare un chiaro passaggio epocale. C’è un prima e un dopo il 24 febbraio 2022. Certo quello che è successo è frutto di un intenso lavoro ai fianchi e di un abbaiare di cani, per dirla con le parole di Papa Francesco, ma è indubbio che quella data abbia segnato una linea di confine. Un confine per cui quello che non era possibile proporre all’indomani della pandemia, è diventato realizzabile in pochi giorni se non in poche ore: togliere soldi pubblici a sanità e servizi pubblici per destinarli a eserciti e armamenti. Così mentre per qualche mese, durante i giorni di isolamento imposto dal Covid, pensavamo che ne saremmo usciti migliori, oggi ci troviamo ingaggiati in una guerra che l’Occidente continua a perpetuare verso chi non si adegua al predominio imposto, fuori dai propri confini, con le armi della finanza se non quella delle armi, ma che internamente vuol dire leggi di guerra, lacrime e sangue per la moltitudine e incassi da record per pochi: banche e interessi privati ben definiti.

Il che fare resta la domanda di fondo. A me sembra che ancora oggi il tema della unità dei proletari resti un tema ineludibile in Europa e non solo.

Resta da capire chi sono i proletari di oggi, quali condizioni di vita e di lavoro abbiamo di fronte e, soprattutto, come coniugare la necessaria transizione ecologica con l’altrettanto necessaria giustizia sociale. Argomenti che, credo, siano tutti alla portata di un pensiero collettivo che ha saputo produrre analisi e proposte negli anni passati e che anche oggi attraversa le mobilitazioni sul clima e quelle che vedono i conflitti sul lavoro.

Partire dalle differenze per costruire un progetto politico coerente che ha come impegno il rifiuto della guerra e della militarizzazione delle coscienze, è il primo passo da fare. Riconoscere la necessità di dargli una forza capace di imporre il cambiamento voluto, il secondo.

Foto:  La Società della Cura

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 52 di Febbraio-Marzo 2024: “Europa: a che punto è la notte?

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