di Marco Noris
Nelle sue brevi considerazioni in merito all’esito elettorale delle ultime elezioni regionali, Marco Bersani fotografa meglio di molti e in maniera sintetica la situazione sottolineandone, tra le altre cose, i suoi elementi negativi.*
In primo luogo evidenzia, in relazione al risultato dell’Emilia Romagna, come in realtà ci si sia infilati in una coazione a ripetere gesti ed errori che, nel lungo periodo non potranno certamente cambiare le cose, semmai potranno aggravare la situazione attuale. Con riferimento al comportamento del criceto in gabbia, Marco Bersani testualmente afferma: “la gente vota Pd per non far vincere le destre; poi il Pd realizza politiche liberiste che rafforzano le destre e rischiano di vincere; allora la gente vota Pd per non far vincere le destre, e vai sulla ruota”. Il secondo elemento negativo che vale la pena evidenziare sta in conclusione delle considerazioni stesse: “fino a che non si producono – anche in questo Paese – mobilitazioni sociali degne di nota, questo è il teatrino della politica cui tocca assistere”. È da ritenere implicita la considerazione in merito all’ininfluenza e la scomparsa di una sinistra degna di questo nome, ridotta già ad una dimensione clanica ma che ha saputo mostrarsi all’appuntamento elettorale divisa in ulteriori sottogruppi famigliari di dimensioni numeriche ancor più ridotte.
Su questi argomenti si è comunque scritto molto e si continuerà a farlo ma quello che sarebbe interessante scoprire è se ci possa essere un qualcosa che funga da comune denominatore all’analisi di un triplice fenomeno al quale stiamo assistendo in questo Paese in maniera più radicale rispetto alle altre realtà dell’Occidente: l’avanzata delle destre, l’inconsistenza e l’inadeguatezza al momento storico della sinistra e dei movimenti in generale e… l’etologia del criceto.
Per provare a dare, se non una spiegazione, perlomeno un’interpretazione plausibile bisogna però partire da lontano.
Bhaskar Sunkara è nato nel 1989, è fondatore ed editor di “Jacobin”, rivista che negli USA è stata lanciata addirittura nel 2010, ed è una delle menti più brillanti che la sinistra occidentale abbia prodotto da molto tempo a questa parte. Un paio di anni fa scrisse “The Socialist Manifesto. The case for radical politics in a era of extreme inequality” tradotto recentemente in Italia per Laterza.
È abbastanza sorprendente scoprire che per la chiusura dell’intero lavoro, nell’ultima pagina del libro questo giovane (giovanissimo per gli standard italici) intellettuale americano citi “il sarto di Ulm” di Lucio Magri e Pietro Ingrao in merito al dibattito attorno alla fine del PCI nel 1991.
Allo stesso modo sono personalmente rimasto sorpreso di sentirmi citare alcuni anni fa lo stesso Ingrao da un profugo Saharawi nel deserto algerino, oppure, l’importanza dello studio di Gramsci nelle scuole superiori da parte di un coltivatore di caffè del Kerala.
A prescindere da ogni valutazione di carattere politico è fuor di dubbio che l’Italia non fu semplicemente la patria del più grande partito comunista occidentale, bensì un laboratorio di pensiero che se non arrivò mai a raggiungere il potere politico e la piena egemonia culturale nel Paese fu per un certo periodo un riferimento a livello internazionale maggiore di quanto non pensiamo, e questa rilevanza perdura ancora oggi nel mondo.
Con l’ovvia eccezione della Germania, il grande cambiamento del periodo 1989-1991 ha forse inciso nel nostro Paese in misura maggiore rispetto a tutti gli altri Paesi dell’Europa occidentale. In questo senso sarebbe molto riduttivo pensare a quel periodo come semplicemente connesso con la fine di un soggetto politico come il PCI, fu qualcosa di molto più profondo e, in una certa misura devastante in termini culturali. Abbiamo assistito in Italia, per tutti gli anni ’90, ad un’operazione di vera e propria destrutturazione di un’intera cultura; operazione che già aveva mosso i suoi primi passi nel decennio precedente. Si può tranquillamente affermare la portata storica di questo processo.
Per abbattere, però, una cultura non basta eliminare uno o più soggetti politici ma bisognava operare più in profondità, nella cultura che insiste e persiste a prescindere dai cambiamenti, bisognava agire andando a sabotare gli elementi cardine della sua psicologia sociale e dell’identità collettiva. La Terza via socialdemocratica svolse una buona parte di questo compito: non era certamente la destra a poterlo fare e neppure i classici nemici di classe: due soggetti che a sinistra non potevano neppure avere ascolto. Il tarlo dell’inevitabilità del cambiamento doveva insinuarsi dall’interno.
La resistenza culturale a questo cambiamento, però, fu forte così come erano forti e sedimentate le basi di quella cultura, capace di trasformarsi e muoversi anche su altri piani, in altri ambiti e con un nuovo protagonismo. Dalla nascita del movimento altermondialista l’Italia svolse un ruolo di primo piano, raggiungendo il culmine nelle mobilitazioni di Genova nel 2001 e nella manifestazione contro la guerra del Golfo nel 2003. Sappiamo come andò a finire a Genova in termini repressivi così come sappiamo l’indifferenza mostrata dal potere nei confronti di milioni di persone scese in piazza contro la guerra. Quest’ultimo fu l’avvenimento forse più importante per chiudere un ciclo di un buona dozzina di anni nel quali ci si era sforzati di dimostrare che, a dispetto di ogni prospettiva da “fine della storia”, un altro mondo era possibile. La crisi del 2007-2008 fece il resto e la sua cronicizzazione certificò in maniera definitiva che un altro mondo NON era possibile.
Se abbiamo ben presente questo percorso storico, allora riusciamo ad individuare quale sia il reale problema del criceto: il problema non sta nella ruota bensì nella gabbia. La gabbia delimita il mondo delle possibilità reali nel quale si svolge la vita dei criceti tanto a livello individuale, quanto collettivo. La gabbia è l’unico mondo possibile e le reazioni dei criceti non devono sorprendere perché sono coerenti con questa loro condizione. Se è stata eliminata dal loro orizzonte una possibile diversa visione e concezione del mondo non può stupire se una parte di loro continua a votare proprio quelle forze di centro sinistra che sono i principali responsabili dell’opera di demolizione di qualsiasi pensiero di reale alternativa sociale. Non deve stupire neppure che un’altra parte di loro difenda a denti stretti la gabbia, l’unico ambiente nel quale riconoscono la possibilità di sopravvivenza perché qualsiasi altro soggetto proveniente dall’esterno in quella gabbia viene visto come l’invasore, colui che ruba spazio e cibo, quegli elementi tanto fondamentali per la sopravvivenza quanto limitati. Non deve infine neppure stupire la mancanza delle mobilitazioni sociali perché nella gabbia sono perfettamente inutili. Quest’ultima considerazione è solo apparentemente banale: è difficile pensare che possano sorgere mobilitazioni sociali in grado di rompere la gabbia in assenza di una ri-costruzione culturale a monte che consenta di capire come fare. I nessi di causa effetto, in questo caso, si invertono. In un certo senso le Sardine sono la dimostrazione di questo stato di cose: svolgono un ruolo che soddisfa la naturale volontà di mobilitazione ma, d’accordo con Marco Schiaffino, le Sardine sono un non-soggetto politico o al massimo un soggetto di opinione. Vero è che sono state capaci di mobilitare decine di migliaia di persone ma questo non fa altro che confermare tutto quanto detto prima e sottolineare quanto la cultura dell’impossibilità di un’alternativa di sistema sia radicata nel profondo delle coscienze degli italiani: le Sardine hanno un successo di massa proprio perché non propongono un cambiamento che appare irrealizzabile, ma si muovono all’interno di uno status quo che rimane l’unico campo nel quale giocare. La forza delle Sardine in Italia sta quindi nel loro non voler essere assolutamente anti-sistemiche, anzi una proposta più radicale, in Italia di questi tempi, non sarebbe riuscita a radunare nelle piazze tutte quelle persone. Potremmo dire, ironicamente, che se la forza elettorale dei criceti sta nell’accettazione della loro gabbia, quella delle sardine sta nella coscienza del poter agire solo nella loro scatola.
La rottura di questo stato di cose diviene necessaria: dobbiamo essere però coscienti che la demolizione culturale in Italia è durata più di trent’anni e che è all’opera ancora oggi. Ancora oggi un “altro” pensiero, un pensiero che sia socialmente di “sinistra” è ancora considerato il principale nemico da combattere con tutti i mezzi politici, d’informazione e culturali a disposizione. Purtroppo non abbiamo lo stesso tempo da dedicare alla ricostruzione né per combattere e sconfiggere culturalmente la destra né per salvare il pianeta: gli argini creati da criceti e sardine sono effimeri e durano, appunto, il momento di un’elezione, sono argini studiati per contenere una piena momentanea, non un diluvio perenne destinato a cambiare la fisionomia del mondo. Abbiamo bisogno di ben altro e, purtroppo, ne abbiamo bisogno in tempi brevi. Per quanto difficile possa apparire dobbiamo trovare il modo di rompere la gabbia: qualsiasi criceto, per quanto stupido, dopo qualche tentennamento se ne andrà libero lasciando la ruota al suo inutile destino.
*Marco Bersani ha scritto alcune brevi considerazioni in merito all’esito delle elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria:
- a) sul voto in Emilia Romagna, il dato positivo è che l’avanzata, che sembrava incontenibile, della destra fascio-leghista è stata fermata. Ancora una volta il merito è molto di Salvini stesso, che non riesce proprio a non esagerare e quindi a provocarsi le sconfitte (l’uscita razzista del citofono è stata emblematica del boomerang). Ma sul voto ha pesato decisivamente la mobilitazione delle sardine che, ponendo l’argine dell’antirazzismo, hanno chiamato al voto “utile” parte dell’astensionismo e dell’elettorato 5stelle;
- b) l’elemento negativo del voto in Emilia Romagna è che ancora una volta, invece che sardine, si diventa criceti: la gente vota Pd per non far vincere le destre; poi il Pd realizza politiche liberiste che rafforzano le destre e rischiano di vincere; allora la gente vota Pd per non far vincere le destre, e vai sulla ruota. Anche il movimento delle sardine, non va oltre questo passaggio, identificandosi nell’elettore saggio che respinge i fascio-leghisti, senza porsi il problema del come mai le persone siano disperate e, in mancanza di una risposta collettiva alla rabbia, assumano la risposta individuale del rancore razzista;
- c) sul voto in Calabria, il dato negativo è la netta vittoria delle destre (ma poteva essere altrimenti dopo quindici anni di sfascio centrosinistro?), ma un aspetto positivo di questo voto è che la Lega non solo non sfonda, ma prende meno voti di altri della coalizione. Sembra di poter dire che il disegno di Salvini di trasformare la Lega da forza secessionista del nord a partito fascista nazionale abbia subito uno stop non da poco, il che riaprirà i conflitti dentro la Lega fra i “prenditori del nord est” (non è un refuso) che “di Casa Pound se ne fottono, basta che ci siano gli sghei” e lo stesso Salvini che sogna di diventare il capo del fronte fascista italiano ed europeo;
- d) in entrambe le elezioni sembra evidente l’inizio del processo di estinzione di una nuova specie, per quanto comparsa recentemente sul pianeta politico: i 5 Stelle, che diventano risibili nel Nord (4,3% in Emilia) e inutili al Sud (7,3% in Calabria). Il processo sembra inarrestabile, avendo infranto per strada tutti i mantra che ne avevano decretato il successo: erano contro i partiti e si sono trovati a governare con tutti ( “demonio e santità è lo stesso, basta che ci sia un posto” cantava Vasco Rossi), erano per temi ambientali dirompenti e li hanno disconosciuti uno ad uno, erano per la “democrazia diretta” ma si sono dimenticati di specificare “diretta da chi?” e pian piano lo si è capito.
Che altro dire? Niente, perché fino a che non si producono -anche in questo Paese- mobilitazioni sociali degne di nota, questo è il teatrino della politica cui tocca assistere.