Non un “altro Expo”, ma un altro modello di sviluppo è possibile e urgente

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di Marco Gimmelli

 

Cosa succede sul territorio Lombardo e più estesamente della Val Padana? Perché cittadini, abitanti, lavoratori del territorio si mobilitano per farsi sentire in luoghi diversi organizzandosi in comitati, associazioni, reti? Che cosa difende e rivendica questa vertenzialità multiforme che si oppone a inceneritori, bretelle autostradali, box sotterranei, villettopoli, nuovi svincoli e poli logistici, alta velocità, quartieri della moda e del gusto?

Sorgono ormai diffusamente forme di resistenza democratica che, dal basso, entrano in conflitto con obiettivi sparati dall’alto da entità private o amministrazioni pubbliche sempre più depotenziate. Di fronte al caos viabilistico, alla crescita di inquinamento e rifiuti, al degrado abitativo e a quello del suolo, sui vari fronti generati dagli effetti devastanti delle politiche liberiste di esclusione, mercificazione e militarizzazione del territorio, sorgono vertenze che rivendicano prima di tutto maggiore partecipazione, aperta, di cittadini, abitanti e lavoratori alla gestione e alla definizione del bene comune, dello spazio pubblico; nell’interesse generale del tessuto produttivo di varie porzioni ambientali e sociali che non si riconoscono nei piani di sempre più estranei, enormi, indifferenti entità di mercato, agenti nell’ottica di monetizzare profitti a breve termine in un gioco al massacro, all’eliminazione reciproca o alla fusione; voci che non si percepiscono come rappresentate dagli amministratori eletti, i quali sembrano muoversi in perfetta autonomia perfino rispetto ai programmi elettorali, in simbiosi con i piani sempre più parassitari degli agenti economici; voci che si oppongono ad una progressiva delegazione del processo decisionale al mercato, alla deregolamentazione, all’allontanamento di questo potere che tende poi a ripiovere dall’alto di una dimensione sempre più distaccata dai bisogni reali; una reazione alla mercificazione crescente di porzioni di esistenza che chiedono invece di essere difese come diritti inalienabili, per garantire la sussistenza di un patto sociale integro in armonia con l’ambiente ospitante, una comunità capace di riprodursi rendendo libera la crescita delle persone anziché quella del PIL; vertenze che manifestano un’attenzione che va dai disagi sociali all’impatto ambientale senza soluzione di continuità.

Ma qual è l’origine dell’attuale collasso del territorio dietro l’aggravarsi della forbice sociale? Perché aumenta l’inquinamento che è ormai avvelenamento diffuso dall’aria alle falde idriche? Perché ci ritroviamo sepolti in un traffico che è im-mobilità? Precarizzazione del lavoro e mancanza di tempo, un generale peggioramento della qualità della vita, tutto ciò non segnala forse l’emergenza di contraddizioni fondamentali nel disordine dell’economia di mercato globale che non sono ormai più rimandabili? I mercati finanziari, su cui si sposta unilateralmente il core business, diventano sempre più instabili: la propensione agli investimenti a breve termine rende sempre più angusta la possibilità di progettualità prospettica, di pianificazione reale, ciò che a lungo andare toglie il terreno sotto i piedi degli stessi agenti economici; gli ordinamenti istituzionali (nazionali, locali) perdono sovranità; si deteriorano le capacità di offerta di servizi pubblici e la copertura dei diritti in generale.

E cosa fanno per rispondere alla crisi le classi dirigenti fedeli al liberismo e alle supposte virtù del mercato? Non rivelano altre opzioni se non quella di gettarsi sempre più a capofitto nella liquidazione di ciò che resta dell’ecosistema, monetizzando quel che rimane per soddisfare nuovi margini di profitto, prive di qualunque visione futura a lungo termine. Esse aggrediscono via via quel che rimane del diritto polarizzando sempre di più le differenze esclusive all’interno dei singoli stati, nelle singole circoscrizioni locali, come tra Nord e Sud del mondo. La mitica crescita è prima di tutto nuovo volume di scambio ineguale, mercificazione progressiva di qualunque cosa, dal dna all’abitare, dalla salute alla pensione, dal credito al debito; si mercificano sempre di più gli stessi scambi, si gioca a creare liquidità dal nulla, supponendo di poter saltare la base fiduciaria che può esistere solo in contesti sociali con relazioni sane.

Le imprese reagiscono cercando una disperata compressione dei costi che colpisce prima di tutto il lavoro partendo dai contratti collettivi nazionali. Dove entrano in crisi le vendite in un mercato già saturo di merci, dove perdono convenienza gli investimenti produttivi, l’economia si avvia verso la finanziarizzazione spingendo l’acceleratore verso l’utopia di una crescita sospinta da attività speculative sconnesse con la vita reale. Svanisce qualunque sistema di welfare state. I beni comuni come acqua, salute, energia (capaci di garantire domanda rigida e dunque facili rendite di monopolio) finiscono sul mercato sotto il peso ossessivo del taglio della spesa pubblica, dei vincoli di bilancio e dei vari “patti di stabilità” che ingiungono di ridurre le spese non coperte dalla fiscalità svendendo ciò che rimane, mentre la stessa fiscalità è stretta a sua volta nella morsa competitiva tra gli stessi regimi fiscali al ribasso, che devono far fronte al rischio di fuga dei capitali: se c’è scambio concorrenziale che non conosce barriere neppure tra tassazioni e transazioni monetarie si finisce nella spirale cieca di una politica economica e fiscale reciprocamente restrittive. Vista globalmente, la schizofrenia del sistema si rivela anche nella rimozione del pericolo di un’impossibile crescita infinita di questo “sviluppo” dentro i limiti ecologici del pianeta, sia inteso come ricettacolo a monte di risorse sia inteso come discarica a valle dei correlativi rifiuti; a questa rimozione si sostituisce la fede cieca nell’autocorrezione del mercato, nella possibilità di individuare sempre nuovi giacimenti per il consumo.

Così ecco queste classi dirigenti allo sbando lanciarsi in idee sempre più stupide e geniali. La saturazione del suolo si inserisce proprio a questo livello come nuovo orizzonte utopistico: alle attività speculative si affianca cioè il sogno devastante di immobiliaristi e costruttori che non temono la concorrenza globale laddove costruiscono nuova edilizia, nuove infrastrutture, sul territorio, impossibili da “importare” a basso prezzo da altri mercati. Così si edifica a tutto spiano in barba al consumo degli spazi viventi, alla loro pulizia all’incontrario ed alla deriva dell’abitabilità. Speculazioni e grandi opere procedono di pari passo. Si costruiscono nuovi palazzi, cresce il valore di mercato di alcuni immobili e aumenta il volume di compravendita anche perché per vendere si inventano soluzioni subprime di spettacolare effetto. Si veda per un parallelo quel che sta accadendo negli Stati Uniti dell’avanguardia liberista: non ci si è accontentati del mercato dei managers dagli stipendi elevati, ma si è aggredita la domanda dei precari spinti nel frattempo ad un generale indebitamento per coprire consumi di beni di non immediata necessità e stili di vita poco sostenibili. Proseguendo nella cornice ideologica della “società dei proprietari” che si è radicata con Reagan – di qua con la Thatcher – negli anni ’80, gli Stati Uniti di Bush sono arrivati a promuovere l’utopia della casa-bancomat. I cittadini hanno finito per ipotecare l’abitare e il proprio futuro in senso lato e milioni di statunitensi sono ormai a rischio di pignoramento. Nel frattempo sono saltate molte teste dell’alta finanza quando nell’estate del 2007 si è “scoperto” che i subprime (attraenti per l’alto profilo di rischio, promossi dalle banche con la complicità delle agenzie di rating) sono finiti insalsicciati dentro strumenti derivati sofisticati, pacchetti comprati da hedge funds, fondi pensione e risparmiatori di vario tipo – sorta di “rischio” socializzato, distribuito ovunque, spezzettato e rivenduto. Con il vento invertito del mercato immobiliare, mentre la FED aveva cominciato a rialzare i tassi preoccupata per l’inflazione e per l’aumento del deficit commerciale, le banche si sono ritrovate con titoli difficili da piazzare, sempre più esposte di fronte all’aumento di mutuatari a (ovvio?) rischio di insolvenza e, non fidandosi più l’una dell’altra, riducendo i prestiti interbancari, hanno finito per innescare la crisi di liquidità che ha inceppato tutto il mercato finanziario. Ma mentre le autorità monetarie intervengono con mitiche iniezioni di liquidità o tagli dei tassi di interesse venendo in pronto soccorso delle banche, a restare inopinatamente fregati in questa morsa sono semplicemente i risparmiatori comuni insieme a tresettimanisti e sfrattati.

Tornando letteralmente a terra, al suolo, basta ricordare che mentre la moneta in tutte le sue forme variopinte scritturali, cartacee, derivate e sottoderivate tende a crescere indefinitamente, trasformando debiti in investimenti e viceversa, seguendo una logica diversa da ogni altro bene, il terreno è senz’altro perfettamente limitato, essendo fisicamente impossibile edificare o coltivare senza limiti; e come insegnano tutti i manuali di economia, il cosiddetto bene-suolo è disomogeneo: non c’è una porzione di suolo identica a un’altra; piantando viti a poche centinaia di metri di distanza si ottengono vini diversi. Il processo di erosione inoltre è irreversibile. Ma cosa fanno tranquillamente le classi dirigenti? A una crisi generata dalla natura speculativa, di scommessa, della propria agenda economica, rispondono, come esperti giocatori d’azzardo, rilanciando il piatto, cioè puntando su investimenti sempre più rischiosi e cementificazioni sempre più grandiose.

La stretta sugli enti locali spinge questi ultimi a lanciarsi in spericolate e irresponsabili operazioni finanziarie a caccia di liquidità per coprire la spesa corrente: grandi e piccoli comuni scommettono in derivati e strutturati sull’andamento dei tassi e finiscono per “assicurare” il sistema bancario, scaricando i rischi sulle amministrazioni seguenti e in ultima istanza sulle generazioni future. Quanto sta perdendo il Comune di Milano con i CDS nell’attuale contesto di crisi del credito? Perché la Corte dei Conti boccia senza remore il piano maxi-bond da 1,6 miliardi di euro della giunta Albertini sostenendo che si sposta un peso insostenibile sulle generazioni future? Cosa ne sarà dei servizi come le aziende della rete idrica o della sanità di proprietà pubblica, case di riposo, ex municipalizzate che rischiano perdite di milioni di euro? Cosa succede al Comune di Torino che ha assicurato il debito contratto per organizzare le Olimpiadi acquistando derivati che oggi perdono? Come rischiano di replicarsi esperienze come quelle dell’acquedotto pugliese, del fallimento del Comune di Taranto o di Napoli nel 1993? Perché la Corte dei Conti parla di un “fenomeno preoccupante” dove”le esposizioni finanziarie possono diventare progressivamente insostenibili”?

La via d’uscita edilizia sembra a sua volta un vicolo cieco in cui a finire senza uscita è lo stesso sviluppo del territorio che va in direzione di un moderno deserto padano. Che cosa sviluppa l’appalto a una coop “rossa” di una nuova base militare? Cosa sviluppa un nuovo inceneritore firmato? Cosa un nuovo quartiere di residenziale di lusso? A cosa serve un quartiere avveniristico per un’esposizione universale? E un nuovo sistema di megasvincoli? Piccoli e grandi comuni sono ormai dei maturi “mangiatori di terra”: la stretta fiscale spinge a incassare oneri di urbanizzazione svendendo il patrimonio pubblico, innescando una spirale perversa che porta a nuovi bisogni di edificazione sempre più insostenibili senza che si possano mettere in discussione i fini che vengono perseguiti. Una diffusa megalopoli occupa ormai la fascia centrale della pianura padana (275 mila ettari cementificati nella sola Lombardia negli ultimi 15 anni). Corsa ai capannoni (seguita alla legge Tremonti), sprawling (spargimento abitativo), un boom infrastrutturale che non dipende da un parallelo boom economico, un “fiorire” di poli logistici e commerciali (gravati da un ICI più proficua) sconnessi dal tessuto reale, svincoli e “ampi parcheggi”, outlets, multisala, grandi distribuzioni commerciali monumenti della terziarizzazione del sistema, entità che ridisegnano il territorio senza una pianificazione reale, cioè senza un piano di governo territoriale, prendendo in considerazione come unici criteri la rendita fondiaria e finanziaria: questa è l’origine della cosiddetta incontinenza edilizia dei nostri giorni il cui lato evidente è la “colata di cemento” descritta talvolta da ambientalisti o uomini di spettacolo. Si realizzano opere sganciate dalla conoscenza dei bisogni reali dei territori senza consultare cittadini e lavoratori che li abitano. Si sfruttano i più classici meccanismi della cosiddetta speculazione edilizia: defunti piani regolatori vengono deviati su vari terreni, magari a vincolo agricolo, cambiandone la destinazione d’uso e gli indici di edificabilità, oppure certi valori di mercato vengono alterati sfruttando “esternalità positive” che ricadono su aree private grazie a investimenti infrastrutturali pubblici. Se negli anni ’60 in Italia, all’epoca del boom industriale, queste pratiche potevano presentarsi come scorciatoie laterali per furbetti di quartiere o spunti per la sceneggiatura di film come quello di Francesco Rosi “Le mani sulla città”, nei nostri anni di crisi si impongono come norma metropolitana che rincorre tendenze strutturali del ciclo di remunerazione del capitale consegnato ai capricci dei mercati finanziari. La delocalizzazione all’estero dei centri produttivi, il conseguente degrado di ampie aree dismesse con svendita del territorio a centri commerciali e vetrine dell’alta moda, tutto ciò ha una ricaduta di inedita pesantezza sulla qualità della vita degli abitanti urbani e periurbani presenti e futuri.

Per fare un esempio apparentemente buffo e lontano, la sezione “Esplorazioni Spaziali” della Nasa addirittura progetta, secondo Carl Walz, nuove installazioni abitative sulla Luna analoghe alla stazione ISS nell’ambito del turismo lunare da avviare nel 2020. Sconnessione dalla realtà significa anche questo: si costruisce ormai letteralmente sulla Luna. Intanto, sulla Terra il patrimonio delle case popolari viene “ridistribuito” concedendo palazzi e terreni ai soliti pochi e noti privati, strappando al massimo a qualche costruttore delle quote minime di abitazioni da destinare al mercato degli affitti calmierati, mentre si moltiplicano occupazioni e sgomberi e baraccopoli di immigrati e precari di ultima generazione. Ma il cuore del problema sembra essere la totale inefficacia delle soluzioni di fritto misto tra pubblico e privato che le più sofisticate ingegnerie di project financing all’italiana pretendono di mettere in campo. Di fatto, senza l’intervento miracoloso dei fondi pubblici con il loro sistema di garanzie sembra impossibile realizzare alcunché, partendo dalla semplice constatazione che le principali società immobiliari italiane hanno debiti di miliardi di euro e titoli in borsa che si riducono pericolosamente col passare dei mesi. E’ quindi la stessa crisi finanziaria globale che impone l’intervento delle autorità pubbliche per finanziare i disastri del liberismo.

In questa cornice, ecco le classi dirigenti allo sbando lanciarsi nella già nota, stupida e geniale strategia del Grande Evento sorretto dalle strutture consolidate dell’immaginifica società dei media e dello spettacolo. La lotteria dell’Uomo di Vitruvio dalla braccia allargate (che vende il modello formigoniano come Bethoveen vende la carta igienica) allude con un bel logo a una prodigiosa creazione dal nulla di denaro da arraffare nasconde il vuoto di questa operazione di pura matrice liberista: l’Expo Universale milanese del 2015 riveste semplicemente la funzione canalizzatrice di una “pioggia” di investimenti pubblici sotto il beneplacito delle stesse istituzioni. Catalizza e accelera questo assalto che altro non è se non la ineguale distribuzione di ricchezza dal pubblico nelle mani di una ristretta elite di privati, holding finanziarie e immobiliari che si apprestano a perseguire disegni di sviluppo dei propri portafogli senza stare tanto a guardare alle ricadute sul territorio, mentre con le stesse risorse si potrebbero perseguire obiettivi completamente diversi e di grande impatto sociale e lavorativo, politiche abitative, un diverso modello di mobilità, un piano di gestione partecipata di servizi e beni comuni e così via. Fondazione Fiera, Cabassi, Ligresti, Zunino, la multinazionale Hines, il Gruppo Gavio, LegaCoop, Compagnia delle Opere, Caltagirone: sono questi alcuni dei principali soggetti che beneficiano di questa operazione in pompa magna resa possibile dagli sforzi degli enti locali che negli ultimi mesi dal 2007 al 2008 si sono profusi in viaggi di compravendita dei voti per assicurare l’assegnazione della polpetta da parte del BIE (il Bureau International des Expositions, l’ONG che presiede alla gestione delle esposizioni internazionali e universali) alla città di Milano. Come insegnano anche recenti esperienze in casa nostra, come quella delle Olimpiadi del 1960 o i Mondiali di Calcio del 1990 fino ai Giochi Olimpici di Torino 2006, queste “grandi opportunità” di fatto determinano spese pubbliche incontrollate, “inutili”, lasciando in eredità pesanti impatti ambientali, grandi opere in disuso, e nessuno “sviluppo” che faccia il benessere dei cittadini, del mondo del lavoro nonché delle piccole imprese. Se non vogliamo dare credito a libri rivoluzionari, possiamo almeno dare un’occhiata a qualche puntata di Superquark per capire che non si sono mai visti pesci grandi che danno da mangiare ai pesci piccoli quanto semmai pesci grandi che mangiano pesci piccoli. Un grande evento dalla grande sostanza immaginifica è in grado di spingere le attività speculative, può muovere le borse (si vedano i titoli di Ente Fiera schizzati del 30% insieme a quelli di immobiliari e costruttori vari il giorno dopo l’assegnazione dell’Expo), ma non ha neppure ricadute positive sull’impresa, sul tessuto produttivo vero e proprio. Nè, come è noto, ridistribuisce, riequilibra, o genera portentosi posti di lavoro, fatta eccezione per 70000 precari o posti in nero nei cantieri. Come potrebbe, d’altronde, una manifestazione della durata limitata di 6 mesi garantire ricadute lavorative a lungo termine? E’ nella sua stessa natura quella di creare un ristretto indotto turistico per alberghi o ristoranti senz’altra visione prospettica a lungo termine. Quel che “resta” veramente sono i suoi scheletri sul territorio – scheletri umani e infrastrutturali. Senza considerare l’inattendibilità del balletto di cifre che impreziosisce il documento di candidatura presentato al BIE: 29 milioni di visitatori per Rho-Pero (160 mila paganti al giorno per un prezzo d’ingresso di oltre 40 euro), appassionati di sementi agricole e innovazioni tecnologiche in Val Padana che sbeffeggiano i veri problemi della nutrizione del pianeta? Sono note le difficoltà finanziarie del Comune di Torino dopo l’organizzazione delle olimpiadi invernali; altrettanto note le relative morti nei cantieri e l’immacolata crisi dell’offerta di lavoro; numerose le stazioni sciistiche che hanno chiuso i battenti. E come si può credere che tramite un Grande Evento sia possibile realizzare “altri mondi possibili” magari con opere di edilizia convenzionata? Abbiamo visto nei giorni di visita a Milano dei delegati del BIE che tipo di città esclusiva sorge da questa visione. Operazioni di “pulizia” in nome della città vetrina, ben rappresentata dai futuri quartieri della moda e del gusto: retata anti-barbone in Stazione Centrale, sgombero dei campi (stigmatizzato anche da personalità religiose), finanche assurda sverniciatina ai murales. Abbiamo visto nei giorni successivi all’assegnazione il delirio delle bandiere sventolanti in Corso Buenos Aires sotto gli occhi di cittadini distratti e disinformati: coi titoli dei giornali pareva di aver battuto i Turchi a pallacanestro 86 a 65.

Il modello lombardo gestito dal sistema di potere che fa capo a pochi agenti economici come Fiera Milano e grandi immobiliaristi rappresentati da Moratti, Formigoni &co suggella con questo fiore all’occhiello una vasta politica di deregolamentazione e privatizzazioni del territorio e dei beni comuni smantellando ciò che resta della dimensione pubblica. Dopo quasi un ventennio di privatizzazioni che toccano dalla sanità all’istruzione all’abitazione, assistiamo a un massiccio trasferimento di reddito dal lavoro al capitale, alla stagnazione degli investimenti produttivi, al peggioramento della qualità della vita in un ambiente che è già al vertice delle classifiche europee quanto a inquinamento e congestione del traffico. La differenza tra pubblico e privato va ricercata nei distinti obiettivi che si pongono e non certo in misure di maggiore o minore efficienza allocativa. Poiché il privato ha interesse al massimo consumo per ottenere massima remunerazione e profitto, immettere sul mercato nuovi pezzi di vita non è sviluppo, non è modernizzazione, ma solo alienazione e distribuzione progressivamente ineguale della ricchezza, con corrispettiva erosione dei diritti. Dovunque assistiamo all’aumento dei prezzi, alla precarizzazione del lavoro come conseguenza della politica di riduzione dei costi, al peggioramento della qualità dei servizi o della sicurezza. Al limite, soccombiamo sotto l’aumento insostenibile dei consumi e degli annessi rifiuti: perché mai dovremmo consumare più acqua o più suolo? Un territorio gestito in un’ottica partecipata come bene comune o l’allocazione dello stesso in pezzetti al mercato nelle mani delle holding finanziarie prevedono semplicemente degli obiettivi diversi. Malauguratamente, la percezione comune del “privato è meglio” ha trovato in Italia facile radicamento perché si è fatta a lungo molta confusione sul senso della pubblicizzazione del bene comune. Persi nei meandri di un infinito dibattito tra interventismo e liberalismo abbiamo lasciato che la malamministrazione pubblica facesse scuola, proseguendo l’impostazione teorica che già Francesco Saverio Nitti dell’INA propose agli inizi del Novecento: il modello dell’ente pubblico autonomo dall’amministrazione come “luogo d’intervento dello stato nell’economia”, cioè dell’ente pubblico come “ente di gestione”, identico dal punto di vista formale a una gestione privatistica. Così siamo finiti sommersi da una miriade di società per azione a partecipazione statale (è del ’56 il Ministero delle Partecipazioni Statali), determinando di fatto l’assenza di qualunque coordinamento unitario per la cosiddetta industria di stato nel secondo dopoguerra ancora prima della svolta monetarista degli anni ’70. In realtà, una concezione pubblica dell’assetto industriale, dei beni strategici come energia, acqua, opere di utilità generale per la mobilità, la comunicazione, l’abitare, e quant’altro, passa oggi per l’idea di una partecipazione democratica, aperta, trasparente tanto nella gestione “economica” che in quella “politica” intesa come spazio complessivo dei processi decisionali, partendo dall’idea che più democrazia si ottiene solo sottraendo spazio al mercato, perché pubblico correttamente inteso e privato divergono essenzialmente negli obiettivi.

La deriva neoliberista non è estranea da una dialettica interna ai poteri forti che vede da una parte l’aggrapparsi come cozze alle ragioni dello scambio ineguale, dall’altra l’avvertimento delle fragilità del sistema, per cui si tende a tirare avanti con politiche del “prendere tempo”, mentre si cerca disperatamente di autoconvincersi che non c’è pericolo – contro il global warming, contro il montare dei rifiuti, dell’avvelenamento, nonché del malcontento sociale. Si diffonde l’utopia della società dei proprietari con una commedia dell’arte di massa, si affonda nel limitato repertorio che prevede la recrudescenza del potere militare (cosa ci farai mai dopo aver finanziato un centinaio di F35, i moderni caccia bombardieri?), le politiche securitarie, l’aumento dei poteri alla polizia del “Patto per Milano Sicura”, Leggi per incarichi e Poteri Speciali, le muraglie e le grandi lotterie, magari ammantate da un velo umanitario (vedi “Feeding the planet – Energy for life”). Ma se questo modello delle classi dirigenti non offre niente di meglio, se non si riesce ad estrarre niente di più intelligente dal cilindro liberista per rispondere alla crisi innescata, forse sarebbe bene una volta per tutte guardarsi allo specchio e ammettere di essere alla frutta, considerando l’idea che un cambiamento più profondo è quanto mai urgente per il bene di tutti.

Perché non ammettere che il programmatico abbandono dell’uso di strumenti urbanistici di governo del territorio è una sciagura che pesa irreversibilmente sulle future generazioni? Perché non cominciare a rivedere gli errori punto per punto? Dove porta la politica del “caso per caso”, degli accordi di programma come strumenti di scardinamento dei piani regolatori? Quale disegno del territorio è sotteso da massicci interventi riuniti negli stessi anni? Perché il centrodestra riesce a vincere le elezioni promettendo praticamente “più cemento per tutti”? Perché si modifica la legge regionale lombarda per attribuire alla Regione la facoltà di superare eventuali pareri negativi degli enti locali? Prendiamo la Broni-Pavia-Mortara: a cosa serve il collegamento tra queste città? Al Gruppo Gavio interessa perché collegherebbe la Torino-Piacenza (gestita da Gavio) con la Milano-Genova (gestita da Milano Serravalle) intorno alla quale ruotano altri suoi interessi. In nome di un intervento di “interesse regionale” potrà sbizzarrirsi edificando intorno all’asse stradale nuovi complessi residenziali e commerciali aggirando i pareri locali? Dove porta l’emendamento “ammazzaparchi” attualmente sospeso ma pronto a tornare alla carica nella prossima stagione? Quale collasso porta la trasformazione di Milano nella città dei mille cantieri? Che senso ha lo spopolamento della città con l’esproprio di chi non è in grado di pagare i mutui immobiliari e gli affitti? Dove porta la gentrificazione, l’espulsione dei ceti non abbastanza “esclusivi” verso le periferie? Che ne è dell’impatto ambientale della Boffalora-Malpensa nel momento in cui viene spezzettata in microprogetti? Dove va a farsi benedire la controllabilità dei lavori con l’introduzione del General Contractor? Perché riprodurre il modello del polo fieristico a Roma con la realizzazione della nuova Fiera di Roma in mano a Lamaro Appalti urbanizzando oltre 15 mila ettari ad uso agricolo? Davvero non basta la nuova cintura di tangenziali di cui è parte la Pedemontana che si avvia a circondare ulteriormente il territorio del Parco Agricolo Sud milanese? E’ una gara tra grandi metropoli? Anche lo skyline da elevare rientra in una simile competizione d’immagine per tenere testa alle meraviglie del Dubai? Se aumentano i pendolari del 35% dal 2001 al 2007 arrivando ormai a 13 milioni di persone, perché non si interviene per migliorare le tratte e il servizio già esistente e invece si finanzia l’Alta Velocità? Che ne è delle esigenze reali se Trenitalia punta sui servizi più redditizi con lo scorporo dell’Alta Velocità, creando un’apposita nuova SPA (sulla scorta della finanziaria 2008 che ha introdotto l’emendamento per la netta distinzione tra tratte redditizie e non)? Perché la Regione Lombardia taglia fondi per le case popolari stanziando poi faraoniche cifre per il Nuovo Palazzo della Regione a gloria imperitura di Formigoni? Perché si intende realizzare l’Expo nell’unica area verde rimasta intorno al nuovo Polo Fiera e non al nuovo Polo Fiera? Che male ci ha fatto il Parco del Ticino per essere devastato?

Gli interventi urbanistici e viabilistici non perseguono ormai alcun disegno territoriale in senso proprio. Non rispondono a criteri di sostenibilità ambientale nè fanno riferimento ai bisogni reali che emergono dai territori. Consegnare il bene comune al mercato significa questo. A fronte delle analisi costi-benefici che perseguono interessi economici ristretti in stanze di consigli di amministrazione remoti, la politica, ovvero l’amministrazione della res pubblica, rinuncia a controllare democraticamente l’evoluzione del territorio inteso come bene comune. La “politica” in senso lato rinuncia a costruire fisicamente aree di incontro e convivenza, zone verdi, piazze, consegnandoci ad un futuro territoriale sempre più invivibile, congestionato, inquinato ed al tempo stesso ripulito come sa esserlo l’utopia incarnata di una “città vetrina”, visione perfetta per centri commerciali e società immobiliari. Una pulizia all’incontrario che progetta la boutique di Dolce e Gabbana sulla Luxury Square a Santa Giulia mentre vengono sgomberati i luoghi di aggregazione sociale giovanili e messe a tacere le voci scomode; mentre si assiste all’espulsione violenta, economica e fisica, delle fasce deboli. Che cosa può significare “rifare il lifting” della città se non questa sistematica selezione innaturale Aumenta il potere della Polizia Locale in nome di fantomatici problemi di sicurezza da vetrina, mentre si dimenticano i veri rischi ambientali, i controlli alimentari, i pericoli nei cantieri basati sul lavoro nero, ovvero l’autentica insicurezza che viene generata nel momento in cui la nostra vita quotidiana viene consegnata nelle mani del cieco destino di estranei interessi privati concorrenziali.

Perché allora non cambiare decisamente rotta e tornare a parlare di ripubblicizzazione del territorio, cioè un ritorno partecipativo dei cittadini nei processi deliberativi di gestione e controllo? Bisogna tornare a “sviluppare” non un territorio esclusivo ma un territorio inclusivo, città ricostruite intorno alle piazze, con luoghi d’incontro, conoscenza, convivenza. Un corpo territoriale che è l’incontro degli abitanti, che non somiglia nè ad un grande mercato, nè ad un polo logistico, nè ad una vetrina nè ad un logo, piuttosto ad una grande piazza da ricoltivare, riabitare, rivivere. La richiesta delle tante vertenze territoriali di una democrazia partecipata passa proprio di qui e non comporta la sostituzione programmatica della partecipazione alla delega rappresentativa: in una comunità sana questi due livelli funzionano insieme. Ma fin dove “la base viene costruita e non ascoltata” – per usare l’espressione del movimento No Dal Molin – non è strano vedere cittadini, abitanti e lavoratori informati che cercano di fare pressione affinché le istituzioni non finiscano nelle mani dei poteri finanziari dicendo magari a gran voce “no, qui la tangenziale non passa”. La logica dei “no” che accomuna i tanti fronti di opposizione che sul territorio sorgono in difesa della pace, della salute, dell’ambiente, della qualità della vita, è l’elementare presa di posizione, l’espressione di una volontà popolare nella maggior parte dei casi non consultata che non si rassegna a osservare passivamene il piano di non-sviluppo connesso alle strategie fallimentari del liberismo. Le molte vertenze partono da proprie urgenze locali ma lo fanno in nome di una visione alternativa del futuro del territorio che non è affatto localistica.

Si presenta quindi come urgente una crescita coordinata della mobilitazione dal basso, a partire dai territori, nella matura consapevolezza che le singole sfide fanno parte di uno scenario più vasto che, nel caso del territorio lombardo e più estesamente della megalopoli padana, oggi può essere concretamente rappresentato dalla sponda acceleratrice che l’Expo, fiore all’occhiello del modello morattiano e formigoniano, impone sulle nostre teste da qui ai prossimi anni e ben oltre il 2015, con la sua logica emergenziale che minaccia già leggi per l’attribuzione di fantomatici poteri speciali. Serve una capillare attività di comunicazione sui territori, per sensibilizzare chi ancora è disorientato o disinformato. La critica alle politiche liberiste, all’Expo, l’analisi della cornice più ampia non sostituisce ovviamente i discorsi che sono già stati portati avanti dalle tante vertenze: ogni porzione del territorio conosce meglio di ogni altra la propria situazione centrata su problematiche quanto mai reali. Tuttavia, diventa fondamentale condividere le informazioni e proseguire un percorso di mobilitazione coordinata fatto di incontri e iniziative comuni.

Un altro territorio lombardo, un’altra Val Padana è possibile, un altro modello che prevede la riconquista di spazi di partecipazione, la sospensione delle spese militari, il recupero di un piano di governo del territorio sano (magari a crescita zero come quello realizzato dal Comune di Cassinetta di Lugagnano), l’investimento produttivo, il riciclo e la raccolta differenziata insieme alla riduzione dei rifiuti, la valorizzazione del tessuto agricolo, filiere corte, mobilità sostenibile, diritto all’abitare, acqua, energia, salute e istruzione sottratte alle privatizzazioni: va tenuto fermo che tutto questo non passa dalla progettazione magari di “un altro Expo possibile”. Non si trattava semplicemente di criticare i contenuti di un determinato progetto ormai approvato. Si trattava di criticare il modello del grande evento in sè, con tutto ciò che concretamente comporta al di sotto del logo immaginifico di Leonardo. Ma se non è stato possibile partecipare alla fase progettuale, alla candidatura, se non sono state ascoltate le proposte “alternative” ai quartieri “avveniristici” nella città di Milano, se l’informazione continua a celebrare con armi di distrazione di massa l’illusione del grande evento progressivo e “opportuno” col suo fantasioso sviluppo, quale “avvenire” può avere la riproposizione di una nuova politica del compromesso, quale speranza possiamo nutrire di intervenire nel grande disegno della Disneyland formigoniana ora che l’assegnazione ha messo il turbo a scelte non rinegoziabili?

Anche le nostre rivendicazioni non sono rinegoziabili. E passano attraverso la capacità di mobilitazione dal basso dei territori partendo dalla coscienza critica della vertenzialità diffusa per invertire il prima possibile la rotta perché un altro modello non è più – ma forse non lo è mai stato – “un’opzione di stile”, un “suggerimento alternativo”, ma soltanto l’unica via d’uscita dal collasso. A maggior ragione sullo sfondo del recente disorientamento elettorale, si tratta dunque di portare avanti in continuità con quanto già fatto e con rinnovato vigore la nostra battaglia per un altro modello necessario, prima di tutto attraverso la mobilitazione di una matura coscienza critica dal basso. Una rete coordinata di movimenti resistenti è necessaria per incidere sul cambiamento e non è possibile realizzarla se non intensificando le relazioni già esistenti, incontrandosi, condividendo informazioni, aumentando il livello quantitativo e qualitativo delle mobilitazioni all’interno di un percorso condiviso, un pezzo di strada da percorrere assieme senza più esitazioni

Marco GimmelliAttac MilanoComitato NOEXPO

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