Europa-Africa: nuove parole, vecchio colonialismo

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di Marco Bersani (Attac Italia)

Eurafrica: il peccato originale dell’integrazione europea

Non si possono analizzare le relazioni tra Unione Europea e Africa senza partire da un dato: il colonialismo è uno dei pilastri del processo di integrazione europea. E il concetto di Eurafrica lo sintetizza in modo lampante.

Con questo termine ci si riferisce ad un progetto di integrazione strategica tra i Paesi europei e quelli africani, ideato negli anni ’20 del secolo scorso dal pioniere dell’idea di Europa unita Richard Coudenhove-Kalergi e tornato in voga subito dopo la seconda guerra mondiale.

Si trattava di un progetto economico che vedeva l’Africa come un’appendice del Vecchio Continente da cui trarre preziose e abbondanti materie prime e si trattava di un progetto politico, ovvero del tentativo dell’Europa di costituire, nel pieno della Guerra Fredda e della spartizione del pianeta in zone di influenza tra Usa e Urss, un terzo polo geopolitico.

Contrariamente alla narrazione dominante, che tende a presentare la nascita dell’Unione Europea come una “immacolata concezione” tesa unicamente alla pace, concordia e prosperità fra i popoli, ai tempi dell’integrazione europea quattro dei sei paesi fondatori – Francia, Belgio, Paesi Bassi e Italia- avevano ancora possedimenti coloniali in Africa e, non a caso, la parte IV del Trattato di Roma, firmato nel 1957, prevedeva l’associazione al mercato unico dei ‘territori d’oltremare’ sotto il controllo di Paesi europei. Oltre a specificare le modalità di associazione, il trattato istituiva un Fondo europeo di sviluppo, volto all’erogazione di aiuti tecnici e finanziari a questi Paesi.

Nonostante l’enfasi sullo sviluppo reciproco dei due continenti, il concetto di Eurafrica racchiude le tipiche dinamiche di un rapporto coloniale, sia per la divisione fra un centro (l’Europa) che guida una periferia (l’Africa), sia per l’idea “modernizzatrice” che vede l’Europa come l’approdo per un’entità politica e per una popolazione -quella africana- arretrata e immatura; sia infine con l’idea, più marcatamente razzista, che spiega il concetto di Eurafrica come un’entità di cui “l’Europa è la testa e l’Africa il corpo”.

Questa genesi va ricordata perché altrimenti si rischia di attribuire -come fa la narrazione dominante- il colonialismo solo ai nazionalismi e alle singole politiche degli Stati Nazione, finalmente superati dall’arrivo dell’integrazione europea.

Piano Mattei: il nuovo colonialismo

“Il nostro approccio ai paesi africani non sarà predatorio, né paternalistico, né caritatevole”. Così ha esordito la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nell’avvio del vertice Italia-Africa, che ha lanciato nello scorso mese di gennaio il cosiddetto “Piano Mattei”.

Già chiamare un piano per l’Africa con il nome di un ingegnere italiano la dice lunga sul processo culturale che lo sottende, così come definirlo attraverso tre negazioni proietta il nostro governo nella dimensione dell’“excusatio non petita, accusatio manifesta”.

Un piano che, ancorché italiano, rivela nei suoi obiettivi la doppia visione coloniale che ancora impregna l’Europa nei confronti dell’Africa: da una parte si vaneggia di crescita sostenibile per il continente africano, dall’altra ci si prefigge di fermare la migrazione verso l’Europa.
Come ha ben spiegato l’AD di ENI Paolo Scaroni, si tratta di un nuovo processo di sfruttamento, ben riassunto nella frase “L’Europa è un grande mercato ma senza energia, l’Africa non è un mercato ma un enorme deposito di materie prime”.

Vale qui la pena ricordare di cosa stiamo parlando: l’Africa ospita il 30% delle riserve minerarie del mondo, e, nello specifico, i due terzi delle riserve di cobalto (Repubblica Democratica del Congo primo produttore); il 10% delle riserve di rame (Zambia); il 30% delle riserve di litio (Repubblica Democratica del Congo e Zimbabwe); il 15% delle terre rare (Repubblica Democratica del Congo); il 95% del cromo (Sudafrica); il 20% della grafite (Madagascar, Mozambico e Tanzania); il 30% del manganese (Sudafrica e Gabon); l’80% del platino (Sudafrica).

Come un nuovo processo predatorio finalizzato all’espropriazione di queste materie prime, naturalmente dedicato all’innovazione “green” del Vecchio Continente, possa rappresentare una crescita sostenibile per l’Africa e, soprattutto, fermare la migrazione, resta avvolto nel mistero.

Un continente strangolato dal debito

Il 2024 si è aperto con il default dell’Etiopia, il cui governo ha dichiarato, poco prima di Natale, di non poter pagare la rata di 33 milioni di dollari ai fondi pensione e altri creditori del settore privato che detenevano il relativo bond. Il fallimento dell’Etiopia è il terzo registrato nel continente dopo la pandemia; nel novembre 2020 aveva aperto le danze lo Zambia, seguito nel dicembre 2022 dal Ghana.

A far precipitare la situazione hanno contribuito sia gli strascichi della crisi del Covid-19, con ampliamento del deficit di bilancio e rallentamento della crescita economica, sia il rialzo dei tassi di interesse deciso dalla Federal Reserve degli Stati Uniti, che ha avuto effetti devastanti sui debiti esteri denominati nel biglietto verde.

Come è facilmente intuibile, non si tratta di casi isolati ma di una situazione che riguarda l’intero continente: secondo i dati della Banca Mondiale, la percentuale di paesi africani ad alto rischio o già in situazione debitoria è passata dal 27% nel 2015 al 55% nel giugno 2023, mentre il peso del debito dei paesi dell’Africa subsahariana, ovvero le somme destinate al pagamento degli interessi, è passato dai 59 miliardi del 2012 ai 109 miliardi attuali.

A questo quadro, va aggiunto il cambiamento nella composizione del debito, che ha visto una netta diminuzione della quota dei prestiti cosiddetti “agevolati” previsti dagli “aiuti pubblici allo sviluppo” e un aumento esponenziale dei prestiti bilaterali contratti da creditori privati. Rendendo il quadro ancor più vulnerabile: sempre seguendo i dati della Banca Mondiale, il costo degli interessi sul debito dell’intera regione ha raggiunto nel 2022 il 31% delle entrate ed è già prevedibile un ulteriore balzo in avanti nel prossimo biennio.

Facile prevedere cosa significhino questi dati in merito alle possibilità di investimento sui diritti delle popolazioni: la spesa pubblica media per l’istruzione nell’intero continente è stata nell’ultimo decennio pari al 3,6% del Pil e quella sanitaria non ha raggiunto l’1,8%.

La crisi climatica

Le contraddizioni del cambiamento climatico sono ormai una realtà nota: i paesi che storicamente hanno contribuito meno alle emissioni globali sono tra quelli più colpiti dalle loro conseguenze. Un semplice confronto ci dice che nel nord America la produzione annua pro capite di CO2 è pari a 10,3 tonnellate, in Oceania a 10, in Europa a 7,1, in Asia a 4,6 per arrivare a uno striminzito 1 nell’intero continente africano.

Nonostante ciò, è l’Africa il continente che sta maggiormente subendo i danni del cambiamento climatico, a partire dal tasso di riscaldamento che, negli ultimi venti anni, in Africa è stato pari a 0,3 gradi Celsius per decennio, contro una media globale di 0,2.

Per fermarci al solo anno 2022, sono 110 milioni le persone in Africa che sono state direttamente colpite dai rischi legati al clima e all’acqua, mentre i disastri naturali hanno causato danni economici per oltre 8,5 miliardi di dollari. Il cambiamento climatico ha avuto un impatto negativo sull’agricoltura, che è la principale fonte di sostentamento e delle economie nazionali in Africa: la produttività agricola è diminuita del 34% dal 1961 e si prevede che le importazioni alimentari annuali da parte dei paesi africani triplicheranno fino a raggiungere i 110 miliardi di dollari entro il 2025. Secondo l’African climate policy center della Commissione economica per l’Africa delle Nazioni Unite, i costi delle perdite e dei danni dovuti al cambiamento climatico in Africa dovrebbero essere compresi tra 290 e 440 miliardi di dollari, a seconda del grado di riscaldamento globale del pianeta.

 

Annullare il debito per avere un futuro

Dato il quadro sopra descritto, risulta inevitabile opporsi a qualsiasi piano per l’Africa che non sia autoprodotto dalle comunità locali e dalla società civile africana. E ogni nuovo piano accettabile dovrà basarsi sul principio della giustizia climatica e sociale, della quale l’Africa ha un diritto sancito da secoli di colonialismo.

Per andare in quella direzione, diventa dirimente l’annullamento del debito. Vale qui la pena riportare le parole pronunciate il 29 luglio 1987 da Thomas Sankara, rivoluzionario e presidente del Burkina Faso, al vertice dell’Organizzazione dell’Unità Africana ad Addis Abeba, in Etiopia: “Il debito non può essere rimborsato, innanzitutto perché se non lo rimborsiamo, i prestatori non moriranno. Questo è certo. Ma se ripaghiamo, saremo noi a morire. Anche questo è certo. Chi ci ha portato all’indebitamento ha giocato d’azzardo come in un casinò. Finché hanno avuto guadagni, non c’è stato dibattito. Ma ora che subiscono delle perdite, chiedono il rimborso. E parliamo di crisi. No, signor presidente, hanno giocato, hanno perso, questa è la regola del gioco e la vita continua.”.

Il discorso di Sankara si concludeva con un fosco presagio: “Se il Burkina Faso è il solo a rifiutarsi di pagare, io non sarò più qui per la prossima conferenza” e, infatti, fu assassinato tre mesi dopo da un complotto interno, sostenuto da Francia, Usa e Libia.

Sono passati 40 anni, ma se l’Africa non imbocca il sentiero tracciato da Sankara, ogni nuovo piano globale sarà un passo avanti verso il baratro.

Foto: “Thomas Isidore Sankara” di JonaRasTarzan per DeviantArt (CC BY-NC-ND 3.0 DEED)

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 52 di Febbraio-Marzo 2024: “Europa: a che punto è la notte?

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