di Walden Bello
Innanzitutto, questo fallimento ha rappresentato una vittoria per i popoli di tutto il mondo, e non un’”occasione perduta” per un accordo globale tra Nord e Sud.
A Doha non è stato inaugurato alcun “ciclo dello sviluppo”, e le pur trascurabili promesse che il piano poteva riservare erano già state tradite ben prima di Cancun.
A Cancun, nessun paese in via di sviluppo, nemmeno il più ottimista, si aspettava di strappare concessioni ai paesi ricchi nell’interesse dello sviluppo. La maggioranza dei governi dei paesi in via di sviluppo si è invece presentata al vertice con un atteggiamento difensivo: la grande sfida non consisteva infatti nel forgiare uno storico New Deal, ma nell’impedire agli Stati Uniti e all’Unione Europea di imporre nuove pretese ai paesi in via di sviluppo sfuggendo a qualunque accordo multilaterale sui propri regimi commerciali.
Va detto che non sono stati i paesi in via di sviluppo a provocare il fallimento del vertice, come ha lasciato intendere il rappresentante Usa al Wto, Robert Zoellick, nella conferenza stampa conclusiva. La responsabilità è infatti da ascriversi completamente agli Stati Uniti e all’Europa.
Quando è stata presentata la seconda bozza del testo ministeriale, all’inizio della giornata di sabato 13, è stato evidente che gli Usa e l’Unione Europea non intendevano tagliare in modo significativo gli elevati sussidi alle loro agricolture, pur continuando a richiedere con intransigenza che i paesi in via di sviluppo abbassassero i dazi. È emersa altrettanto chiaramente la determinazione, da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, ad ignorare la clausola della Dichiarazione di Doha secondo cui occorre il consenso esplicito di tutti i paesi membri per avviare negoziati sui “temi di Singapore”.
La trattativa si fa alle nostre condizioni, oppure non si fa: era questo il significato della seconda bozza. Non c’è quindi da stupirsi che i paesi in via di sviluppo non abbiano dato il consenso ad un negoziato contrario ai loro interessi. In secondo luogo, il Wto ne è uscito gravemente danneggiato. Due conferenze fallite e una che è riuscita a malapena (Doha) non rappresentano un buon biglietto da visita per questa istituzione.
Per le superpotenze commerciali, ormai non rappresenta più un valido strumento per imporre il loro volere agli altri, mentre per i paesi in via di sviluppo, appartenere al Wto non significa essere protetti dagli abusi delle economie più potenti, e ancor meno disporre di un meccanismo di sviluppo. Ciò non significa però che il Wto sia morto e sepolto: assisteremo senz’altro ad una serie di misure volte a rimetterlo in carreggiata, come quelle realizzate dagli Usa e dall’Unione Europea già a Doha.
Tuttavia, è assai probabile che, in mancanza dell’impulso che sarebbe derivato dal successo della conferenza, il meccanismo subirà un forte rallentamento. Zoellick ha ragione di dubitare che “il ciclo di Doha” venga completato entro la scadenza del gennaio 2005, mentre il commissario europeo per il commercio, Pascal Lamy, ha soltanto cercato di fare buon viso a cattivo gioco affermando che il Wto avrebbe già completato il 30% delle misure annunciate a Doha.
A parte la perdita del giusto impulso e il deterioramento del meccanismo di base dell’organizzazione, l’aumento del protezionismo da parte dei paesi ricchi, la prolungata stagnazione dell’economia globale e la crisi dell’Alleanza Atlantica dovuta a divergenze politiche non determinano un clima favorevole affinché il Wto possa servire da meccanismo principale per la liberalizzazione e la globalizzazione dei commerci.
Il Wto potrebbe finire per subire lo stesso destino che esso stesso contribuì ad infliggere all’Unctad (la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo): sopravviverebbe, ma risulterebbe sempre più inefficace e irrilevante. A questo punto, viene spontaneo chiedersi: anche se ci rallegra il fallimento di una conferenza contraria agli interessi dei paesi in via di sviluppo, è giusto festeggiare l’indebolimento del Wto?
Dopo tutto, sostengono alcuni, il Wto impegna ad una serie di regole e rappresenta un meccanismo che, con il giusto equilibrio delle forze in gioco, potrebbe anche essere invocato a tutela degli interessi dei paesi in via di sviluppo. Chi la pensa così ritiene preferibile il Wto rispetto agli accordi commerciali bilaterali a cui, secondo quanto ha affermato il delegato statunitense Robert Zoellick in conferenza stampa, Washington darà la priorità dopo il fallimento della conferenza di Cancun. Di fatto, si tratta di una falsa alternativa.
Il Wto non implica una serie di regole, procedure ed istituzioni neutrali da utilizzare a scopo difensivo per tutelare gli interessi degli attori più deboli. Le stesse regole – tra cui le principali sono il primato del libero commercio, il principio della nazione favorita e il principio del trattamento nazionale – non fanno che ufficializzare l’attuale assetto globale, basato sulle disuguaglianze economiche. Le deboli armi a disposizione dei paesi poveri sono poche e raramente utilizzabili.
Inoltre, il principio del trattamento differenziato per i paesi in via di sviluppo non gode di grande considerazione al Wto. Anzi, a Cancun, gli Usa e l’Unione Europea hanno escluso dai negoziati i punti all’ordine del giorno riguardanti il trattamento differenziato, benché fossero previsti dalla Dichiarazione di Doha. Se ne deduce che il Wto non è un’organizzazione davvero multilaterale, ma un meccanismo volto a perpetuare il dominio congiunto di Usa e Ue sull’economia globale.
In terzo luogo, la società civile di tutto il mondo ha rivestito un ruolo determinante a Cancun. Dal vertice di Seattle ad oggi, il grado di interazione tra società civile e governi in materia di accordi commerciali è aumentato.
Le organizzazioni non governative hanno prestato assistenza ai governi dei paesi in via di sviluppo per quanto riguarda gli aspetti politici e tecnici dei negoziati: hanno mobilitato l’opinione pubblica internazionale contro le posizioni retrograde dei governi dei paesi ricchi, come nel caso dei brevetti sui farmaci e dell’assistenza sanitaria pubblica.
Ne sono nate, nei vari paesi, solide coalizioni popolari che hanno preteso maggiori resistenze nei confronti di ulteriori concessioni ai paesi ricchi: a Cancun, molti paesi in via di sviluppo hanno resistito alle pressioni provenienti da Usa e Ue proprio perché temevano una risposta politica interna da parte delle organizzazioni della società civile. Mentre i movimenti sfilavano nel centro cittadino e le Ong manifestavano ora dopo ora dentro e fuori la sede del summit, fin dalla sua inaugurazione, Cancun diveniva un microcosmo delle dinamiche globali che coinvolgono gli Stati e la società civile.
Il suicidio dell’agricoltore coreano Lee Kyung Hae davanti alle barricate della polizia ha fatto chiaramente comprendere ai delegati che non si poteva più ignorare la causa dei piccoli agricoltori, e questo fatto è stato riconosciuto dai governi nel minuto di silenzio osservato in memoria dell’agricoltore scomparso.
In realtà, il fallimento del vertice di Cancun rappresenta un’ulteriore conferma dell’osservazione del New York Times, secondo cui la società civile è la seconda superpotenza globale. In quarto luogo, il G21 è da considerarsi come un nuovo elemento di grande importanza, in grado di contribuire a modificare l’equilibrio delle forze a livello globale. Capeggiato da Brasile, India, Cina e Sudafrica, questo nuovo Gruppo ha bloccato i tentativi europei e statunitensi di fare di Cancun l’ennesimo triste episodio nella storia del sottosviluppo.
Le sue potenzialità sono state illustrate da Celso Amorin, il Ministro del Commercio brasiliano che se ne è fatto portavoce, quando ha affermato che il G21 rappresenta oltre la metà della popolazione mondiale e oltre due terzi degli agricoltori del pianeta. E i delegati statunitensi non hanno torto a ritenere che il G21 rappresenti una ripresa delle pressioni, già effettuate dal Sud del mondo negli anni Settanta, per un “nuovo ordine economico internazionale”.
Tuttavia, molti elementi rientrano nella sfera della possibilità, e le potenzialità di questa nuova formazione non devono essere sopravvalutate. Allo stato attuale, si tratta di fatto di un’alleanza che si prefigge una drastica riduzione dei sussidi all’agricoltura del Nord del mondo, e che non ha ancora affrontato in modo esauriente l’aspirazione a tutele più complete per i piccoli agricoltori che operano nei paesi più piccoli, dediti principalmente ad una produzione che soddisfa il solo mercato interno.
Tutto questo è comprensibile, in quanto i membri di spicco del G21 sono grandi esportatori di prodotti agricoli, benché la maggioranza annoveri anche molte produzioni familiari che servono il mercato interno. Ciononostante, non vi è ragione di ritenere che non si possa porre al centro del programma del G21 anche un’agenda positiva per un’agricoltura sostenibile basata sulle piccole colture.
Né vi è ragione per cui il G21 non possa proporsi di elaborare un programma comune che coinvolga anche industria e servizi. Ancora più interessante è l’eventualità che il G21 serva da volano per una cooperazione tra i vari paesi del Sud, estesa al di là del commercio, fino a comprendere anche un coordinamento delle politiche sugli investimenti, sulla circolazione dei capitali, nonché sulle politiche industriali, sociali ed ambientali.
Sono proprio queste formazioni finalizzate alla cooperazione tra i paesi del Sud del mondo, con priorità allo sviluppo sul commercio e sui mercati, a rappresentare l’alternativa sia al Wto, sia agli accordi bilaterali sul libero commercio attualmente perseguiti da Usa ed Unione Europea.
Nel definire la propria agenda, il G21 troverà un alleato naturale nella società civile. Mentre gli Usa e l’Unione Europea sono decisi a mantenere lo status quo, compito di questa alleanza è passare dalla potenzialità alla realtà il prima possibile.
Naturalmente non sarà facile. I movimenti progressisti si troveranno a loro agio con il governo brasiliano guidato dal Partito dei Lavoratori, ma non altrettanto con il governo indiano, fondamentalista e neoliberista, e con il governo cinese, autoritario e neoliberista. Tuttavia, le alleanze vanno saggiate nella pratica, e nessun governo va automaticamente etichettato come incapace di lasciarsi trascinare dalla parte dello sviluppo sostenibile nell’interesse dei popoli.
In conclusione, poco dopo il vertice di Doha, diverse organizzazioni della società civile hanno sostenuto che, per i paesi in via di sviluppo, sarebbe stato preferibile far fallire la conferenza successiva, quella di Cancun, piuttosto che cercare di trasformarla in un forum per la riforma del Wto.
Con l’avvicinarsi del vertice di Cancun, l’intransigenza dei paesi più potenti ha portato le trattative con il Sud del mondo ad una situazione di stallo su tutti i fronti. Alla vigilia di Cancun, non si parlava ormai più di riforme. Lo scenario era ormai chiarissimo: poiché Usa e Ue erano decisi a fare il bello e il cattivo tempo, non raggiungere alcun accordo sarebbe stato meglio che raggiungerne uno pessimo: un negoziato fallito sarebbe stato comunque preferibile rispetto ad un negoziato che, seppure riuscito, non avrebbe rappresentato altro che un ulteriore cappio al collo dei paesi in via di sviluppo.
Dopo Cancun, alla società civile di tutto il mondo si pone la sfida di duplicare gli sforzi volti a smantellare le strutture della disuguaglianza e di spingere a favore di accordi alternativi per la cooperazione economica globale che siano davvero nell’interesse dei poveri, degli emarginati e dei deboli.
Walden Bello è docente di sociologia e amministrazione pubblica all’Università delle Filippine e direttore generale del programma di ricerca e azione Focus on the Global South, con sede a Bangkok.
Tratto in lingua originale da Focus on Global South (www.focusweb.org), in italiano ripreso da Liberazione (www.liberazione.it)
Traduzione di Sabrina Fusari