di Francesco Martone
“We do not want just an accord, we want a just accord” IBON, 7 dicembre 2015
E’ da poco iniziata la seconda settimana di negoziato della COP21 nella quale saranno i Ministri che entro l´11 dicembre dovrebbero approvare l’accordo che definirà le politiche climatiche nell’era post-Kyoto. Tre sono gli elementi chiave per valutare la portata dell’accordo che si sta profilando, attraverso una prospettiva di riduzione della dipendenza dai combustibili fossili, di “restituzione ” del debito ecologico e di regolamentazione delle emissioni a carattere vincolante e non volontario. Il primo, l’impegno per contenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5 gradi centigradi.
A tal riguardo vale la pena di ricordare come, alla COP20 di Lima, si chiese ai governi di presentare prima di Parigi contributi volontari al perseguimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni, mitigazione ed adattamento (nel acronimo inglese INDC). Il totale delle INDC presentate prevede una riduzione della temperatura di 2,7 gradi centigradi contro 1,5. Il testo-bozza di Parigi lascia poco a sperare, visto che il punto cruciale sulla riduzione dell’aumento della temperatura resta ancora indefinito. Così come resta insoluto il tema della revisione degli INDC per renderli più “ambiziosi” e come anche la misura in cui questo tetto dovrà essere tradotto in termini di riduzione delle emissioni.
Il secondo riguarda il regime giuridico dell’accordo, non vincolante e privo di meccanismi che sanzionino quei paesi che non lo rispetteranno. Una discussione contorta dove c’è chi propone di spacchettare l’accordo in due strumenti: uno volontario l’altro vincolante per chi ci sta, al fine di bypassare il voto negativo del Congresso USA ormai certo. Il terzo è la “restituzione” attraverso il finanziamento per le politiche climatiche:100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020, da far gestire ad istituzioni quali il Fondo Verde per il Clima.
I finanziamenti per le politiche climatiche ammonterebbero a circa 57 miliardi di dollari nel periodo 2013-2014 (per dare un’idea: nel 2013, per la sola prospezione di nuovi giacimenti di combustibili fossili le imprese del settore hanno speso 670 miliardi di dollari). Oltre due terzi di tale cifra sono destinati a progetti per la riduzione delle emissioni di carbonio nei paesi in via di sviluppo, (progetti di mitigazione, rappresentati da sviluppo di energie rinnovabili, innovazione tecnologica, protezione delle foreste e “false soluzioni” collegate a programmi di compensazione delle emissioni), un onere sulle spalle dei paesi in via di sviluppo che riceverebbero invece assai meno per cercare di gestire le ricadute di eventi climatici estremi, quali inondazioni e siccità. La questione a Parigi è quella di riequilibrare le proporzioni verso un 50:50. Letta con la lente della giustizia climatica e del riconoscimento del debito ecologico, questa cifra dimostra una persistente ingiustizia, che l’accordo di Parigi difficilmente riuscirà a sanare. E non solo perché a Parigi si profila la possibilità di un accordo che impegnerebbe egualmente paesi “ricchi” e paesi “in via di sviluppo” nel finanziamento delle politiche climatiche, ma anche perché i meccanismi di erogazione dei fondi climatici privilegiano la partecipazione di imprese e istituti di credito (dei paesi “ricchi”) che spesso con l’altra mano sostengono o finanziano progetti dall’alto impatto socio-ambientale.
Che il business del clima sia ormai un ambito consolidato di azione delle imprese lo dimostra il fatto che il Fondo per il Clima, il meccanismo di finanziamento per le politiche climatiche, è sbilanciato verso le imprese, a scapito della possibilità dei paesi e delle comunità locali di poter accedere direttamente ai fondi o partecipare all’implementazione dei progetti che nei fatti vengono solo “validati” dalle autorità dei paesi destinatari.
Il settore privato qui a Parigi è il vero convitato di pietra, i suoi interessi definiscono le priorità politiche e gli obiettivi in un percorso sottotraccia rispetto al negoziato ufficiale. Il terzo percorso, quello dei movimenti e della società civile, si è snodato in varie attività e pratiche. Dalla catena umana del 28 novembre, tenutasi comunque per riaffermare il “diritto alla piazza” dopo le decisioni delle autorità di proibire la marcia prevista per supposte motivi di sicurezza. Tra le parole d´ordine, quella di “resistere ad ogni nuova attività di estrazione di combustibili fossili ovunque”. Si calcola infatti che almeno il 50% delle riserve di combustibili fossili dovrebbe restare sottoterra per evitare un aumento disastroso della temperature. Non a caso lo slogan ricorrente alla marcia e non solo era: “keep oil under the soil, keep coal in the hole”, idealmente connesso alle vertenze dei comitati No trivelle nel nostro paese e che potrebbe in effetti caratterizzare anche il prossimo referendum sullo Sblocca Italia. A Montreuil, dal 5 al 6 dicembre, si e’ tenuto il Vertice dei Popoli. Il Tribunale internazionale per i diritti della terra, ha poi visto le testimonianze di comunità locali, leader indigeni ed attivisti di ogni parte del mondo, sugli effetti devastanti di progetti di estrazione petrolifera, fracking, miniere a cielo aperto, un debito ecologico che travalica i confini tradizionali tra Nord e Sud, ed accomuna comunità in resistenza in ogni parte del pianeta. Il Tribunale ha emesso una dura sentenza di condanna ai governi ed imprese, e ha ascoltato proposte quali quella di inserire, nel Trattato di Roma sulla Corte Penale Internazionale, il crimine di ecocidio. Il tema dei diritti della natura, all’interno del negoziato, è stato posto dalla delegazione boliviana in una trattativa serrata sulle condizioni di attuazione dell’accordo di Parigi.
Il tema forse più “politico” dell’accordo, visto che prevede il vincolo di rispettare condizioni quali equità, responsabilità comuni e responsabilità differenziate, questioni di genere, rispetto dei diritti umani. Per giorni i negoziatori hanno cercato di evitare che l’accordo di Parigi potesse assumere i contorni di un impegno “politico” verso un approccio che metta al centro i diritti della Madre Terra, i diritti umani e dei popoli indigeni, rappresentati da una folta delegazione di ogni parte del mondo. Mancano ancora pochi giorni alla conclusione della COP, giornate che dovrebbero culminare il 12 in una serie di attività di mobilitazione. Non è un caso che per le azioni di piazza finali si sia scelto il giorno dopo la conclusione, come a significare che vista l’inadeguatezza dei governi, spetterà ai popoli, alle comunità ed ai movimenti il compito di costruire reti, condividere pratiche di resistenza all’espansione della frontiera estrattiva e modelli di consumo e produzione alternativi, fondati sulla giustizia ecologica e sociale.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 22 di Novembre-Dicembre 2015 “System Change NOT Climate Change”, scaricabile qui.