Europa e crisi climatica: che fine ha fatto il Green Deal?

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di Paolo Cacciari  (giornalista, autore, attivista)

Nel breve arco di una legislatura il Green Deal ha attraversato i cieli d’Europa come una meteorite.  Ad oscurarlo sono stati prima il Covid, poi la guerra in Ucraina, quindi l’inflazione e la recessione economica, infine si sono messi di traverso pure i trattori!

Eppure sulla sostenibilità ambientale le cancellerie europee avevano costruito la loro immagine moderna e progressista mettendo in gioco il prestigio dell’“alleanza Ursula” tra conservatori, liberali, socialdemocratici e verdi. La retorica delle “future generazioni” e della “lotta al cambiamento climatico” ha contrassegnato l’“ambizioso” discorso pubblico della Commissione europea fin dal momento del suo insediamento[i]. La “transizione ecologica” veniva indicata anche come leva per superare le austere dottrine neoliberiste (in auge interrottamente da trent’anni, dal Trattato di Maastricht) a favore della riscoperta dei criteri keynesiani declinati in chiave green.

La “crescita verde”, l’“economia circolare”, il decoupling (la teoria della dissociazione tra aumento del Pil e impatti sull’ambiente), l’efficientamento e la de-carbonizzazione energetica, gli standard ESG (Environment and Social Governance) certificati da una severa “tassonomia” applicata a monte sugli investimenti, l’ETS (Emission Trading System, nient’altro che l’invenzione di un mercato delle autorizzazione all’emissione di gas climalteranti), le tasse ecologiche imposte anche all’importazione delle merci, lo Zero Net Land Take… ed altri complicati stratagemmi tecnocratici avrebbero posto l’Europa alla guida di un cambiamento epocale, morale ed anche tecnologico, costringendo i recalcitranti Stati Uniti (Trump si era ritirato dall’Accordo di Parigi) e Cina (penosamente soffocata dai gas di scarico) a seguirla verso un mondo più pulito e persino più giusto: “nessuno sarà lasciato indietro” – in Europa, perlomeno.

Insomma, l’European Green Deal (proposto da Ursula von der Leyen nel novembre del 2019) si presentava come un vasto programma capace di implementare le politiche europee in ogni settore economico attraverso una impressionante serie di normative, direttive e regolamenti: Regolamento sulla Tassonomia degli investimenti (2020), Legge sul clima (2021), Next Generation Eu (2021), Farm to Fork Strategy (2022), Fit for 55 (2022), REPower Eu (2022), Carbon Border Adjustment Mechanism (2023), direttiva sulla estensione dell’applicazione a tutte le società quotate della Corporate Sustainability Reporting Directive (2022), Nature Restoration Law (2023), Sustainablity Due Diligence Directive (2024). Inutile ricordare che molti di questi provvedimenti, alla fine di estenuanti trattative tra Parlamento, Commissione, Consiglio e stati nazionali si sono via via svuotati di contenuti o arenati del tutto.

Tra gli ultimi clamorosi voltafaccia c’è il ritiro della proposta di regolamento Sur (Sustanainable Use Regulation), in applicazione della strategia Farm to Fork, “dalla fattoria alla forchetta”, lungo tutta la filiera per realizzare un sistema agroalimentare “giusto, sano e rispettoso dell’ambiente”. Il suo obiettivo concreto era dimezzare l’uso dei fitofarmaci e pesticidi chimici più pericolosi entro il 2030. Agnello sacrificale offerto per chetare i bollenti spiriti degli agricoltori scesi nelle strade di mezza Europa con i loro potenti trattori diesel. Peccato che la proposta di regolamento fosse già stata respinta dal Parlamento europeo nel novembre dello scorso anno, ben prima delle proteste, sotto il tiro incrociato dei verdi che giudicavano la proposta troppo debole, e del Partito popolare con le destre perché, al contrario, ritenuta troppo limitante per le attività delle grandi imprese dell’industria agrochimica.

Come ci spiegano da tempo la Confédération Paysanne, Via Campesina e le varie reti dei contadini biologici, l’agroindustria megaintensiva, sintetica, digitale, “di precisione”, biotecnologica…  non va d’accordo con la preservazione dei cicli vitali del suolo.

Altro recente colpo inferto al Green Deal è l’affossamento della Corporate Sustainable Due Diligence Directive (CSDDD) proposta dalla Commissione nel 2022 per mano dei governi della Germania (Grünen compresi!) e dell’Italia (sotto dettatura di Confindustria).  Definita come un provvedimento cruciale per la transizione delle imprese verso la sostenibilità, la legge prevedeva l’introduzione – molto graduale e soft – di obblighi sul rispetto dei diritti umani e della tutela dell’ambiente per le imprese che operano nella UE a cui dovrebbe essere chiesto di rendere pubbliche le performance ambientali attraverso un Corporate Sustainability Reporting, già in vigore per le grandi imprese, in linea con gli impegni dell’Accordo di Parigi sulla lotta al cambiamento climatico.

L’assalto forse più grave ai capisaldi della conservazione degli habitat naturali e della biodiversità sta avvenendo ai danni del regolamento sulla Nature Restoration Law, che si propone di ripristinare almeno il 20% delle aree degradate terrestre e marine entro il 2030; il 60% entro il 2040 e il 90% di queste entro il 2050. Ciò a fronte di una situazione esistente che, secondo recenti stime, indica che l’80% degli habitat naturali versano in cattive condizioni, il 10% delle specie di api e farfalle rischiano l’estinzione, il 70% dei suoli sono in condizioni insalubri.

Il NRL avrebbe dovuto essere adottato dal Parlamento e dal Consiglio Europeo già lo scorso anno. I suoi principali obiettivi sono:

  • incrementare gli spazi verdi urbani;
  • recuperare la continuità naturale dei fiumi rimuovendo o adattando sbarramenti, dighe e barriere;
  • invertire il declino delle popolazioni di insetti impollinatori;
  • imporre una diversa gestione degli ecosistemi agricoli con caratteristiche paesaggistiche a elevata diversità (presenza di siepi, alberature, filari ecc…);
  • riumidificare torbiere e zone bonificate, tenendo conto del loro ruolo chiave naturale nello stoccaggio di CO2;
  • migliorare la biodiversità delle foreste e piantare almeno tre miliardi di alberi aggiuntivi entro il 2030.

Sulla base di questo regolamento comunitario ogni stato membro dovrà poi elaborare dei piani nazionali per il ripristino degli ambienti naturali e monitorare i miglioramenti ottenuti attraverso indicatori che utilizzano idonee specie “sentinella” (farfalle, uccelli ecc…). C’è da aspettarsi che anche questo importantissimo provvedimento non trovi degna conclusione prima delle elezioni di giugno.

L’elenco completo dei colpi di maglio inferti al Green Deal è ancora lungo: marcia indietro sullo stop dei motori termici alimentati a benzina e diesel entro il 2035; opposizione al regolamento sugli imballaggi; opposizione alla direttiva sulle “case green”; la proroga all’uso del glifosato.

Il tutto avviene mentre anche il principale obiettivo della transizione ecologica, l’abbattimento delle emissioni dirette e indirette di gas climalteranti, rimane lontano dalla road map stabilita.

Nonostante i toni trionfalistici da primi della classe usati dai commissari europei e i trucchi contabili (il mancato conteggio delle emissioni prodotte nella produzione e nel trasporto delle merci importate e consumate nella UE) i target rimangono distanti da raggiungere. Le performance ambientali sarebbero ancora peggiori se dovessimo assumere come punto di riferimento i nuovi indicatori di sostenibilità elaborati dalle Nazioni Unite, l’Authentic Sustainability Assessment, che fanno riferimento all’insieme dei cosiddetti “planetary boundaries”, le soglie di sostenibilità delle risorse vitali del pianeta, come il consumo di acqua, la perdita di biodiversità, la qualità dell’aria.

A fronte del divario esistente tra obiettivi annunciati e risultati ottenuti bisogna quindi chiedersi apertamente e con animo sincero quali sono i motivi per cui il Green Deal europeo sta trovando così pesanti ripensamenti e conseguenti battute d’arresto.

La prima spiegazione che il versante ambientalista tende a darsi è che le lobby fossili sono ancora troppo potenti e hanno a disposizione così tanti “mezzi di persuasione” (come si è visto nella gestione delle COP sul clima) da poter influenzare le politiche energetiche dei governi e sorreggere le oligarchie petrolifere nel mondo, Russia compresa. Le grandi compagnie petrolifere posseggono ancora ingenti riserve da sfruttare e infrastrutture non del tutto ammortizzate. Insomma, siamo in presenza di un’inerzia che ritarda e impedisce la transizione energetica.

Secondo altre interpretazioni, i modi di produzione industriali e l’intero modello sociale capitalistico è incardinato sul fossile, ossia sull’energia concentrata e ad alto rendimento termico. Chiedere di uscire dal fossile, decarbonizzare l’economia, significherebbe suicidare il capitalismo. Quantomeno, si creerebbe una difficoltà alla base della creazione del valore, del profitto, dell’accumulazione e della riproduzione sociale, quindi si aprirebbe un varco nel sistema che regola i rapporti di potere tra chi detiene i mezzi di produzione e il resto delle popolazioni della Terra. Il cambio di tecnologia dal fossile al solare (produzione di energia rinnovabile e decentrata) permetterebbe un affrancamento delle popolazioni e una potenziale rivoluzione democratica nelle mani delle comunità insediate nei territori (sovranità energetica, alimentare, uso delle risorse naturali, ecc.). Rischi questi, che i poteri costituiti non intendono correre.

Secondo queste analisi, nell’uno o nell’altro caso, saremmo di fronte ai colpi di coda di un sistema che non vuole rassegnarsi al nuovo (il “morto” gramsciano che impedisce il sorgere della nuova società). A me sembra, però, che si tratti di spiegazioni quantomeno parziali e non utili alla mobilitazione, perché – in fin dei conti – consolatorie (la forza dell’avversario sarebbe ancora troppo grande per poter noi sperare di poterlo abbattere) e, allo stesso tempo, paradossalmente, ottimistiche: comunque l’avversario è destinato a perire. Ma il nostro problema politico è realizzare il trapasso del sistema capitalistico il più presto possibile e senza che questo trascini con sé ulteriori disastri e vittime.

Dovremmo allora riuscire a fornire una spiegazione utile alla comprensione dei fallimenti delle risposte fin qui date dalla Ue alla crisi ecologica e sociale in corso al fine di mobilitare soggetti sociali in carne ed ossa interessati alla costruzione di una alternativa di sistema.

A me sembra che le ragioni dei fallimenti del Green Deal possano essere riassunti in due punti.

Primo, vi è una generale sottovalutazione degli effetti profondi che potrebbe generare una vera transizione ecologica sull’insieme della società. Il “trasferimento” da un sistema energetico ad un altro deve comportare il cambiamento dell’insieme dell’organizzazione della società (tempi e modi di lavoro e di vita) pena la perdita di efficacia. Detto in un altro modo: se i benefici del nuovo modo di ricavare energia e, in generale, di interagire con la natura (Metabolismo sociale) non vengono distribuiti equamente e indirizzati a fini condivisi, allora smettono di essere desiderabili. Peggio, se i governanti di turno usano cinicamente la transizione ecologica come grimaldello per acuire le disparità sociali, allora il fallimento è assicurato. In altri termini ancora: giustizia ambientale e sociale sono due facce della stessa medaglia.

Secondo errore commesso dalle tecnocrazie europee: pensare di poter raggiungere un minor impatto delle attività umane utilizzando i vecchi strumenti e meccanismi di mercato. Provate voi ad aprire una bottiglia con un martello! C’è una contraddizione insolubile tra la logica di mercato e l’accettazione dei limiti biogeofisici del pianeta. Il modello dell’impresa capitalistica è incapace di autoregolare la propria espansione, è concepito per competere, produrre profitti e accumulare denaro. Non per altro. Pensare che il raggiungimento della sostenibilità ambientale possa diventare economicamente conveniente per i bilanci aziendali si è rivelato un inganno.

L’Europa del primato del mercato, dell’ortodossia liberista, della libera concorrenza, del capitale non è compatibile con una società ecologica.

[i]  “Il cambiamento climatico e il degrado ambientale sono una minaccia esistenziale per l’Europa e per il mondo. Per superare queste sfide, il Green Deal europeo trasformerà l’UE in un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva, garantendo nessuna emissione netta di gas a effetto serra entro il 2050, crescita economica disaccoppiata dall’uso delle risorse, nessuna persona e nessun luogo lasciati indietro”.  European Commission. The European Green Deal – Striving to be the first climate-neutral continent

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 52 di Febbraio-Marzo 2024: “Europa: a che punto è la notte?

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