di Alberto Madricardo (Patto per Venezia consapevole)
Viviamo un tempo che richiede una grande sperimentalità e innovazione, quindi un confronto continuo e aperto sulle idee, sulle pratiche e sugli obiettivi. Le sfide sono gigantesche e senza precedenti nella storia dell’umanità: in un breve volger di anni (per numerosi esperti, solo alcune decine) ci giocheremo non solo la nostra civiltà, ma anche la sopravvivenza della nostra specie sulla Terra.
La fine del “paradigma del ‘900”
La nostra organizzazione economica e sociale, il nostro sistema di vita si sta rivelando insostenibile. Incompatibile con l’ambiente in cui si è prodotto. Viviamo in un tempo a termine, in un tempo escatologico, in una “fine dei tempi”, dopo quella vissuta in altro modo nella Tarda Antichità. Non solo perché, come allora, l’evoluzione dei rapporti sociali ci sta portando a un punto morto della nostra una civiltà per la nostra incapacità di mantenere l’equilibrio con l’ambiente di cui pure ci alimentiamo. Perché stiamo segando rapidamente il ramo su cui stiamo.
Convergono oggi diverse crisi: ambientale, della democrazia, della politica tradizionale. Di quello che io chiamo “il paradigma del ‘900”, fondato sull’asse “classe – partito – stato”. E’ in atto lo svuotamento e l’omologazione dei luoghi, l’atomizzazione e la passivizzazione delle masse, il predominio “dell’altrove sul qui”. Ciò che conferma in qualche modo la profezia di Nietzsche “un solo gregge, nessun pastore” nel senso di “una sola periferia, nessun centro”.
La globalizzazione ha provocato un cambiamento epocale, perché, aprendo i confini, ha comportato una rivoluzione dello spazio e del tempo: avvicinando tutto a tutto nello spazio, ha anche attualizzato tutto, nel senso che ha per così dire riassorbito il futuro nel presente, rendendo impossibile immaginare quest’ultimo in funzione di quello, come tempo dell’attesa e dei preparativi del futuro (Progresso, Sol dell’Avvenire, ecc.).
L’inversione del rapporto tradizionale tra presente e futuro, ha messo in crisi e resi ”residuali” (non irrilevanti) i tradizionali strumenti di organizzazione “verticale” di una politica, come quella novecentesca, legittimata dalla promessa di futuro. Viviamo in un tempo in cui il presente predomina su tutto. Il futuro non custodisce più dei fini, da realizzare gradualmente o attraverso un rovesciamento rivoluzionario, ma ha un ruolo essenzialmente funzionale all’indefinita espansione di un presente dalle dinamiche quantitativamente, ciecamente espansive.
Ciò rende questo tempo particolarmente indifferente, o ostile alle visioni prospettiche che cercano di dare un senso, un respiro al reale. A questo proposito vorrei segnalare un problema veramente grave: quello della condizione in cui si trova la teoria nella realtà di oggi.
Il pregiudizio antiteorico e la “superstizione del concreto”
La teoria oggi gode di scarsa fama nel dibattito pubblico: sembra che chi vi si dedica perda solo tempo in chiacchiere. In realtà secondo me in questa posizione si segnala uno degli aspetti più pericolosi della crisi che stiamo vivendo: la denigrazione della teoria, del suo ruolo nella realtà, ha degli effetti negativi sia sul pensiero che sulle pratiche collettive. Condanna alla miopia, alla mancanza di visione. Al “teorico” viene contrapposto continuamente “il concreto”, una parola magica che compare continuamente nei discorsi: rappresenterebbe la realtà da contrapporre alla chiacchiera, alle fumisterie teoriche. Spesso, chi si riempie la bocca di “concreto” non ha nemmeno un’idea chiara di ciò che questo termine veramente significa. Esso indica qualcosa di molto diverso da ciò che comunemente si ritiene: il nudo dato di fatto, subìto acriticamente. Concreto (cum – cretum), viceversa, letteralmente è ciò che è “cresciuto insieme”, cioè entro un contesto, che va perciò considerato entro di questo, nella sua visione d’insieme.
Per una sorta di sfiducia/timore nei confronti della visione (teoria letteralmente vuol dire questo), si è portati ad appiattirsi sullo stato di fatto, a enfatizzare un “fare” sbrigativo, a preferire soluzioni meramente reattive e quindi subalterne alle situazioni. Questo pregiudizio antiteorico, che può arrivare all’oscurantismo, è dannoso per l’azione e va confutato. Oltretutto è assurdo che rinunciamo, proprio in questo momento di crisi così profonda, senza precedenti nella storia dell’umanità, ad attingere alla teoria, al pensiero e all’esperienza di duemilacinquecento anni di storia dell’Occidente. Anche questo è effetto dell’introversione e ricaduta in un presente onnivoro che si dilata assorbendo in sé passato e futuro.
L’inversione del senso del tempo
Il tempo di oggi mi sembra essenzialmente performativo. Questo mi pare pare icasticamente anticipato in un’annotazione apparentemente enigmatica di Kafka: “La risposta striscia intorno alla domanda”. Per chiarirla, vi racconto quello che mi è capitato l’altra settimana. In un mio messaggio WhatsApp a un amico tedesco compariva la parola “Hochzeit”, che in tedesco vuol dire “matrimonio”. Un paio di giorni dopo mi è arrivata una mail di Amazon in cui, riportando esplicitamente la parola “Hochzeit”, mi si proponeva un set di oggetti matrimoniali. Sottolineo, non un WhatsApp, non un messaggio sullo stesso mezzo che avevo utilizzato io, ma – ciò che è più impressionante – una mail, un altro diverso mezzo di comunicazione. Dire che siamo spiati è dire poco. Oggi ogni nostro interesse, desiderio, vagheggiamento perfino, è registrato, messo in data base che elaborano il nostro profilo al punto di permettere a chi li detiene di anticipare non solo le nostre decisioni, ma i pensieri e le fantasie. Basta un’allusione a un presunto desiderio, che la sua soddisfazione – come nel mio caso – è già pronta. La risposta viene prima che la domanda sia stata formulata. In un certo senso la arresta in radice, prima che abbia il tempo di formularsi, di farsi comunicazione sociale. Che cos’è questa, se non manifestazione di una logica performativa di dominazione totale? Il tempo performativo è il tempo in cui le risposte anticipano le domande e chiudono loro la bocca. E’ con questa “performatività anticipante” che dobbiamo misurarci.
La prigione perfetta
Qual è la prigione perfetta? Non è il Panopticon di Jeremy Bentham, che dovrebbe consentire la totale visibilità del prigioniero: questo potrà approfittare prima o poi di qualche momento di disattenzione del sorvegliante. E’ quella di un qui senza altrove. Quella che non ha bisogno di muri e sbarre, che lascia totale libertà di movimento al prigioniero che però non ha una meta, un altrove verso cui evadere. Il “qui senza altrove” è il mondo disgregato in un’unica immensa periferia, essendo ogni centralità in via di estinzione. Se dalla prigione di un mondo ridotto interamente a periferia di se stesso non è possibile evadere, è però possibile invertirne il senso: trasformarla da spazio di marginalità in centro di relazioni. Ciò che gli esseri umani hanno in comune in questo tempo è, paradossalmente, la condizione d’isolamento e d’impotenza in cui vivono. Mettendole insieme, essi li dissolvono, li fanno svanire, come la prigione intorno a loro.
La città è in pericolo
Spazi di relazione per eccellenza, cuore pulsante della nostra civiltà sono le città. Oggi le città, da sempre spazi di libertà, di relazione, di memoria, di spessore storico, di varietà umana, di pensieri, di sperimentazione politica e sociale sono più che mai sotto attacco. Il loro ambiente umano viene saccheggiato e “snaturato” al pari dell’ambiente naturale: dalla gentrificazione, dalla speculazione, dal turismo massificato, dal decentramento delle attività direzionali, commerciali, logistiche, ecc.. Proprio perché è maggiormente attaccata e colpita, la città può essere il punto di resistenza e d’inversione della logica alienante della globalizzazione e lo spazio da cui far nascere la nuova politica.
Un caso tipico: Venezia
Della vicenda de “la città nel tempo della globalizzazione” Venezia è quello che si dice un caso da manuale. Tutto quanto accade nel mondo si manifesta in lei in modo estremo e limpido. Per più di due secoli “la città antimoderna” per eccellenza, simbolo retrivo di un’ottusa resistenza alla Modernità o una pittoresca e curiosa sopravvivenza del passato. Negli ultimi secoli si è ritenuto che i vantaggi derivanti dalla marcia del Progresso fossero superiori alle distruzioni delle particolarità – fisiche, biologiche, culturali – che in ogni parte del mondo esso produceva.
C’è stato così un tentativo secolare di cancellarne l’unicità e fare di Venezia una città moderna (nel senso di come le altre, normale). Mentre si cercava di “modernizzarla”, la difesa della sua unicità era lasciata alle anime romantiche. Con l’inizio della globalizzazione e, con essa della “tarda” o “postmodernità” a partire grosso modo dagli anni ’70, il tentativo di modernizzazione in senso industriale è stato abbandonato, in favore della rendita turistica. Questa opzione prevedeva e prevede il mantenimento dei caratteri fisici unici della città, che sono la ragione principale della sua attrattiva turistica, accompagnato però dallo svuotamento dei suoi abitanti, divenuti “superflui” per i grandi interessi, sempre meno locali, che vi hanno investito e vi investono.
Uno straordinario laboratorio
Quello che succede a Venezia succede ovunque: l’attacco alla città e i suoi effetti si possono toccare con mano a Barcellona, Parigi, Berlino ecc., ma qui tutto accade in modo anticipato ed estremo, tanto da costituire esempio paradigmatico, negativo, nel mondo. A fare di Venezia un caso di grande interesse contribuisce anche il fatto che, nonostante l’esiguità della popolazione residente rimasta, la città è percorsa da una vitalità associativa straordinaria. Essa è perciò in ogni senso un laboratorio di prima mano per comprendere non solo gli effetti della Modernità su uno dei contesti umani e ambientali più complessi, ma anche la crisi – il vicolo cieco – della Modernità in quanto tale. Venezia è simbolo, per questo noi cerchiamo di guardarla con la lente del mondo e, allo stesso tempo, ci riteniamo avvantaggiati dal poter guardare il mondo – i processi che vi accadono – con la lente di Venezia.
La scelta speculativa: una città – cosa
La decisione di destinare Venezia alla rendita turistica venne presa all’inizio degli anni ’70, in previsione del boom di questo settore che poi effettivamente si realizzò. Fu una decisione di ambienti esclusivi, senza una seria informazione e un vero coinvolgimento della cittadinanza.Per molto tempo, fino a pochi anni fa, del turismo sono stati esaltati gli aspetti positivi, mentre sono stati lasciati del tutto in ombra quelli negativi, per quanto non fosse difficile individuarli e prevederli, anche per i non addetti ai lavori. Così si sono preparate le condizioni per una città da usare per il turismo, non affinché si producesse un turismo per la città.
L’opzione della rendita, in particolare di quella turistica, è sempre sciagurata: premia l’inazione e le pratiche parassitarie, deprime le energie creative, dequalifica e penalizza il lavoro, disgrega e marginalizza il tessuto sociale, incrementa la speculazione, trasforma la città in cosa, in oggetto da vendere, la strumentalizza e saccheggia, concentra la ricchezza in poche mani. Insomma, attua un modello squilibrato, incompatibile dal punto di vista sociale e ambientale. Nessuna delle amministrazioni locali che si sono susseguite in questi quarant’anni ha avuto la visione culturale, il coraggio e la forza di mettere in discussione questo modello e di frenare gli interessi speculativi che hanno preso corpo in modo sempre più prepotente, anche quando era diventato platealmente evidente che essi agiscono non a favore, ma contro la città.
Rendita turistica e MoSE: due facce della stessa medaglia
Mentre si lasciava che la Venezia viva si svuotasse e anzi attivamente s’incoraggiava, anche da parte delle istituzioni, l’emorragia della popolazione per fare spazio all’inondazione turistica, ci si preoccupava di salvarla da quella dell’acqua, per la “città viva” non più pericolosa della prima.
Si sono investiti più di sei miliardi (uno e più andato in corruzione, come attestato dai magistrati inquirenti), sottraendoli ad altri possibili investimenti di rivitalizzazione della città, per un progetto, quello del MoSE, che ha sconvolto gli equilibri naturali e – come dicono gli esperti – non funzionerà mai o, se anche funzionasse, sarà reso obsoleto nel giro di alcuni decenni dal cambiamento climatico e dal conseguente innalzamento del livello del mare: un monumento al nulla, edificato da una Modernità giunta al suo capolinea. La realizzazione del MoSE ha accentuato il dilagare della corruzione e della sfrenatezza degli interessi, fino al crollo della classe dirigente e della politica locali. In seguito a ciò, senza ipocrisie, gli interessi più rapaci hanno assoggettato la città e la stanno portando alla rovina: Venezia ridotta a parco tematico che sta rapidamente dilapidando anche il capitale della sua immagine, Mestre città dormitorio al servizio del parco tematico: due periferie, nessun centro.
Al di là di queste vicende, le conseguenze disastrose della Modernità – di quella industrialista e nazionale e di quella finanziaria e globale – sono ormai ben evidenti a Venezia, nella sua laguna e nel suo hinterland: equilibri naturali sconvolti, inquinamento tra i più alti d’Europa, alluvione di un turismo sempre più dequalificato che distrugge il tessuto civile, economico e sociale della città, svuotamento della democrazia, atomizzazione e marginalizzazione dei cittadini sono un esempio del destino che è riservato all’intero pianeta, se non si cambia al più presto strada.
Tutti i nodi vengono al pettine insieme: la crisi catastrofica della Modernità
La Modernità nasce dall’idea del mondo infinito e da un’idea di libertà intesa come progetto di espansione illimitata dell’appropriazione umana del mondo. La sua crisi irreversibile ha la sua causa primaria nell’apparire di un limite ambientale sempre più cogente, che rende impossibile il suo indefinito proseguimento. In questo restringersi “finale” del tempo, in cui tutti i problemi, tutti i nodi vengono al pettine drammaticamente insieme, non è facile costruire una corretta visione prospettica. Finora abbiamo cambiato l’ambiente per adeguarlo alle nostre esigenze, ora dobbiamo adattarci ai suoi limiti, cambiarci noi, se vogliamo sopravvivere. In questa inedita complessità in cui tutte le urgenze si stringono e ci incalzano da ogni parte, dobbiamo realizzare una riconversione radicale del nostro sistema di vita. Tutto deve essere riconsiderato, riorientato, in un progetto di cittadinanza condiviso, verso un fine comune. Il fine generale della città non può essere che la qualità della relazione sociale che in essa si riproduce.
E’ ormai chiaro che, se l’organizzazione sociale umana è sempre stata plasmata dalla nostra subalternità nei confronti della natura, per garantire almeno a pochi la possibilità di vivere nella libertà dai vincoli naturali, ora che i rapporti di forza con essa sono complessivamente modificati – al punto che noi stessi siamo in grado di condizionare pesantemente la vita del pianeta – la nostra iniqua organizzazione sociale non ha più alcuna giustificazione esteriore. Al contrario, la nostra relazione sociale squilibrata ostacola o impedisce che i nostri comportamenti verso la realtà naturale siano adeguati al grado di responsabilità che la nostra nuova potenza ci impone di avere. C’è perciò un nesso inscindibile tra riequilibrio ambientale e riequilibrio sociale. Non sarà possibile realizzare l’uno senza l’altro.
Due tipi di relazione
La relazione è di per sé sempre performativa: non solo si forma sempre in un contesto sociale e ambientale, ma lo condiziona a sua volta. Le relazioni possono essere di due tipi: concorrenziali o sinergiche, decontestualizzanti o contestualizzanti. Le relazioni concorrenziali sono “decontestualizzanti” (anche la guerra è una relazione concorrenziale, anzi la prima). Perseguono il loro scopo, incuranti del contesto in cui si producono. Contribuiscono perciò alla disgregazione di esso. Ma poiché pur agendo come se fosse nel vuoto hanno bisogno di un contesto sociale e ambientale come il pesce dell’acqua, si tolgono l’aria da sé.
Quelle consapevoli di trovarsi in un contesto ambientale e sociale di cui hanno vitalmente bisogno, oltre che per le proprie finalità per cui sono costituite, operano per arricchirlo, per renderlo più equilibrato. Le relazioni di questo tipo, con il loro sviluppo reticolare, possono ricostituire quell’ambiente sociale e naturale che la globalizzazione “inconsapevole” distrugge. Rafforzando il sociale, riducono i margini di discrezionalità di una politica “verticale” che accresce la sua autonomia quanto più il sociale subisce la disgregazione. Fino a oggi abbiamo regolarmente esternalizzato la maggior parte delle conseguenze socialmente disgreganti e ambientalmente distruttive del nostro agire concorrenziale e “inconsapevole”, principalmente con la guerra e con l’estensione dello sfruttamento a nuovi territori ancora incontaminati. Ora però questo non è più possibile perché a causa della nostra potenza siamo arrivati al limite. Anzi, tutto ciò che abbiamo “gettato fuori” ci torna indietro, come un effetto boomerang.
Decontestualizzazione globale e ricontestualizzazione locale
La globalizzazione agisce come un gigantesco “decontestualizzatore”. Come ho detto, essa riduce tutto il mondo a periferia: lo aliena da se stesso. Conseguenza della dissoluzione dei luoghi e del sociale è il disorientamento, l’atomizzazione e la passivizzazione alienata degli individui. Ciò provoca i pericolosissimi contraccolpi di chiusura, la tentazione del ritorno alle “tane” che oggi si fanno sentire più o meno ovunque nel mondo. Rispetto a questo andamento delle cose noi non siamo necessariamente impotenti. Se gli atomi isolati si mettono in relazione sinergica tra loro, diventano polo di attrazione, centro. Se dove c’è relazione c’è centro, e dove c’è centro c’è potere, ne consegue che laddove c’è relazione c’è potere e che chi crea relazioni genera potere.
Questo semplice sillogismo dovrebbe essere ben chiaro nella mente della sinistra. Di una sinistra che è storicamente attaccata al mito, mille volte confutato dai fatti, della presa del potere. Il potere, in senso essenziale, non si chiede e non si prende: si crea o, quanto meno, si può condizionare, “intubare” in un tessuto sociale fortemente coeso. La creazione di senso (di contesti) è, insieme alla decisione, una delle due prerogative essenziali del potere. Con lo sviluppo di relazioni “orizzontali”, noi socializziamo – per così dire – la “metà” del potere: il sociale (l’orizzontale) di per sé non decide, ma condiziona tanto più il politico (la mediazione verticale degli interessi, che si concretizza nella decisione) quanto più è coeso.
La città consapevole: democrazia “immanente”
La città che non si rende strumento di interessi alieni – né si chiude nella tana “contro l’altro” – è la “città consapevole”. Essa non è un’idea da realizzare in futuro. In una qualche misura è sempre già presente, attuale, ovunque ci sia società. Ma la città consapevole si pone esplicitamente, consapevolmente, il fine della riqualificazione del sociale. Ha un progetto di cittadinanza orientato in questo senso. La “città consapevole” è una realtà performativa.
Consiste nello sviluppo del sociale che, per quanto possa essere disgregato, non scompare mai del tutto. La sua attuazione dipende meno dal potere delle istituzioni che dall’iniziativa dei suoi cittadini: più che unificare le domande, la città consapevole organizza le risposte. La risposta che dà è il sistema orizzontale delle relazioni da essa promosso, la sua capacità, non solo di fare circolare le idee e le esperienze, di produrre sinergie innovative tra diverse attività, ambiti e linguaggi, ma, anche, di condizionare fortemente la decisione politica. Per operare l’epocale riconversione, insieme ambientale, civile e sociale da cui dipende la nostra sopravvivenza, bisogna realizzare un livello senza precedenti di condivisione. Per questo è necessario che si sposti verso il basso il baricentro della democrazia, che questa si renda “più immanente” alla società civile.
“Il prisma dei linguaggi”
Alla mediazione “verticale” della politica novecentesca si affianca e in parte si sostituisce la rete orizzontale, intreccio di linguaggi, esperienze, connessioni, produzioni locali di senso e di contesti (la “rete pensante”). La nuova politica per guidare la grande riconversione ambientale e sociale avrà bisogno di intrecciare tutti i linguaggi della città, soprattutto quelli che promuovono direttamente la coesione sociale. Non siamo solo esseri razionali: la razionalità poggia su una zolla continentale subconscia o inconscia ben più larga e profonda. Nel sociale, il razionale, il prerazionale e l’irrazionale – logos e álogon – si confondono. Quindi, se si vuole ricostruire il sociale, bisogna utilizzare, prima ancora di quelli discorsivi, i linguaggi intuitivi performativi, come l’arte, il teatro, la musica, ecc.. Essi sono produttori non di discorsi, ma di senso, perciò sono fondativi della comunità.
I primi passi della “città consapevole” a Venezia
Come P.E.R. Venezia consapevole (ove P.E.R. è l’acronimo che sta per “Pensare – Elaborare – Rappresentare”), mentre siamo attenti a ciò che accade nel mondo per cogliere da esso ciò che può essere utile a Venezia, come ho detto viviamo i nostri problemi e le nostre esperienze qui, come se questa città fosse il mondo intero in miniatura. Un microcosmo i cui esperimenti possono avere valore non solo locale ma generale nella misura in cui riusciamo a tradurli in enunciazioni generali, a teorizzarli. Ecco perché: 1) abbiamo costituito un gruppo di ricerca teorica sulla città consapevole e 2) abbiamo creato la rete del “Teatro di cittadinanza”, cioè di un teatro inteso non come occasione di evasione, ma come specchio della città: della sua vita, dei suoi problemi, di come essi sono vissuti e interpretati, dai suoi cittadini e cittadine. Questi, nei laboratori convocati periodicamente su tematiche precise, sono gli ideatori, i produttori e gli attori delle rappresentazioni che mettono in scena la città. Del Teatro di cittadinanza esiste già un piccolo repertorio, più volte rappresentato in città, che speriamo verrà arricchito al più presto da altre pièces create con lo stesso metodo.
Stiamo sviluppando anche: 3) il progetto ARTeCITTA’, con lo stesso fine di creare una rete cittadina che promuova l’esperienza dell’arte (sia come attività creativa che come fruizione) come momento imprescindibile della realizzazione di sé, in quanto individui, dei cittadini. La ricchezza della propria vita interiore è condizione della possibilità di essere autentici soggetti sociali.
Insieme a numerose altre associazioni, abbiamo proposto: 4) un patto tra le forze vive (Il “Patto per la città consapevole”) che conduca Venezia fuori e oltre una Modernità cui essa, per la sua natura speciale, ha sempre resistito. Coerentemente con questi presupposti abbiamo proposto e in larga parte realizzato la creazione di quella che abbiamo chiamato: 5) “la piattaforma di cittadinanza”, ovvero l’embrione della struttura orizzontale della rete che dovrebbe costituire la base della nuova politica, per ora così articolata: una mailing comune che diffonde notizia delle iniziative sociali, politiche, culturali e sportive in funzione da alcuni anni, fruita ormai da diverse centinaia di associazioni e singoli cittadini; un calendario comune, che propone sinotticamente le iniziative cittadine del mese; una mappa condivisa degli spazi e dei luoghi disponibili per attività associative, al fine di creare un sistema logistico della città consapevole (in parte realizzata);una memoria comune della storia, dei saperi e delle esperienze della città.
Tutti questi linguaggi, e altri ancora (della scienza, dell’economia, ecc.) portati alla convergenza e all’incontro, dovrebbero sempre più intrecciarsi e dialogizzare tra loro e formare le sinapsi della “mente della città consapevole”.
La città può essere dunque il microcosmo che, in tempi che si fanno oscuri, fa da apripista esemplare a una convivenza umana che riesce a sporgersi positivamente oltre la Modernità. Non siamo nati ieri, abbiamo un’idea di quanto questo sarà difficile, ma ci stiamo provando. Anche perché un’alternativa a questa prospettiva non pare facilmente individuabile.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 40 di Maggio – Giugno 2019. “Una città per tutti“