Annullare il debito per favorire la riconversione ecologica e la giustizia sociale – n.16, novembre dicembre 2014

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di Chiara Filoni

Debito pubblico: pretesto perfetto per l’applicazione di politiche di rigore o di politiche strutturali – come un tempo erano meglio conosciute –, sulla carta in grado di rimettere in sesto un’economia piegata dal fardello del debito. Una ricetta di classe, che favorisce gli interessi di pochi a svantaggio di molti. Perché è di questo che si parla: che si tratti del Messico, della Grecia o dell’Italia la ricetta è ed è stata sempre più o meno la stessa (con le varianti dei casi): liberalizzazione dell’economia e della finanza, rigore di bilancio, privatizzazione e svendita del patrimonio pubblico, sfruttamento delle risorse naturali.

Ma andiamo per gradi.

Nel Nord come nel Sud del mondo, l’aumento degli interessi sul debito – e quindi del debito stesso – è da imputarsi storicamente alla decisione della Federal Reserve statunitense di aumentare brutalmente i tassi di interesse a partire dall’ottobre 1979, per compensare un’inflazione allora molto alta. All’aumento dei tassi di interesse corrispose un costo maggiore del credito.

I tassi di interesse dei contratti di debito dei paesi del Terzo Mondo passarono da una media del 4-5% a una del 16-18%. In concomitanza dell’abbassamento dei prezzi delle materie prime e dei prodotti agricoli che questi paesi esportavano, il Sud si ritrovò in una situazione economica difficile, costretto a prendere in prestito sempre di più per far progredire le proprie economie e per ripagare al tempo stesso i debiti pregressi. Ed ecco che il famoso circolo vizioso dell’indebitamento prese forma.

La risposta alla crisi del debito dagli anni ottanta ha come protagoniste le due più importanti istituzioni finanziarie internazionali: il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale, le uniche finanziariamente in grado di supportare paesi in grave difficoltà. Il prezzo da pagare è però alto: tutti i prestiti sono condizionati all’applicazione di politiche ben precise (i cosiddetti PAS, politiche di aggiustamento strutturale), le quali impongono l’apertura al commercio internazionale, la soppressione delle barriere doganali, privatizzazioni, l’adozione di un’agricoltura intensiva finalizzata all’esportazione verso i paesi del Nord, e un’esportazione massiva di minerali, petrolio, metalli rari – i cui introiti saranno perlopiù finalizzati al pagamento del debito.

La logica è semplice ma brutale: io ti do i soldi, tu sviluppi un’economia che fa comodo alle mie multinazionali e alle popolazioni del Nord. Una nuova colonizzazione, questa volta unicamente economica e con il benestare delle leadership locale. Lo Zambia, ad esempio, è uno dei più importanti esportatori di rame – una delle risorse più rare al mondo e importante per lo sviluppo delle economie tanto quanto il petrolio. Ebbene, la sua popolazione vive in uno stato di indigenza mentre Glencore International, compagnia anglo-svizzera dai bilanci miliardari, sfrutta e inquina senza ritegno le miniere della zona di Mopani.

Risultato di queste politiche di aggiustamento strutturale: aggravamento della crisi da debito, inquinamento, impoverimento, estrattivismo brutale delle risorse naturali, perdita di autosufficienza e sicurezza alimentare (come risultato dello sviluppo forzato delle monoculture), perdita della biodiversità e delle agricolture locali, a vantaggio di un’uniformazione delle tecniche di produzione basate sull’utilizzo di prodotti chimici e petrolieri. Ecco che il debito, attraverso queste politiche, ha indirettamente un importante impatto tanto ecologico quanto economico-sociale.

Passando dalle popolazioni del Sud a quelle del Nord, la situazione non migliora di molto.

Come già detto, l’aumento dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve nel 1979 contribuisce non di poco all’accumulazione del debito anche nei paesi europei. Gli anni ottanta (e quelli a seguire) sono gli anni della cosiddetta “contro-riforma fiscale” cha ha favorito le multinazionali e le famiglie più ricche, contribuendo all’abbassamento delle entrate statali, compensate dall’aumento dell’IVA e dal ricorso al indebitamento statale per far fronte alle spese.

La crisi del 2007-2008 ha aggravato ancora di più la situazione. Speculatori e banche senza etica investono sui titoli di stato dei paesi con maggiori difficoltà economiche dal momento che suddetti titoli statali fruttano di più perché più rischiosi. Molti stati europei destinano miliardi per salvare i loro istituti finanziari sull’orlo del fallimento. Risultato: il debito continua a crescere. Anche questa volta spetta alla popolazione europea stringere la cinghia e sopportare il rigore dell’austerity allo scopo di liberare risorse finanziare finalizzate al pagamento del debito: liberalizzazioni, privatizzazioni persino di beni comuni come acqua e energia, blocco di assunzioni, aumento della tassazione, etc. Come si suol dire: oltre al danno, la beffa.

Esempio tra tutti: la Grecia del 2014, dopo quattro anni di memorandum imposti dalla Troika (BCE, FMI e UE). Un paese devastato non solo a livello sociale ed economico (1.000.000 di posti di lavoro perduti, 35 % di aumento del debito pubblico, 38% di riduzione dei salari, 45% di riduzione delle pensioni, solo per citare alcuni degli effetti rovinosi di queste politiche), ma anche in termini di sfruttamento delle risorse naturali: privatizzazione dell’acqua, della gestione dei rifiuti, il 50% delle foreste vendute (5 ettari) per 23 milioni di euro nella sola provincia di Cassiope, concessione di risorse minerarie, di monumenti archeologici come l’Acropoli, di spiagge, mari, tutto, tutto.

Il sistema debito è il principale strumento del capitalismo finanziario atto a imporre un modello estrattivista e produttivista basato sullo sfruttamento delle popolazioni locali, della natura e dell’ambiente in cui viviamo. E’ urgente pertanto imporre agli stati nazionali un audit del debito allo scopo di annullarne la parte illegittima (ovvero quella che non ha beneficiato la popolazione). Questo primo passo sarebbe essenziale per uscire dal ricatto del debito che mantiene troppe popolazioni sotto il giogo del “libero” mercato, allo scopo di liberare le risorse finanziarie per lo sviluppo di un welfare adeguato e poter finalmente imporre un’agenda politica in cui le popolazioni possano riappropriarsi del loro avvenire, nel rispetto della natura e dei loro diritti.

Tratto dal Granello di Sabbia di Novembre – Dicembre 2014: “Riconversione ecologica”, scaricabile QUI

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