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di Carmen Castro Garcia, SinGENEROdeDUDAS.com
Nei corpi delle donne sono iscritte le strutture patriarcali e anche quelle capitalistiche. Corpi che nascono, invecchiano, danno vita ad altri corpi, corpi piacevoli, pazienti e talvolta ansiosi, corpi marcati, corpi inerti. Corpi in lotta permanente.
Uno dei grandi contributi dell’Economia Femminista (EF) è di far ripensare l’allocazione di risorse e priorità in risposta ai processi che sostengono la vita e gli ecosistemi. Applicando la prospettiva femminista, in quanto teoria critica, all’analisi economica, l’EF evidenzia i pregiudizi impliciti nell’economia ortodossa, nei suoi fondamenti e nella formulazione della sua applicazione, e fornisce alternative per il necessario cambiamento di paradigma.
Ogni società offre e richiede cure. La forma in cui si organizza per rispondere alle esigenze umane determina i valori su cui si basa. Sia definire le responsabilità per soddisfare tali bisogni, sia determinare in che misura le relazioni che portano al loro soddisfacimento interagiscono con il processo capitalista di accumulazione-espropriazione, saranno gli indicatori del modello sociale che si sta praticando.
Quando non si dice esplicitamente come verranno affrontate le esigenze di cura, c’è da chiedersi chi dovrebbe occuparsi di soddisfarle, perché non esistono né la “mano invisibile” né le bacchette magiche. L’inerzia dell’ordine di genere entra in funzione quando ci si aspetta che i bisogni di cure debbano essere risolti semplicemente nell’ambito familiare.
Tuttavia, quando si assume la sfida di considerare la prestazione di cure come responsabilità collettiva e comune a tutta la società, inizia a emergere una maggiore sintonia con la conformazione di un modello di società consapevole del fatto che le persone sono esseri relazionali, con corpi vulnerabili e bisognosi di cure, con intensità diversa in momenti diversi del nostro ciclo di vita; e, anche, che interagiamo in base a relazioni strutturali condizionate dall’ambiente sociale e materiale, che influenza la formazione della nostra identità.
E’ evidente come tutto ciò richieda la realizzazione di un processo radicale di trasformazione e ristrutturazione delle relazioni – lavorative, familiari, sociali, istituzionali — che non si possa più tornare indietro, e che tutto debba essere fatto a partire dall’uguaglianza tra gli esseri umani, dall’uguale possibilità di esprimersi e dall’uguaglianza di posizione sociale, contribuendo a far sì che le generazioni future possano avere tra le loro aspettative il poter godere di condizioni di vita degne.
La questione da approfondire è come adattare il ritmo del sistema economico a tempi più in linea con la rigenerazione e la riproduzione della vita. Urgono processi di intelligenza collettiva rispetto al necessario cambiamento di paradigma e al ruolo da assegnare alle politiche pubbliche. Un elemento utile per evidenziare il cammino di questa corsa di fondo è lo smantellamento delle trappole patriarcali che siamo andati integrando nella quotidianità e la creazione di sinergie femministe a partire da esperienze e azioni politiche capaci di creare un alto livello di motivazioni.
Il patto costituente del paradigma femminista
L’Economia Femminista propone lo sviluppo di un progetto etico di trasformazione sociale che attinge molto sia dalla teoria critica sia dalle resistenze femministe contro la belligeranza del (dis)ordine internazionale neo-liberale; lo sfondo è la necessità di un cambiamento di paradigma, basato sull’eguaglianza umana e sulla giustizia distributiva nella sua molteplice dimensione sociale, di genere e ecologica. Considerare le persone e la natura come fine a se stessi e non come meri strumenti per raggiungere altri obiettivi è un cambiamento strutturale che deve ridefinire, tra gli altri fondamenti, la teoria del valore e quindi ripensare ciò che produciamo, a quali condizioni, in cambio di che cosa e, soprattutto, di cosa abbiamo davvero bisogno per vivere e per il benessere globale.
Si tratta di provocare sinergie femministe per procedere nella de- patriarcalizzazione in tutti gli ambiti della vita e nelle strutture e istituzioni organizzative, con un movimento che converge sulla de-identificazione collettiva con il capitalismo, a cui si riferisce Judith Butler. La migliore garanzia di un buon sviluppo di questo processo risiederà, da un lato, nello smontare il sistema dei privilegi patriarcali concessi agli uomini e il monopolio del potere maschile che tuttavia persistono; dall’altra parte, avanzare in un movimento tendente sia alla de-naturalizzazione delle cure con la conseguente equa ri-distribuzione delle stesse, sia alla de-mercificazione della vita, diluendo l’eccessiva preminenza del mercato nei cicli vitali degli esseri umani e degli esseri viventi.
Abbiamo bisogno di un cambiamento di paradigma e l’approccio della sostenibilità della vita può propiziarlo; tuttavia, sarà un processo complesso, perché richiede di ritornare a stipulare un patto democratico radicale che identifichi le persone nella loro fragilità e interdipendenze di vita, nella loro autonomia relazionale ed eco-dipendente, invece di stipularlo a partire dalla finzione patriarcale di un homo economicus individualista, indipendente e privo di empatia sociale. Ed è un processo complesso, perché le trappole patriarcali e le “grandi narrazioni” paternalistiche che impregnano i progetti di emancipazione sono invece fonte di immobilismo. La questione importante è se siamo davvero in grado di immaginare un’organizzazione socio-economica che sappia andare oltre “il gioco a somma zero” rappresentato dall’ordine di genere. E, in tal caso, come far corrispondere a questo cambiamento il criterio della giustizia redistributiva?
Quale ruolo assegnare alle politiche pubbliche
Le politiche pubbliche possono essere uno strumento che migliora la trasformazione della realtà e che supera le disuguaglianze strutturali, o tutto il suo contrario. Stante l’estensione della precarietà sociale e delle situazioni attuali di emergenza economica, sociale e di genere, sono necessarie riforme urgenti delle politiche pubbliche sia per soddisfare le esigenze più immediate, sia per orientare verso il cambiamento del modello di società. Quando le politiche pubbliche non sono orientate alla giustizia di genere, ciò che causano è il mantenimento dello status quo patriarcale.
La chiave di questo processo è legata all’istituzionalizzazione della giustizia e all’effettiva uguaglianza in tutta la sua ampiezza. Sono d’accordo con Nancy Fraser nell’identificazione di tre tipi di politiche necessarie per il cambiamento. Di grande rilevanza sono quelle orientate alla redistribuzione – sia di risorse che di opportunità e responsabilità – nonché alle politiche di riconoscimento – che favoriscono la valorizzazione della riproduzione sociale – e anche le politiche di rappresentazione – per rendere possibile la democrazia egualitaria in ogni sua dimensione. Il loro raggiungimento si misura attraverso l’effetto che provocano sulla divisione sessuale del lavoro, la cui eliminazione è necessaria per sovvertire l’ordine di genere.
Tra le possibili alternative, un modo è quello di eliminare la distorsione andro-centrica in modo che il risultato sia quello della parità di accesso [al lavoro, NdT] e dell’uso che le persone ne fanno. Un esempio della necessità di questo tipo di politiche è fornito dalla persistenza delle differenze di genere nei lavori di cura e nei lavori non retribuiti, in materia di occupazione, salari, pensioni, disoccupazione, nella femminilizzazione della precarietà, nell’incidenza della violenza machista e delle aggressioni sessuali, ecc.. Tutto ciò mette in evidenza la divisione sessuale del lavoro e la sua stessa esistenza dovrebbe essere considerata come termometro che segnala una società malata, la cui guarigione richiede di aggredire le cause strutturali che causano tale malattia.
Un altro modo è quello di de-costruire le asimmetrie di genere esistenti attraverso il riconoscimento e la ripresa della valorizzazione della riproduzione sociale e del suo contributo allo sviluppo umano, sociale ed economico. Questo è esattamente ciò a cui mira la proposta di far emergere la cura come necessità sociale, il che significa collocarne la responsabilità nel pubblico, nel collettivo e nel comune, considerando che tanto i processi della produzione quanto quelli della riproduzione sociale sono inseparabili e che è proprio la loro interazione che genera valore sociale e, quindi, anche ricchezza e benessere. Nella misura in cui si avanza in questo percorso, si approfondirà il radicamento democratico, qualcosa in cui anche le politiche di rappresentazione incidono, non solo attraverso l’immagine con cui si rappresenta la società, la sua diversità di interessi, prospettive e esigenze, ma anche attraverso meccanismi che consentano la parità, cioè la piena partecipazione alla vita sociale, economica e politica delle donne e degli uomini come pari, cioè uguali.
Concordo con Fraser quando sostiene che il riconoscimento nell’uguaglianza non sia possibile senza ridistribuzione equa; quindi, le politiche per la trasformazione sociale devono interagire in entrambi i sensi contemporaneamente. Tuttavia, le esperienze attualmente in atto non forniscono una prospettiva troppo ottimista.
Da un lato, le politiche apparentemente redistributive soffrono dell’assenza del principio di uguaglianza di genere, un fatto facilmente verificabile con la forte polarizzazione della distribuzione del reddito e della ricchezza, la bassa progressività fiscale e il radicamento della precarietà del lavoro, che si riferisce sia all’occupazione che alla disoccupazione, allo stipendio precario, ai prezzi e alle opportunità reali, che sono aggravati dalla crudeltà che tutto ciò pesa nei confronti delle donne. Questa situazione genera una scarsa ridistribuzione di tempo, lavoro e responsabilità. Per quanto riguarda le presunte politiche di riconoscimento, si sta consolidando una nuova idea di omogeneizzazione, basata sull’individualità, la de-politicizzazione e la frammentazione sociale di identità diverse, qualcosa di più vicino agli interessi del soggetto “imprenditore” liberale che allo sgretolamento delle frontiere identitarie e alla convivenza plurale in un contesto di uguaglianza. La bassa qualità democratica che si manifesta nel deficit di rappresentanza femminile parla da sola del profondo disequilibrio che permea ancora queste politiche.
La buona notizia è che sarebbe possibile agire a partire dalle politiche pubbliche verso il cambiamento di paradigma, riorientandole in base alla loro potenziale capacità di trasformazione di genere, cioè alla loro capacità di sovvertire l’ordine di genere stabilito, procedendo nella riorganizzazione sociale di tempi, lavori e reddito, a partire da, e per, la giustizia sociale, di genere ed ecologica.
Ora, nessuna politica specifica, in modo isolato, potrebbe farlo da sola, motivo per cui la giustizia sociale, di genere ed ecologica, devono essere analizzate in un’ottica integrale e interconnessa, il che di per sé implica già un cambiamento strutturale importante: uscire dall’approccio a breve termine dei compartimenti stagni.
È tempo di costruire una nuova realtà, in cui l’identità delle donne come soggetti politici ed economici non sia messa in discussione o paternalisticamente tutelata.
Iniziative per la riorganizzazione sociale di tempi e lavori e potenzialità trasformatrice di genere
Di particolare interesse sono le iniziative che promuovono attivamente un cambiamento nei modelli di genere. Cioè, quelle con potenziale di trasformazione di genere positivo, che influenza direttamente i comportamenti individuali, scoraggiando – personalmente e politicamente – la persistenza del sistema tradizionale basato sull’ordine di genere. In questo senso, è essenziale prestare attenzione al coinvolgimento degli uomini nella trasformazione dei ruoli di genere e anche al fatto che il potere pubblico deve svolgere un ruolo di garante nel garantire condizioni di uguaglianza per l’esercizio effettivo dei diritti di tutte e di tutti.
Citerò solo sei proposte in quella direzione, capaci di incidere direttamente in una ridistribuzione più equa di tempi e lavori e nella revisione delle priorità dei tempi di vita:
- Riduzione della durata massima della giornata lavorativa, che consentirebbe di spostare la centralità del lavoro mercificato nelle nostre vite e anche una ridistribuzione dei lavori esistenti; a questo obiettivo erano indirizzate le 35 ore a settimana (esperienza abbandonata in Francia) e le 30 ore con parità salariale (esperienza sviluppata in Svezia) o anche le 21 ore settimanali proposte dalla New Economic Foundation.
- Creazione di posti di lavoro pubblici nei settori collegati con i lavori di riproduzione sociale (assistenza all’infanzia, assistenza agli adulti, assistenza domiciliare e cura delle dipendenze, rigenerazione ambientale, manutenzione di parchi e giardini, energie rinnovabili, ecc.). Creare condizioni decenti per lo sviluppo professionale nel settore dell’assistenza è la chiave per cambiare il modello produttivo, poiché faciliterebbe il passaggio dall’attuale aberrazione estrattivista ad una produzione desiderabile per la sostenibilità della vita.
- Adattamento delle condizioni di lavoro del lavoro domestico e sua perequazione con gli altri settori professionali che incidono sulla riproduzione sociale, a partire dal pubblico impiego. Questo è un settore ancora associato all’economia informale e fortemente femminilizzato; secondo i dati dell’OIL, oltre il 90% delle lavoratrici domestiche è senza alcuna copertura sociale. Le situazioni di estrema vulnerabilità che caratterizzano questo lavoro, riflettono una certa connivenza sociale con l’accettazione di regimi di semi schiavitù e un’inattitudine politica di fronte alle varie resistenze a ratificare la Convenzione 189 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) per equiparare i diritti e la protezione delle lavoratrici domestiche e della cura al resto delle persone lavoratrici. Non ci sono scuse: nulla giustifica il permanere di questo aspetto classista nell’oppressione di genere.
- Equiparazione dei permessi di maternità/paternità in modo che siano uguali, non trasferibili e interamente pagati per ciascun genitore e successiva estensione graduale della sua copertura fino al primo anno di vita del bambino. L’analisi comparata in 27 paesi europei mostra che questa configurazione dei permessi promuove un cambiamento del comportamento maschile e una ripartizione più equa dell’uso del tempo dopo la nascita di un figlio/una figlia, per cui la sua potenzialità favorisce direttamente la diluizione della divisione sessuale del lavoro.
- Creazione di servizi pubblici di assistenza alla cura, compresi servizi specifici per l’educazione della prima infanzia da 0 a 3 anni (che sarebbero dagli 1 ai 3 anni, una volta garantito che il primo anno di vita di un bambino può essere curato direttamente dai propri genitori) e servizi di assistenza agli anziani, fornendo una copertura ad ampio spettro e varie tipologie di servizi (da forme di convivenza condivisa a risorse abitative, da servizi di attenzione specifica a svago diurno e interazione sociale). A questo proposito, è sempre più necessario ripensare l’estensione di opportunità per articolare iniziative di co-gestione pubblica e sociale in cui le persone anziane possano rimanere soggetti attivi nell’interazione durante il loro processo di invecchiamento.
- Sviluppo di servizi per promuovere l’autonomia personale e la cura della dipendenza, con un necessario cambiamento di approccio che riduca l’assistenzialismo e le misure palliative alle sole situazioni di grande dipendenza e favorisca la creazione di una vasta rete di servizi multilivello orientati all’accompagnamento e al supporto dei processi di autonomia personale.
Credits: EFDiversas
L’effetto combinato delle sei proposte sarebbe estremamente benefico per l’uguaglianza di genere, capace di generare cambiamenti a breve termine e di rafforzare il potenziale di trasformazione di genere nella strategia di approccio all’assistenza. Benché queste proposte abbiano un ampio sostegno e consenso sociale, la mancanza di impegno politico ne ostacola la realizzazione.
Nonostante l’indifferenza politica e le situazioni di emergenza e vulnerabilità di cui soffriamo a causa delle politiche di austerità degli ultimi anni, la realtà è che nascono continuamente altri tipi di iniziative nate da reti di collaborazione e autogestione tra cittadini/e. Allo stesso tempo, crescono le forme di economia sociale e solidale, che stanno aprendo reti di scambio e spazi economici non necessariamente basati sulla moneta, consolidando ulteriormente le fondamenta di un tessuto economico fatto di relazioni più orizzontali e corresponsabile della cura dell’ambiente di vita delle persone.
Molte delle iniziative di autogestione dei cittadini/e si sono consolidate in questi ultimi anni, a partire dai reali bisogni della vita quotidiana e anche dall’interesse a articolare altre forme di solidarietà, cooperazione e responsabilità condivisa con le esigenze di cura, a partire dalla prossimità locale. Sebbene io accolga con favore questa spinta dei cittadini/e, è consigliabile mantenere una relativa cautela davanti al rischio di un graduale disimpegno di responsabilità pubblica delle istituzioni, che sono invece quelle che dovrebbero garantire l’effettiva equiparazione dei diritti per tutte/tutti.
D’altra parte, alcuni processi “municipalisti” stanno promuovendo iniziative che facilitano i processi di cambiamento, sia nella creazione di modelli di città più abitabili, vivibili e con una maggiore spinta verso la parità di genere, sia nell’impulso ai processi trasformativi dal punto di vista del genere nelle istituzioni. Esperienze come quelle iniziate a Barcellona, Saragozza, Valencia o Madrid portano una ventata di aria fresca e piena di speranza nell’articolazione di reti di servizi pubblici “di prossimità” e accessibili, che invitano a ripensare la città in termini di uguaglianza di genere, con un ruolo attivo nella riorganizzazione sociale di tempi e lavori su scala di prossimità. Allo stesso modo, esperienze come quelle dei Bilanci pubblici sensibili al genere a Madrid o a Castellón, l’approvazione delle Istruzioni per la Trasversalità dell’Uguaglianza di genere a La Coruña o le istruzioni sull’inclusione di clausole strategiche negli appalti pubblici a La Coruña, Valencia, Madrid o Barcellona o i Percorsi formativi per l’uguaglianza di genere del personale comunale sviluppato a La Coruña e Valencia sono chiari riferimenti di azioni istituzionali che facilitano i processi di cambiamento strutturale.
Lo stato embrionale di alcune delle idee municipaliste pone innanzitutto un paio di questioni: da un lato, la necessità di assumere che il fatto di gestire meglio la (dis)uguaglianza non è la stessa cosa che facilitare i processi di trasformazione sociale e, d’altra parte, ci fa tornare alla domanda inizialmente posta: siamo davvero in grado di immaginare un’organizzazione sociale ed economica che vada oltre il “gioco a somma zero” rappresentato dall’ordine di genere? La sfida che questo dibattito pone nel processo di trasformazione della società continua nell’agenda politica e sociale.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 44 – Numero speciale di Marzo 2020. Dossier dell’associazione Economistas sin Fronteras: “Economia Femminista: Visibilizzare l’invisibile”