L’apocalisse a Gaza

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di Walter Massa (presidente nazionale ARCI)

Dire che sono ore drammatiche a Rafah, e più in generale nel sud della striscia di Gaza, probabilmente non rende ma credo sia giusto affermarlo perché come ci ha detto il responsabile regionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in quei giorni tra Il Cairo e il valico di Rafah, “là dentro siamo oltre la catastrofe. Siamo all’apocalisse, da molti mesi”.

Sono ore drammatiche per le sorti di oltre un milione e mezzo di persone rifugiatesi nel sud della Striscia dopo la violenta occupazione militare israeliana che, dati alla mano, ha già prodotto una mattanza. Oltre 35.000 morti e circa 90.000 feriti. È alle porte l’operazione militare su larga scala proprio su Rafah e gli effetti potrebbero essere devastanti sul piano umanitario.

Credo sia importante continuare a chiedersi perché tutto ciò sta avvenendo e perché il livello di disumanità abbia nuovamente raggiunto picchi impensabili, dopo la seconda guerra mondiale.

E allora, senza alcuna pretesa, a quei perché voglio provare a dare una prima risposta con le parole di Pierluigi Ciocca lette su Il Manifesto qualche settimana fa.

Una prima risposta, appunto non esaustiva ma, credo, capace di dare almeno un elemento di contesto generale, fuori da alcuni schematismi di facciata che, più passa il tempo, meno mi convincono. Mi riferisco alla religione, alle dispute storiche o ad altre motivazioni lette in questi anni che, per chiarezza, penso ci siano tutte ma, guardandomi attorno, mi pare non esauriscano completamente questo bisogno di capire che in tanti sentiamo.

Pierluigi Ciocca, infatti, descriveva con efficacia il vicolo cieco prodotto dall’economia di mercato capitalistica in cui, a suo avviso, siamo finiti da tempo. E ne descriveva “i suoi sempiterni, radicali difetti”: l’iniquità, l’inquinamento e l’instabilità che, unite agli altrettanto radicali dogmi ossia guerre, diseguaglianze e clima ci consegnano il contesto odierno. Tutto ciò produce una devastante instabilità in un contesto mondiale in piena riorganizzazione, non solo tra Est e Ovest ma soprattutto tra Sud e Nord del mondo.

E cosa c’entra tutto ciò con Gaza, la Palestina, l’Ucraina, il Sudan, la Siria o più direttamente con la recente missione della Carovana al valico di Rafah promossa da AOI, Arci e Assopace Palestina?

Io credo c’entri molto non fosse altro per la sensazione di deriva totale in cui siamo immersi e che si sostanzia con sempre più disumanità se non sadismo, di uomini contro altri uomini. E ciò che accade dentro la striscia di Gaza, ahinoi, è solo la punta drammatica dell’iceberg di questa “terza guerra mondiale a pezzi” che tocca quasi tutti i continenti.

Nella più totale indifferenza e nella più totale disinformazione.

Con questo spirito, per squarciare questo velo di indifferenza, ipocrisia e talvolta ignavia che all’indomani dell’avvio delle operazioni militari dentro la Striscia da parte delle forze armate israeliane, abbiamo deciso di organizzare una raccolta fondi nazionale con l’intento di acquistare beni di prima necessità da inviare a Gaza. E così abbiamo fatto, raccogliendo in pochissimo tempo moltissime risorse tali da acquistare materiali di ogni genere e riempire quattro tir che abbiamo “scortato” fino al valico di Rafah.

Abbiamo trovato conferma nelle tante notizie frammentate che nel frattempo giungevano; una guerra che non è una guerra perché non ci sono eserciti che si contrappongono in modo convenzionale: c’è un massacro in atto, il genocidio di un popolo, nel silenzio più totale, che muore perché è nato palestinese e non muore più da mesi solamente per le operazioni militari o per i bombardamenti. Muore per mancanza di cibo, acqua potabile, mancanza di medicine e di cure oltre che per assoluta mancanza di strutture sanitarie degne di questo nome. La storia, è sicuro, non sarà tenera con noi, soprattutto se continueremo a trovare sempre e solo differenze, se il nostro obiettivo sarà sempre e solo quello di correggere le virgole di appelli che parlano solo ai nostri piccoli egoismi e se, soprattutto, non saremmo in grado di concentrarci sull’unica cosa che tutte le organizzazioni palestinesi, egiziane, le Ong e le agenzie internazionali ci hanno chiesto: continuare a batterci per il cessate il fuoco, aprire i valichi agli aiuti, permettere un vero e proprio intervento umanitario, curare chi ha bisogno di essere curato e liberare la Striscia dall’occupazione militare.

Se ciò non avverrà, sempre l’Organizzazione Mondiale della Sanità ce lo ha detto con estrema chiarezza: dagli attuali 35.000 morti il bilancio potrebbe ben presto salire a 85.000 per le ragioni di cui sopra. E tutto ciò lo ascoltavamo di fronte ad uno spettacolo impressionante di migliaia e migliaia di tir colmi di ogni bene fermi da 10, 20, 30 giorni in attesa di essere visionato o respinto.

Perché, contrariamente a quello che appare sui media in questi giorni, l’occupazione militare del valico di Rafah c’era già prima. In questo momento nel sud di Gaza, nell’area di Rafah sono presenti oltre un milione e mezzo di persone, quando prima del 7 ottobre la popolazione residente in quell’area si avvicinava a circa 280.000 abitanti. Si vive in spiaggia come tra le macerie di case e appartamenti bombardati in condizioni drammatiche che peggiorano di giorno in giorno: 60 persone in 80 metri quadri pur di avere un tetto sulla testa, un bagno ogni 500/600 persone quando gli standard delle Nazioni Unite in situazioni di crisi umanitarie parla di uno ogni 20 persone. Nessuno entra o esce senza l’avallo dell’esercito israeliano e soprattutto se non hai 5.000/7.000 dollari che ti permettano di oliare anche la disumanità più feroce.

E attorno a questa condizione che la parola sadismo, in quei giorni, trova conferma: costretti a vivere sotto le bombe, senza cibo, acqua e medicine per non parlare delle strutture sanitarie e al contempo non poter fuggire perché gli stessi carnefici non te lo permettono.

Tornare dal valico di Rafah e riprendere una vita più o meno normale non è stato dunque per nulla facile. C’è un senso perenne di vuoto e di colpa per essere tornato qui, in questo Occidente difficile e colpevole e soprattutto non essere laggiù ad ascoltare e vedere ciò che accade e che nessuno è in grado di raccontare nella sua drammaticità. E c’è molta rabbia che occorre gestire e trasformare in maggiore forza e ostinazione per non perdere quel senso di utilità (e umanità) che la Carovana per Rafah ci ha permesso di vivere.

La Carovana ha aperto uno squarcio, ribaltando una narrazione mediatica insufficiente quando non travisata di ciò che sta accadendo dentro Gaza e fuori al valico. Ed è questo un lavoro che sta continuando, facendo sì che quel pugno nello stomaco vissuto in prima persona possa arrivare in molti luoghi del nostro Paese per raccontare ciò che accade. Io me lo sono domandato molto in questi giorni: perché tre organizzazioni della società civile hanno dovuto organizzare una carovana per permettere a parlamentari e giornalisti di vedere il mondo com’è veramente?

Tra i tanti messaggi che ho ricevuto in quei giorni uno infatti mi colpì molto: “il valore di questa missione non è solo sensibilizzare l’opinione pubblica, quanto supplire ad una evidente assenza di informazione data dalla carenza (voluta) di mezzi di informazione sul campo”.

E pensandoci e ripensandoci, guardando le reazioni e ai tantissimi post, servizi, foto e video che abbiamo prodotto in questi giorni di missione credo sia proprio questo il punto ed è uno dei motivi per cui ringrazio chi ha voluto esserci e chi oggi continua ad essere in carovana, da nord a sud del Paese, per raccontare ciò che ha visto e ciò che ha sentito.

Foto: 

1: rawpixel.com

2: “Lettera di AOI, Arci, Assopace e parlamentari a Meloni: necessario un immediato cessate il fuoco a Gaza.” ARCI.it

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 53 di Maggio – Giugno 2024: “Chi fa la guerra non va lasciato in pace

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