Pensare oltre il mondo dei robot

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di Marco Schiaffino

Ci voleva la boutade del braccialetto di Amazon perché qualcuno all’interno della politica istituzionale cominciasse a preoccuparsi di che cosa sia in realtà l’industria 4.0. Purtroppo, a leggere reazioni e commenti c’è poco da stare allegri: la ventata di indignazione è quasi certamente destinata a rimanere tale. Anche perché il brevetto, al di là dell’elemento simbolico del braccialetto, non aggiunge una virgola a ciò che già esiste. Il controllo dei lavoratori (attraverso telecamere, smartphone, tablet e dispositivi mobili vari) è già realtà.

Tutta la vicenda conferma la sconcertante superficialità con cui i politici di casa nostra (ma non solo) trattano l’argomento. Se si esegue una ricerca su Internet con la chiave “industria 4.0” nei siti istituzionali, ci si ritrova con una manciata di documenti e comunicati stampa che glorificano concetti come innovazione e competitività, cavalli di battaglia indiscussi del renzismo di casa nostra e del pensiero unico neoliberista. 

Le (poche) voci discordanti si preoccupano al massimo del tema legato alla possibile diminuzione dei posti di lavoro causato dall’avvento dei “robot”, con commenti che dimostrano un drammatico scollamento dalla realtà, come nel caso di Pietro Grasso, che non ha trovato di meglio da dire che “un film di fantascienza”. Per non citare l’irritante ipocrisia di personaggi come Poletti e Gentiloni, che dopo aver servito il Jobs Act e aver previsto detrazioni fiscali per le aziende che investono nell’industria 4.0 (sigh!) rilasciano alle agenzie dichiarazioni surreali che stigmatizzano la tecnologia di Amazon invocando “rispetto delle leggi” e impegni per la “qualità del lavoro”.

La verità è che il tema della quarta rivoluzione industriale dovrebbe porre problemi più ampi e articolati, per esempio riguardo a come modifica il lavoro e la vita delle persone. Con buona pace di chi oggi si affanna a dimostrarsi indignato per il brevetto di Amazon (e che evidentemente non ha letto gli approfondimenti pubblicati dal Manifesto all’interno di Alias settimana scorsa) la questione è già oggetto di dibattito in luoghi diversi da quelli che i grandi giornali e le TV sono soliti bazzicare.

Il primo passo è prendere atto del fatto che con l’industria 4.0 il mondo che conoscevamo è finito. Ora siamo di fronte a due problemi. Nel lungo (medio) periodo c’è quello occupazionale. Il progressivo impiego di sistemi di machine learning ridurrà drasticamente la richiesta di lavoratori, ponendoci di fronte alla prospettiva di condannare alla disoccupazione e alla miseria milioni (miliardi?) di uomini e donne.

Nel breve periodo, però, il problema è un altro. L’applicazione delle nuove tecnologie di machine learning e intelligenza artificiale impatta, infatti, sulle occupazioni che fino a oggi venivano considerate più appetibili, quegli “impieghi di concetto” che siamo soliti associare a chi ha un livello di istruzione medio-alto e che, da un punto di vista sociale, viene identificato come “classe media”.  

Per capirlo basta un semplice esempio. Immaginate di essere i proprietari di un ristorante fast food e di dover scegliere a chi affidare i compiti per la gestione del vostro ristorante. Per la pulizia dei bagni avete due opzioni: assumere un essere umano (costo all’anno circa 15.000 euro) o un sofisticato robot (ipotizziamo 20.000 euro per la macchina più la manutenzione). Stesso discorso per la gestione del locale, solo che qui la scelta è tra un manager in carne e ossa (vogliamo dire che ha un costo di 25.000 euro all’anno?) e un software, che a esagerare (molto) vi costerà 1.000 euro all’anno. Che cosa farete?

Ecco: il futuro prossimo che ci aspetta è questo: i software impegnati a fare ordini, gestire i pagamenti, stabilire turni e ferie dei lavoratori, pianificare avanzamenti di carriera sulla base della produttività. Le persone a pulire i cessi. E non stiamo parlando di fantascienza (il Presidente del Senato mi perdonerà) ma della quotidianità che milioni di persone stanno già vivendo o vivranno prestissimo. Andate a chiederlo a chi lavora per Foodora, Deliveroo, Uber, Amazon, McDonald, o alle migliaia di persone nei paesi del sud del mondo che, proprio in questo momento, stano lavorando a cottimo (qualche centesimo a clic) per addestrare i sistemi di intelligenza artificiale.

Ciò che “gli indignati del braccialetto” sembrano non capire è che per far fronte a questo scenario non basta qualche norma spot per regolamentare o limitare l’uso delle tecnologie. Questo scenario impone un cambio di prospettiva ben più radicale. Se non ci piace l’idea di un mondo in cui esistono pochi privilegiati che controllano i capitali e miliardi di persone condannate a gareggiare al ribasso per aggiudicarsi lavori ripetitivi sotto il controllo di una macchina, dobbiamo pensare a un’alternativa. 

Dobbiamo fare lo sforzo di immaginare una società senza lavoro, in cui la produzione è demandata il più possibile alle macchine. Soprattutto, impone di superare il modello economico contemporaneo, in cui l’esistenza stessa è subordinata alla capacità di produzione economica, le scelte sono affidate esclusivamente alle leggi di mercato e la competizione è considerata l’unico elemento regolatore dei rapporti tra le persone. Questo sistema ha fatto il suo tempo. È vecchio, muffito e inadeguato a garantire il benessere della maggioranza delle persone nel prossimo futuro.

Il fatto che a oggi non esistano formule e soluzioni “chiavi in mano” per sostituirlo non è una scusa per perpetuare l’esistente o continuare a limitarsi a rivendicare forme di redistribuzione e argine alle logiche mercantili ispirate alla semplice riduzione del danno. Immaginare un altro mondo possibile è diventata, molto semplicemente, una questione di sopravvivenza.    

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 32 di Gennaio-Febbraio 2018: “Debito globale: come uscirne?

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