Internazionalismo, come affrontare la crisi globale, i conflitti e le guerre del XXI secolo? Un approfondimento necessario

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a cura di Marco Noris (Attac Italia)

L’intervista di Jaime Pastor, docente di scienze politiche e redattore di Viento Sur, a Pierre Rousset, coordinatore del sito Europe Solidaire Sans Frontières (ESSF) e militante della Quarta Internazionale, autore di opere e articoli sulla politica internazionale e in particolare sulla regione dell’Asia orientale, appare particolarmente importante se si vuole analizzare la situazione globale alla luce della complessità di questo primo quarto di XXI secolo. L’approccio, sotto tanti aspetti alternativo a quello spesso presentato da una buona parte della sinistra italiana, è fondamentale perché l’analisi si sviluppa ribaltando assiomi che ormai da anni vengono dati per scontati presentando, ad esempio, l’aggressione russa all’Ucraina come fosse avvenuta in un momento di debolezza e non di forza della NATO, oppure considerando il 2014 non come l’inizio di una guerra civile in Ucraina ma del vero inizio della guerra di occupazione da parte russa. Interessanti sono anche le analisi globali che coinvolgono il mondo orientale, del quale Rousset è un profondo conoscitore e il rapporto concreto e non astratto tra la necessità della pace, del diritto alla resistenza e alla solidarietà.

L’intervista è molto lunga: per il ‘’Granello’’ presentiamo solo un estratto rimandando a questa pagina del sito Refrattario e Controcorrente  per la lettura completa del testo.

Nella prima parte Pierre Rousset definisce le crisi ora in corso come un’unica crisi multiforme: una Policrisi, nella quale la crisi ambientale, quella pandemica, lo sconvolgimento geopolitico in corso non possono venire separati e, in particolare, in relazione allo scioglimento della calotta polare afferma:

“È intorno ai poli che l’impatto geopolitico del riscaldamento globale è più drammatico, soprattutto nell’Artico. Si sta aprendo una rotta marittima inter-oceanica verso nord e la prospettiva di sfruttare le ricchezze del sottosuolo. La competizione inter-imperialista in questa parte del mondo sta assumendo una nuova dimensione. Poiché la Cina non è un paese costiero nei mari artici, ha bisogno della Russia per operare lì. Sta facendo pagare a Mosca il prezzo della sua solidarietà sul fronte occidentale (Ucraina) assicurandole l’uso gratuito del porto di Vladivostok.”

Inoltre:

“Un altro aspetto chiave della crisi multidimensionale che stiamo affrontando ha ovviamente a che fare con la globalizzazione capitalistica e la finanziarizzazione. Questa ha portato alla formazione di un mercato mondiale più unificato che mai, per garantire la libera circolazione di merci, di investimenti e capitali speculativi (ma non di persone). Diversi fattori hanno interrotto questa felice (per i grandi proprietari) globalizzazione: la stagnazione del commercio, l’ascesa della finanza speculativa e del debito, la pandemia di Covid che ha rivelato i pericoli della divisione internazionale delle catene di produzione e il grado di dipendenza dell’Occidente dalla Cina, cosa che ha contribuito al rapido cambiamento delle relazioni tra Washington e Pechino (da un’intesa cordiale a uno scontro).

Sono state le grandi imprese occidentali a voler trasformare la Cina nell’officina del mondo, a garantire una produzione a basso costo anche per stroncare il movimento operaio nei loro paesi. Tutti erano convinti che l’ex Impero cinese sarebbe stato definitivamente subordinato, e forse è stato così. Se non è stato così, è perché una volta spezzata nel sangue la resistenza popolare (nel 1986), l’ala dirigente della burocrazia cinese è riuscita nella sua mutazione capitalistica, dando vita a una forma originale di capitalismo di stato.

Per concludere su questo punto, notiamo che:

  • La situazione geopolitica internazionale rimane dominata dal confronto tra l’imperialismo dominante (gli Stati Uniti) e l’imperialismo emergente (la Cina); nessun’altra potenza ha lo stesso peso delle due superpotenze.
  • Una caratteristica particolare di questo conflitto è l’altissimo grado di interdipendenza oggettiva. È vero che la crisi della globalizzazione neoliberista è evidente, ma la sua eredità è ancora presente. Non esiste una globalizzazione felice, ma nemmeno una de-globalizzazione (capitalista) felice. In un certo senso, anche in questo caso siamo entrati in un territorio inesplorato e senza precedenti.
  • Sebbene sia ancora la prima superpotenza, l’egemonia statunitense ha subito un relativo declino. Non può più controllare il mondo senza l’aiuto di alleati affidabili ed efficaci, che scarseggiano. Data l’entità della deindustrializzazione che il paese ha vissuto, si potrebbe dire che l’imperialismo classico non esiste più.
  • In questo settore, la Cina si trovava in una posizione molto migliore. Aveva ereditato una base industriale indigena dall’era maoista, una popolazione con un alto tasso di alfabetizzazione rispetto al Terzo Mondo e una classe operaia istruita. Essendo diventata l’officina del mondo, si è assicurata una nuova ondata di industrializzazione. Enormi risorse sono state investite nella produzione di tecnologie all’avanguardia. Detto questo, il regime cinese è oggi più opaco e segreto che mai. Sappiamo come la crisi politica e istituzionale stia colpendo l’imperialismo statunitense. È molto difficile sapere cosa sta succedendo in Cina. Tuttavia, l’ipercentralizzazione del potere sotto Xi Jinping, divenuto presidente a vita, sembra essere un fattore di crisi strutturale.
  • Il relativo declino degli Stati Uniti e l’ascesa incompleta della Cina hanno aperto uno spazio in cui le potenze secondarie possono giocare un ruolo significativo, almeno nella propria regione (Russia, Turchia, Brasile, Arabia Saudita, ecc.).”

Dopo aver analizzato la situazione globale e le sue traiettorie l’intervista entra sul tema della guerra in maniera più diretta. Vale la pena riportare interi stralci significativi dell’intervista.

J.P.: [In Ucraina] siamo di fronte a una guerra di liberazione nazionale che, sebbene sostenuta dalle potenze imperialiste, obbliga la sinistra occidentale a mostrare solidarietà con la resistenza del popolo ucraino contro l’invasione russa?

P.R.: Alcuni propongono di cedere questo o quel pezzo di Ucraina alla Russia, di organizzare referendum per convalidare la separazione dall’Ucraina, ecc.

Il modo più semplice per rispondere a questa domanda è rivedere la sequenza degli eventi. Un’invasione si prepara mobilitando ingenti risorse militari ai confini, il che richiede tempo ed è visibile. Questo è ciò che ha fatto Putin. All’epoca, la NATO, dopo l’avventura afghana, era in preda a una crisi politica e il grosso delle sue forze operative in Europa non era stato riassegnato a est. I servizi segreti statunitensi furono i primi ad avvertire della possibilità di un’invasione, ma l’allarme non fu preso sul serio né dagli Stati europei né dallo stesso Zelensky.

Molti di noi hanno analizzato gli eventi in termini puramente geopolitici (un errore che non si dovrebbe mai commettere), pensando che Putin stesse semplicemente esercitando una forte pressione sull’Unione Europea per fomentare il dissenso post-Afghanistan all’interno della NATO.

Se così fosse stato, l’invasione non avrebbe dovuto avere luogo perché avrebbe avuto l’effetto opposto: avrebbe dato alla NATO un nuovo significato e le avrebbe permesso di serrare i ranghi. Ed è esattamente quello che è successo. Inoltre, prima dell’invasione russa, la maggioranza della popolazione ucraina voleva vivere in un paese non allineato. Oggi, solo una piccolissima minoranza vede la propria sicurezza in qualcosa di diverso da una stretta alleanza con i paesi della NATO.

Ora sappiamo molto di più: l’invasione era stata preparata da anni. Faceva parte di un grande piano per ripristinare l’Impero russo all’interno dei confini dell’URSS stalinista, con Caterina II come punto di riferimento. Per la Russia, l’esistenza dell’Ucraina non era altro che un’anomalia di cui Lenin era colpevole (secondo le parole di Putin) e doveva essere riportata nell’ovile russo. In realtà, gli Ucraini la chiamano “invasione su larga scala” per sottolineare come la sovversione e l’occupazione militare di Donbass, Luhansk e Crimea nel 2014 fosse stata una prima fase dell’invasione.

Il granello di sabbia che ha fermato la macchina da guerra è stata la portata della resistenza ucraina, imprevista da Putin, ma anche dall’Occidente. Possiamo davvero parlare di una massiccia resistenza popolare, in osmosi con le forze armate.

Il tempo non può cancellare questa verità originaria né il nostro obbligo di solidarietà.

J.P.: Come rispondi a chi ritiene che sostenere la resistenza significhi subordinarsi alle potenze occidentali, che (con il beneplacito del governo di Zelensky) hanno interesse a prolungare la guerra, indipendentemente dalle devastazioni (umane e materiali) che sta provocando, e che quindi sia necessario promuovere una politica attiva in difesa di una pace giusta?

P.R.: Non sono attivo nel movimento di solidarietà ucraino. Sono impegnato nelle mie attività di solidarietà con i paesi asiatici e sono immerso nella questione (molto cruda) israelo-palestinese. Quindi sarò cauto.

Siamo tutti consapevoli dell’entità della devastazione causata da questa guerra, tanto più che Putin sta conducendo una guerra palesemente diretta contro la popolazione civile. È insopportabile.

Tuttavia, non è il nostro sostegno, ma è Putin a prolungare questa guerra. È importante non diluire le responsabilità. Se per pace giusta intendiamo una tregua indefinita sull’attuale linea del fronte, ciò condannerebbe cinque milioni di ucraini nei territori occupati a vivere sotto un regime di assimilazione forzata, con milioni di altri deportati nella Federazione Russa vera e propria.

Credo che il ruolo del nostro movimento di solidarietà sia, innanzitutto, quello di contribuire a creare le condizioni migliori per la lotta del popolo ucraino e, al suo interno, per l’attività della sinistra sociale e politica ucraina. Non spetta certo a noi stabilire quali potrebbero essere i termini di un accordo di pace. Credo che dobbiamo ascoltare, tra le altre, le richieste della sinistra ucraina, del movimento delle donne, dei sindacati, del movimento dei tatari di Crimea e degli ambientalisti, e rispondere ai loro appelli.

Dobbiamo anche ascoltare la sinistra e i movimenti contro la guerra nella stessa Russia. La maggior parte dei settori della sinistra anticapitalista russa ritiene che la sconfitta della Russia in Ucraina possa essere il fattore scatenante che apre le porte alla democratizzazione del paese e all’emergere di vari movimenti sociali.

Coloro che, nella sinistra occidentale, sostengono che la sinistra nell’Europa orientale non esista quasi più si sbagliano.

Credere che un cattivo compromesso alle spalle degli ucraini possa porre fine alla guerra è un’illusione che mi sembra pericolosa. Significa dimenticare le ragioni per cui Putin ha iniziato la guerra: liquidare l’Ucraina e continuare la ricostituzione dell’Impero russo, nonché impadronirsi delle sue ricchezze economiche (compresa l’agricoltura) e instaurare un regime coloniale nelle aree occupate.

Diffido totalmente dei nostri imperialismi, di cui conosco bene la forza e contro i quali non smetto di lottare. Non mi fiderò mai di loro per negoziare o imporre un accordo di pace – basta vedere cosa è successo con gli accordi di Oslo in Palestina!

Per me, quindi, non si tratta di “entrare nella logica dei poteri” (qualunque essi siano). Devono mantenere la loro totale indipendenza dagli stati e dai governi (compreso quello di Zelensky). Ripeto: prestiamo attenzione a ciò che ci dicono le forze della sinistra ucraina e della sinistra anti-guerra in Russia.

J.P.: Gli Stati Uniti e l’Unione Europea stanno usando la guerra russa in Ucraina e l’aumento delle tensioni internazionali come alibi per il riarmo e l’aumento delle spese militari. Possiamo parlare addirittura della minaccia di una guerra mondiale in cui non è escluso l’uso di armi nucleari? Quale dovrebbe essere la posizione della sinistra anticapitalista di fronte a questo riarmo e a questa minaccia?

P.R.: Sono contrario al riarmo e all’aumento delle spese militari da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. Detto questo, penso che dobbiamo avere una visione più ampia. È in corso una nuova corsa agli armamenti in cui la Cina (e anche la Russia) sembrano essere in vantaggio in una serie di settori, tra cui le armi supersoniche che renderebbero inefficaci gli attuali scudi missilistici o permetterebbero di colpire una portaerei da molto lontano. Per quanto ne so, non sono ancora state testate e non so quanto sia reale e quanto sia fantascienza, ma altri compagni sono certamente più informati di me in questo campo.

Tuttavia, la stessa corsa agli armamenti è un problema importante. Per le solite ragioni (militarizzazione del mondo, acquisizione da parte del complesso militare-industriale di una quota esorbitante dei bilanci pubblici, ecc.), ma anche a causa della crisi climatica, che rende ancora più urgente l’uscita dall’era delle guerre permanenti. Le spese per gli armamenti e il loro utilizzo non sono incluse nel calcolo ufficiale delle emissioni di gas serra. Una terribile negazione della realtà.

Esistono già quattro punti caldi nucleari localizzati. Uno è in Medio Oriente: Israele. Tre sono in Eurasia: UcrainaIndia-Pakistan e penisola coreana. Quest’ultima è l’unica attiva. Il regime nordcoreano effettua regolarmente test e lanci di missili in una regione in cui sono stanziate le forze aeree navali statunitensi e dove si trova il più grande complesso di basi statunitensi all’estero (in Giappone, in particolare sull’isola di Okinawa).

La questione del riarmo, della nuova corsa agli armamenti, del nucleare, deve essere una parte imperativa delle attività dei movimenti contro la guerra di tutte le parti.

J.P.: Quale ruolo dovrebbe avere la nostra solidarietà internazionalista con il popolo palestinese?

P.R.: In primo luogo, l’assoluta urgenza, su cui si può trovare un’ampia unità: cessate il fuoco immediato, flussi massicci di aiuti attraverso tutte le vie di accesso alla Striscia di Gaza, protezione dei convogli e degli operatori umanitari (molti dei quali sono stati uccisi), la ripresa della missione UNRWA, il cui ruolo è insostituibile, la cessazione degli insediamenti in Cisgiordania e il ripristino dei diritti dei palestinesi espropriati, il rilascio degli ostaggi israeliani e dei prigionieri politici palestinesi, e così via. Difendiamo il diritto del popolo palestinese alla resistenza, compresa la resistenza armata, senza alcun ma; tuttavia, ciò non implica un sostegno politico ad Hamas o la negazione dei crimini di guerra commessi il 7 ottobre, come attestato da molte fonti indipendenti; gli abitanti dei villaggi beduini del Negev che Israele si rifiuta di proteggere, ma che sono stati ripetutamente attaccati da Hamas; gli attivisti israeliani che hanno dedicato la loro vita alla difesa dei diritti dei palestinesi.

Hamas è oggi la principale componente militare della resistenza palestinese, ma ha un progetto emancipatorio? Abbiamo sempre analizzato i movimenti coinvolti nelle lotte di liberazione che abbiamo sostenuto. Perché oggi dovrebbe essere diverso?

Il nostro ruolo di internazionalisti è anche quello di tracciare una linea, per quanto tenue, tra i compiti attuali e un futuro emancipatorio, Possiamo dare corpo a questa prospettiva sostenendo le organizzazioni che oggi agiscono insieme, ebree/i e arabi/palestinesi, contro venti e maree. Tutti loro stanno correndo grandi rischi per continuare a mostrare questa solidarietà ebraico-araba nel contesto attuale. Dobbiamo loro la nostra solidarietà.

J.P.: Infine, l’aggravarsi della crisi economica e il moltiplicarsi dei conflitti sia a livello internazionale che regionale sembrano indicare un punto di svolta che ci costringe a ripensare la politica di solidarietà internazionalista. Quali sono i modi per costruire un internazionalismo in accordo con la natura mutevole dei conflitti internazionali nel XXI secolo?

P.R.: Stiamo assistendo a una profonda ricomposizione con l’opposizione tra campismo e internazionalismo come principale linea di differenziazione. Possiamo avere molte differenze di analisi, ma la questione è se difendiamo tutte le popolazioni vittime.

Ogni potere sceglie le vittime che gli fanno comodo e abbandona le altre. Noi ci rifiutiamo di entrare in questo tipo di logica. Difendiamo i diritti dei Kanak in Kanaky [la Nuova Caledonia, nell’Oceano Pacifico, NdT], checché ne pensi Parigi, dei Siriani e dei popoli della Siria contro l’implacabile dittatura del clan Assad, del popolo ucraino sotto il diluvio di fuoco russo, del popolo portoricano sotto il dominio coloniale statunitense, del popolo haitiano a cui la cosiddetta comunità internazionale nega protezione e asilo, dei Palestinesi sotto il diluvio di bombe israeliane, del popolo birmano anche quando la giunta è sostenuta dalla Cina.

Non abbandoniamo le vittime in nome di considerazioni geopolitiche. Sosteniamo il loro diritto a decidere liberamente del proprio futuro e, quando la situazione lo richiede, il loro diritto all’autodeterminazione. Siamo al fianco dei movimenti progressisti di tutto il mondo che rifiutano la logica del nemico principale. Non siamo dalla parte di nessuna grande potenza, sia essa giapponese-occidentale, russa o cinese. L’occupazione è un crimine sia in Ucraina che in Palestina.

Dobbiamo anche integrare la questione climatica nelle questioni dei movimenti contro la guerra e, viceversa, i movimenti ambientalisti militanti trarrebbero vantaggio, se non l’hanno già fatto, dall’integrazione della dimensione antibellica nella loro lotta.

Foto: “A symbolic representation of planet Earth surrounded by chains, depicting the Earth’s fast rotation breaking the chains“, immagine generata con intelligenza artificiale (Dall-E) 

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 53 di Maggio – Giugno 2024: “Chi fa la guerra non va lasciato in pace

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