Minerali clandestini: 2015 o (ancora) morte

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di Monica Di Sisto

Vicepresidente di Fairwatch, tra i sostenitori della campagna italiana Minerali clandestini

Quando guardiamo il nostro smartphone, per accedere alla sua ultima avanzatissima application o semplicemente per telefonare, c’è una cosa che spesso non vediamo, ben nascosta com’è in design sempre più sofisticati: è la guerra scatenata dalla corsa ai minerali rari che fanno marciare i gioielli della tecnologia, ma anche tanti baluardi della green economy come i pannelli solari o le pale eoliche. Ignoriamo, ad esempio, che oltre il 60% dei giacimenti planetari di coltan – minerale dal quale si estrae il tantalio – sta nella Repubblica Democratica del Congo ed è considerato la causa diretta dell’ultradecennale conflitto in corso; e ignoriamo che da quando il caso del Congo è diventato noto e simbolico, al coltan si è andato sostituendo lo stagno, con la conseguenza che paesi come Indonesia e Malaysia – che ne producono in gran quantità – sono stati invasi da trafficanti clandestini di minerali, che per raccoglierli sfruttano frotte di migranti minatori improvvisati che, a costo della vita, bucano la terra con mezzi di fortuna per sfuggire dalla povertà.

Il 5 marzo 2014, però, sotto una forte pressione dell’opinione pubblica, l’Alto Rappresentante per gli affari esteri e per la Politica di sicurezza dell’Unione Europea, Catherine Ashton, e il Commissario europeo per il Commercio, Karel De Gucht, hanno proposto una strategia europea per bloccare il traffico. Frutto di consultazione pubblica, analisi d’impatto e di ampie consultazioni condotte presso l’OCSE, le imprese, la società civile e le istituzioni dei paesi produttori, la strategia risponde a una risoluzione del Parlamento europeo del 2010, che chiedeva all’UE di proporre una legge ispirata a quella degli Stati Uniti (Dodd-Frank).

La strategia mette a fuoco tre temi principali: 1) ridurre la possibilità che i gruppi armati ricorrano al commercio illegale di stagno, tantalio, tungsteno e oro in zone di conflitto; 2) migliorare la capacità degli operatori comunitari, soprattutto a valle della filiera di approvvigionamento, nel rispettare i requisiti esistenti circa il dovere di diligenza ragionevole; 3) ridurre le distorsioni dei mercati mondiali, per i suddetti quattro minerali provenienti da zone di conflitto e ad alto rischio.

Il testo proposto nel marzo 2014 dalla Commissione europea è molto insoddisfacente. S’immagina, infatti, di istituire un sistema di autocertificazione per gli importatori comunitari di stagno, tantalio, tungsteno e oro, che contribuisca a ridurre il finanziamento dei gruppi armati e delle squadre della morte, attraverso pratiche di approvvigionamento responsabili delle imprese dell’UE. La proposta si basa su due principi fondamentali: agevolare le aziende che desiderano procurarsi i minerali in modo responsabile e incoraggiare il commercio lecito, presentando un progetto di regolamento che istituisca un meccanismo europeo di autocertificazione per gli importatori europei, su base volontaria.

Il progetto di regolamento prevede misure che ne facilitino l’adesione e incoraggino le imprese europee a dar prova di diligenza nella loro catena di approvvigionamento, anche attraverso: 1) incentivi concernenti gli appalti pubblici per le aziende che vendono telefoni cellulari, stampanti e computer, contenenti stagno, tantalio, tungsteno e oro; 2) sostegno finanziario, riconoscimento e visibilità alle piccole e medie imprese, per incoraggiarle a esercitare il dovere di diligenza, e all’OCSE, per continuare a svolgere le sue attività di sensibilizzazione e di rafforzamento delle capacità.

Gli importatori europei potranno garantire filiere d’approvvigionamento ‘pulite’, nello svolgimento di transazioni legali, con operatori che agiscono in paesi colpiti da conflitti. Essi, però, non sarebbero obbligati a non comprare minerali insanguinati, ma solo invitati a farlo: l’adesione ai protocolli, infatti, sarebbe del tutto volontaria e rimarrebbe compito dei cittadini capire se il prodotto che comprano sia o meno responsabile. Non verrebbe poi chiesto di autocertificarsi a tutte le imprese interessate da questo mercato a rischio. Sarebbero invitati a farlo solo gli importatori, cioè 300 commercianti, 20 raffinatori/fonderie e circa 100 produttori di componenti in tutta Europa: questi sarebbero tenuti a dichiarare dove siano avvenuti l’estrazione, il commercio e la fusione dei minerali. I fabbricanti o gli importatori di elettronica, telefoni cellulari, automobili, macchine, gioielli fatti di quei minerali, invece, non dovrebbero dichiarare niente, e tutto ciò che non viene trasformato in Europa, cioè la gran parte dei prodotti in commercio, soprattutto quelli più diffusi, rimarrebbe a rischio. Con più di 400 importatori di stagno, coltan, tungsteno e oro, l’Unione Europea, invece, costituisce uno dei più grandi mercati di questi minerali e metalli. Attualmente, solo il 18% delle fonderie europee applica il dovere di diligenza per lo stagno, il tantalio e il tungsteno, mentre circa l’89% delle raffinerie d’oro europee è impegnato in programmi specifici.

Sarà proprio il 2015 l’anno decisivo per capire se grazie a un cambiamento di rotta impresso dal Parlamento europeo all’iter legislativo avremo delle regole, e se saremo riusciti, insieme, a farle diventare meglio di come potrebbero essere oggi. EurAc (Rete Europea per l’Africa Centrale) è una rete di 38 organizzazioni appartenenti alla società civile di 12 paesi europei e si occupa delle relazioni tra l’Unione Europea e l’Africa Centrale (in particolare Burundi, Congo, Ruanda), che considera il progetto di regolamento europeo sul tema dei ‘minerali da conflitti’ troppo ‘timido’ per poter rompere i legami tra conflitti e risorse naturali. Il modello legislativo a cui si guarda è la legge statunitense Dodd-Frank, per la tracciabilità dei minerali utilizzati che risale al 2010. Tale legge introduce il criterio della trasparenza nella filiera di approvvigionamento dei minerali da parte delle aziende produttrici di strumenti ad alta tecnologia, esigendo dalle società che sono quotate in borsa negli Stati Uniti e che utilizzano dei ‘minerali provenienti da zone di conflitto’ nelle loro attività produttive, di dichiarare l’origine di tali minerali e di effettuare un adeguato dovere di diligenza. Secondo le disposizioni di questa legge, le imprese interessate devono presentare, alla US Securities and Exchange Commission, un loro rapporto annuale che è reso pubblico. Solo il 12% delle società quotate nelle borse europee e non direttamente soggette alla legislazione statunitense fanno riferimento, sui loro siti web, a minerali da conflitto. Tuttavia, tra 150.000 e 200.000 imprese dell’UE – per lo più operatori a valle – sono coinvolte nelle filiere delle 6.000 imprese quotate in borsa negli Stati Uniti e toccate dalla legge Dodd-Frank. Quindi c’è già, anche se non conosciuta e valorizzata, una base di controllo, seppure indiretto, in Europa.

Nel caso specifico della Regione dei Grandi Laghi, la legge Dodd-Frank ha funzionato come deterrente nei confronti dei minerali prodotti nella Regione, indipendentemente dal fatto che siano estratti in modo legale o meno. Alcune imprese hanno preferito spostare le proprie forniture lontane dall’occhio del ciclone, provocando un aggravamento verticale delle condizioni di povertà di quelle regioni che ormai da molti anni vedevano in questi minerali l’unica fonte di sussistenza per centinaia di migliaia di persone. Ma non è spostando il problema altrove che lo si risolve. E il 2015 dimostrerà se saremo stati capaci di farlo, o avremo ancora fatto finta di non capire, di non vedere.

 

Articolo tratto dal Granello di Sabbia “Fermate il mondo: voglio scendere!” di marzo/aprile 2015, scaricabile qui.

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