di Sergio Brenna (docente Politecnico di Milano)
«Oggi è l’americanismo indigesto che folleggia in grattacieli. Perché le forze nuove della città si esprimono in modi così alieni, così sciocchi, così dannosi all’utile?
Anche se animato da volontà di far nuovo, di far grande, ogni signore delle ferriere suole affidare la soluzione dei propri problemi a un suo tecnico, necessariamente ubbidiente alla moda che è nell’aria e alla personalità volitiva del padrone.
Costui ha sempre delle idee, raccolte a Londra, a Parigi, oggi soprattutto in America: costui si gloria non di inventare (la parola è disusata fuor del campo tecnico) ma d’imitare ieri un lord Derby, o un banchiere Laffitte, oggi una Corporation famosa pel suo grattacielo.
…poggiando su questo caposaldo raggiunto col ragionamento e coi calcoli, noi scorgiamo un nuovissimo panorama davanti agli occhi della mente: vediamo il centro mercantile di Milano dover risorgere con edifici relativamente bassi, e la città futura assomigliarsi in questa porzione centrale molto più alla città del Rinascimento che non a quella dello “stupido secolo XIX” che la guerra ha distrutta.
…le case non hanno ragione d’essere più basse di quanto lo fossero ieri (limite generale a m. 24), ma neppure di salire più in alto.»
[Tratto da G. de Finetti, Sulle aree più care case alte o case basse ?, (1945-’46 circa), ora in G. de Finetti, op. cit., 2002, Milano, Costruzione di una città, Hoepli, Milano 2002, p. 395.]
Nelle più o meno grandi trasformazioni urbane attuatesi a Milano dal quindicennio scorso (ex Fiera/Citylife, Porta Nuova District) o in corso di definizione (ex scali ferroviari FS/Sistemi Urbani, ex Piazza d’Armi, ex caserme, ecc.), le quantità edificatorie consentite dal Comune sono state “consensualmente contrattate” in base ad accordi con le proprietà fondiarie, determinandoli non su preventivi criteri di congruità urbanistica, ma solo sulle aspettative di rendita delle proprietà, in base alla necessità di risanare situazioni debitorie pregresse (Fondazione Fiera, con 250 milioni di debito imprevisto per la costruzione del nuovo polo di Rho-Pero) o alle disponibilità economiche degli investitori finanziari (Intesa San Paolo e Generali a Citylife; Hines-Catella prima e Fondo Sovrano Qatar poi a Porta Nuova), che hanno consentito loro di pagare alle proprietà delle aree una rendita fondiaria doppia di quella corrente per le operazioni immobiliari più usuali (1.800 € per metro quadro di superficie commerciale vendibile contro i 900 €/mq correnti nel 2005 per operazioni immobiliari di media dimensione), con una scommessa speculativa sull’effetto monopolistico atteso sull’orizzonte dei successivi 15-20 anni, e che solo operatori finanziari di quella dimensione potevano permettersi di affrontare e anche di rischiare di perdere – come in parte sta accadendo – senza con ciò andare in fallimento.
Oltre tutto, ciò è avvenuto senza nemmeno che il Comune riuscisse ad ottenere una consistente quota di compartecipazione economica agli utili, che vi si sarebbero potuti stimare attesi.
Quanto a quello di ottenere adeguate risorse nella dotazione di spazi pubblici, corrispondenti ad una concezione di moderna città europea la partita si è rivelata altrettanto perdente: solo un terzo delle dotazioni di verde e servizi pubblici. promessi nelle previsioni iniziali, è stato effettivamente realizzato, perché altrimenti non vi sarebbe stato spazio sufficiente dove collocare gli edifici privati, o avrebbero dovuto essere alti il triplo delle già incombenti torri da 200 metri di altezza.
Ciò che non è divenuto spazio pubblico ed è stato pagato alla proprietà fondiaria originaria 2.000 €/mq, è stato indennizzato al Comune a 300 €/mq, cifra con la quale si può espropriare una stessa quantità di aree da destinare ad uso pubblico solo in estrema periferia.
Quel criterio di falsa equipartizione mezzadrile (metà al pubblico, metà al privato), che viene surrettiziamente spacciato come equa divisione delle aree (ma non nella definizione dei pesi insediativi), in questo caso non è stato ritenuto criterio valido affinché il Comune venisse remunerato dall’investitore alla pari della rendita fondiaria: 1.000 € ciascuno!
Sia nel caso di Citylife che in quello di Porta Nuova si tratta quindi di attuazioni orfane di qualunque orientamento urbano, insediativo e tipologico riconoscibilmente guidato e voluto dall’ente pubblico, e lasciato totalmente alla proprietà privata nella possibilità di stabilire liberamente non solo “dove e come”, ma anche “quanto” spazio pubblico, e soprattutto quanto spazio pubblico per abitante/utente realizzare effettivamente nell’intervento.
In fondo proprio come si è fatto negli anni ‘50 e ‘60, con le lottizzazioni privatisticamente autoregolate, solo con un po’ più di agio economico e un po’ più di bizzarria nelle finiture dell’immagine degli edifici!
Proverò allora a ripercorrere la storia della legislazione urbanistica in Italia, cercando di dimostrare perché quelle quantità minime di spazi pubblici e di spazi pubblici per abitante/utente (gli “standard”, appunto), che dovrebbero essere garantite per legge in modo indisponibile dalla cedevole volontà del Comune e dalle fantasiose soluzioni dei progettisti, loro ispirate dalle aspettative delle proprietà private, siano in realtà un elemento necessario anche se non del tutto sufficiente a garantire l’interesse pubblico collettivo degli esiti urbani di tali interventi.
Le norme sugli standard minimi di spazio pubblico e sulle distanze minime degli edifici tra di loro e dai confini di proprietà furono introdotte nel 1967 con la Legge “Ponte” (così detta perché doveva essere una modifica di emergenza della legge del ’42, in attesa di una riforma organica che non arriverà mai) e il successivo Decreto Ministeriale del 1968.
Essa ribadì l’obbligo per i Comuni di approvare un Piano Regolatore Generale (PRG) prima di qualunque possibilità di intervento da parte dei privati, i quali potevano farlo solo in base alle localizzazioni e alle quantità edificatorie e di spazi pubblici in esso stabilite.
Ciò era già previsto nella Legge Urbanistica approvata nell’agosto del 1942, sotto l’impulso dell’architetto-gerarca Alberto Calza Bini, segretario del Sindacato Nazionale Fascista Architetti e fondatore dell’Istituto Nazionale di Urbanistica-INU, finita presto nel dimenticatoio in seguito agli eventi bellici e alla successiva fase di emegenza della ricostruzione.
Non deve, quindi, sorprendere se, negli Anni Cinquanta e Sessanta, quando la ripresa economica, conseguente all’iniziale ricostruzione del Piano Marshall, andrà diffondendo anche un nuovo e più duraturo impulso all’attività edilizia, i Comuni si accinsero ad affrontare i problemi posti dalle trasformazioni urbane in corso come se essa non fosse mai esistita, tornando invece a ricorrere ad una prassi ancor più antica e per essi più usualmente abituale: quella delle “convenzioni”, cioè di accordi di natura privatistica, presi di volta in volta con chi pressava per poter edificare, pur in assenza di qualunque progetto pubblico complessivo di assetto della città.
Il Comune, cioè, a partire dalla volontà espressa dalla proprietà di edificare una certa area, stipulava con essa un contratto di diritto privato in cui, a fronte dell’impegno del Comune a rilasciare le licenze edilizie per certe volumetrie concordate, essa si impegnava a realizzare le strade di accesso all’area, quelle di distribuzione interna, i marciapiedi, l’illuminazione stradale e, nei rari casi migliori, anche a cedere le aree per costruire qualche opera pubblica.
Dove e quanto costruire era perciò in prima istanza decisione della proprietà fondiaria (o del suo potenziale acquirente) in base alle proprie risorse economiche e alle proprie capacità tecnico-costruttive; con quali contropartite in termini di aree e servizi pubblici era affidato, di volta in volta, alla capacità o volontà di contrattazione degli amministratori pubblici del momento: il rapporto fra quantità edificabili ammesse e attrezzature urbane corrispondenti che ne derivava, l’assetto insediativo della città, ne era il risultato occasionale.
I Comuni di maggior dimensione che casualmente si trovavano ad avere un Piano Regolatore già in vigore in base alla Legge del 1865, considerandolo un intralcio alla possibilità di stipulare liberamente quegli accordi convenzionali, escogitarono artifici giuridici per poterne aggirare le indicazioni: Milano fu il caso più emblematico con il proverbiale “rito ambrosiano”, che considerava le quantità edificatorie stabilite nelle convenzioni, ma in contrasto col Piano Regolatore vigente, come “licenze in precario”, cioè consentite provvisoriamente in attesa di una futura modifica del Piano e da demolirsi se in seguito non confermate (cosa in pratica ovviamente impossibile, poiché si sarebbe trattato di demolire interi quartieri ormai abitati). I Comuni minori, in genere nell’hinterland metropolitano dei grandi capoluoghi, in via di conurbazione sotto la spinta del flusso migratorio, in assenza di Piano Regolatore, si regolavano “a vista”.
L’esito fu ovviamente caotico, ma occorse un episodio drammatico e clamoroso, come la frana di Agrigento nel 1966 (il crollo di 200.000 metri cubi di edifici malamente accatastati sul fianco di una collina franosa, fortunosamente senza vittime, dati i segni premonitori dell’evento), perché il Parlamento varasse un provvedimento d’urgenza, per porre fine a quella prassi illegittima e subalterna, prevedendo per norma di regolamento alcune prescrizioni inderogabili, quali gli “standard” pubblici, fissati per decreto nel 1968.
In sostanza, in essa si prescrive una distanza minima di 5 metri dai confini di proprietà, una distanza tra gli edifici pari a quella di altezza maggiore con un minimo assoluto di 10 metri tra pareti finestrate; nonché, attraverso i Piani Regolatori Generali e relativi Piani Attuativi, i progettisti dovessero garantire la realizzazione di almeno 18 mq per abitante di spazi pubblici di quartiere + altri 15 mq per abitante di parchi territoriali e 2,5 mq per abitante di grandi funzioni urbane (attrezzature per l’istruzione superiore all’obbligo esclusi gli istituti universitari e attrezzature sanitarie ed ospedaliere), indicando anche come dovessero computarsi gli abitanti delle future realizzazioni edilizie: mediamente 1 per locale, inteso come 30 metri quadri di pavimento muri compresi.
Inoltre, le aree previste ad uso pubblico nei Piani Regolatori dovevano essere cedute gratuitamente dai privati ai Comuni al momento dell’attuazione dei loro Piani di lottizzazione e dietro pagamento dei costi delle opere pubbliche necessarie che vi erano previste (i cosiddetti “oneri di urbanizzazione”), sostituibili in alternativa dalla loro diretta realizzazione da parte privata, come per lo più si fece con le cosiddette opere di urbanizzazione “primaria”, cioè strade, marciapiedi e parcheggi, fognature, pubblica illuminazione, ritenute più facilmente controllabili in base a prescrizioni tecniche. I Comuni, viceversa, preferirono farsi pagare i costi presunti delle urbanizzazioni “secondarie”, cioè scuole materne, elementari e medie, centri civici, parchi, eccetera, per le quali il progetto su incarico dell’ente pubblico avrebbe dovuto maggiormente caratterizzarsi in consonanza agli obiettivi di orientamento politico e sociale delle amministrazioni locali.
Sta di fatto che sulla base di quelle prescrizioni normative tradotte nelle planimetrie e nelle norme tecniche di attuazione dei PRG, i privati erano poi autorizzati a far presentare ai Comuni dai propri progettisti dei piani di lottizzazione, i quali pur rispettandone le prescrizioni quantitative di cessione gratuita degli spazi pubblici, spesso erano più che altro improntati alla tutela e massima valorizzazione della struttura fondiaria pregressa: edifici di maggior dimensione e altezza in proporzione a quella dei lotti, orientamento determinato dalla forma e distanza dei confini, cessione frammentata pro quota degli spazi pubblici prescritti.
Era proprio ciò che l’impostazione della legge del ’42 si proponeva di evitare prevedendo, invece, l’obbligo anche di una seconda fase di conformazione pubblica, quello del Piano Particolareggiato con indicazione dei comparti edificatori e degli andamenti planivolumetrici.
In questo modo, il piano di lottizzazione proposto dalle proprietà private successivamente al Piano Particolareggiato di iniziativa pubblica si riduceva a poco più che un riaccatastamento dei lotti fondiari per adeguarli al disegno di conformazione urbana dei comparti edificatori e del planivolumetrico del Piano Particolareggiato di iniziativa pubblica.
Con la Legge Ponte del ’67, invece, il Piano di lottizzazione dei privati direttamente successivo al PRG configura un piano di autonoma effettiva conformazione urbana, in cui prevale però la tutela dell’assetto privatistico-fondiario.
Gli esiti spesso farraginosi, dal punto di vista dell’esito di conformazione urbana, dei Piani di lottizzazione dei privati ha via via portato a considerare irrilevante il miglioramento quantitativo imposto dagli standard minimi di spazi pubblici fissati per norma di legge, anche quando – con leggi urbanistiche regionali, tra cui per prima nel 1975 quella della Regione Lombardia seguita poi da quasi tutte le altre – lo standard minimo di spazio pubblico di quartiere previsto a livello nazionale è stato aumentato di circa il 50%, sino a 25-30 mq per abitante.
Spesso per dimostrare l’opportunità dell’approvazione di questi strumenti di “pianificazione contrattata” al di fuori delle regole del PRG/PGT, si è addotto il criterio ingannevole del 50% dell’area destinata ad uso pubblico, presentata come una sorta di equipartizione mezzadrile.
Metà al pubblico, metà al privato: cosa c’è di più equo? Non è assolutamente così, perché dipende da quanto si vuol lasciare edificare sull’altra metà privata; lo sanno bene gli immobiliaristi che non valutano il valore a cui pagano le aree a metro quadro di suolo, ma a metro quadro di pavimento commerciale vendibile che ci si può realizzare!
E’, al contrario, possibile dimostrare che, con solo il 50% dell’area pubblica, se si vuol davvero poter realizzare lo standard per abitante/utente di legge, bisognerebbe sottoutilizzare l’edificabilità del 50% privato, rispetto a quanto sarebbe possibile fare nel rispetto delle norme urbanistiche di legge con la realizzazione del 60-65% ad uso pubblico.
A meno che – come spesso capita in questi “fantasiosamente innovativi” strumenti di “pianificazione contrattata” – il 50% pubblico sia ritenuto il massimo insuperabile e, invece, l’edificazione sul 50% residuo sia una variabile senza alcun limite che non siano la disponibilità economico-finanziarie e le tecnico-costruttive della proprietà.
Un po’ come – mutatis mutandis – accaduto nelle deprecate “convenzioni” anni ’50 e ’60, e con l’unica novità delle bizzarrie architettonico-progettuali da archistar che fomentano il consumo opulento degli adoratori di facili novità di immagine, trascinati soprattutto dall’esempio di influencer mediatiche/i, rapper, calciatori, starlettes cinetelevisive e via discorrendo.
Ed è esattamente quello che è successo a Milano con i progetti Citylife e Porta Nuova: dei 45 mq/abitante di spazi pubblici (25 di verde e servizi di quartiere+20 circa di parco territoriale) previsti e promessi nel programma urbanistico inizialmente approvato, se ne sono riusciti a realizzare solo 15, altrimenti non ci sarebbe stato spazio sufficiente dove collocare gli edifici privati, o avrebbero dovuto essere alti il triplo (600 metri e oltre, come a Dubai e negli Emirati Arabi, che però sorgono nel deserto, con temperature esterne di 60°, e non nel centro di una città europea !).
E sltrettanto rischia ora di accadere di nuovo sugli ex scali ferroviari di Farini e Romana, dove si concentrerà la maggior parte dell’edificazione prevista, con densità e altezze inevitabilmente molto simili ai due casi precedenti.
Il fatto è che occorre respingere la cultura di chi sostiene che, purché una quota almeno paritaria del plusvalore torni al Comune, qualunque modalità e conseguente forma urbana derivante da quantità edificatorie e di spazi pubblici proposti dalla proprietà fondiario-immobiliare vada bene.
A Milano è andata così con ex Fiera/Citylife, ed è lo stesso criterio usato a Roma da Marino/Caudo per giustificare la volumetrie su ex Fiera/EUR (180 milioni di debito gestionale su Nuova Fiera) o la scelta del nuovo stadio della Roma a Tor di Valle: ti dò tutta la volumetria accessoria necessaria a pagare i debiti o le opere viabilistico-ambientali in un’area che di per sè sarebbe inadatta, ma che serve a salvare l’Ente Fiera o il gruppo immobiliare Parnasi dal fallimento.
Ciò che viene sacrificato alla logica del tornaconto economico-finanziario è una visione di indirizzo pubblico da parte del Comune su localizzazioni, quantità, densità e altezze degli edifici, quantità e ruolo dello spazio e dei servizi pubblici.
Ciò che tornare in campo è la priorità di una visione di indirizzo pubblico delle trasformazioni urbane, che si annunciano sempre più diffuse nelle nostre città, in modo che, sulla base di congrui rapporti tra densità edificatorie e spazi pubblici, sia possibile aprire un confronto con la collettività insediata anche su tipologie e forme degli edifici nei rapporti con gli spazi circostanti pubblici e privati e, a partire da ciò, tornare a mettere in campo una discussione sulla possibilità di accesso e fruizione del bene casa e delle sue dotazioni pubbliche, anche per i ceti economicamente esclusi dalle tendenze speculative del mercato immobiliare.
In una parola, il ritorno in campo di una rinnovata concezione di urbanistica pubblica.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 40 di Maggio – Giugno 2019. “Una città per tutti“