Cosa si fa di una città? Il caso de La Vida di Venezia

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di Silvio Cristiano

Come forse saprete, Venezia è divisa in sestieri. Uno di questi ha una forma strana e va dal carcere dietro Piazzale Roma fin quasi al Ponte di Rialto, inglobando l’isola nuova del Tronchetto. Per ricordarci che siamo in un paese laico, per il momento chiameremo questo sestiere Santa Croce.

L’area di cui vi parlo è una sacca compresa tra il Canal Grande e l’itinerario più corto per arrivare dalla ferrovia a Rialto e Piazza San Marco [l’itinerario più battuto è invece il più facile da trovare: la Strada Nova, una sorta di autostrada urbana ottenuta interrando specchi d’acqua]. L’area in questione è dunque rimasta a lungo protetta dai grandi flussi turistici e risulta animata dalla sede storica di Urbanistica e Pianificazione dell’Università Iuav di Venezia, la cui (fu) vitalità ha favorito la nascita di due orti urbani e di uno spazio culturale. A questi si aggiungono altri luoghi, laboratori e associazioni che – parrà bizzarro – di fatto non esistono in tali forme e in tale densità nel resto della città. Un terreno fertile per un primo livello di incontro e produzione culturale, oltre che per una certa attenzione a leggere le varie dinamiche in corso, ma comunque segnato dalla dicotomia gestore-fruitore mediamente giovane, mediamente istruito, mediamente impegnato.

Tra le dinamiche in corso, i bar e i ristoranti della zona sono per la maggior parte comparsi nell’ultimo decennio, mentre alberghi e case vacanze vengono su come funghi, quasi sempre prendendo il posto di botteghe e servizi pubblici – in generale tutte quelle attività che rendono vivo un quartiere. Nel settore pubblico, con le alienazioni, ha iniziato forse la stessa università, mettendo in vendita una decina di anni fa proprio la sede di Urbanistica col relativo giardino. Erano ahinoi altri tempi e le mobilitazioni studentesche fecero cambiare idea al rettore, salvando almeno l’edificio principale (Ca’ Tron, che pure oggi non gode proprio di ottima salute, svuotata in questa primavera 2019 da didattica, ricerca e da un più che decennale orto sociale per far posto a un padiglione temporaneo della Biennale) e – riprendendo il discorso – creando un po’ di humus aggiuntivo nel quartiere adiacente. Altri immobili universitari furono comunque sacrificati: uno ha oggi cinque stelle lusso, l’altro sta per diventare il primo albergo ad occupare un intero stabile con affaccio su Campo San Giacomo da l’Orio, lo spazio pubblico più importante di questo quartiere nel sestiere. Tale campo1 conta al momento altre strutture ricettive e cinque tra ristoranti e bistrot con relativi plateatici (cioè i tavolini su suolo pubblico).

Campo San Giacomo è uno dei pochi a Venezia ad ospitare delle panchine, e con esse accoglie abitanti di ogni età. Un campo che in assenza di spazi verdi è un luogo di incontro e di gioco per bambini e adolescenti e che, mancando altri punti di ritrovo, ospita iniziative d’ogni tipo: oltre a uno dei già citati orti urbani, manifestazioni danzerecce, performative, folkloristiche e sportive.

Nell’unica porzione di campo libera dai tavolini dei ristoranti, a pochi passi dall’ingresso dell’omonima chiesa, sorge l’Antico Teatro di Anatomia, costruito nella seconda metà del Seicento per il progresso delle conoscenze medico-scientifiche della Serenissima, su donazione testamentaria di un privato.

Per quasi due secoli è stato un centro di studio e ricerca e, dopo una breve parentesi come trattoria2, il piano rimasto pubblico – cioè il pian terreno – è passato in mano alla Regione Veneto, restando per gran parte del tempo sottoutilizzato; in questa fase, finestre di vita sono state rappresentate dalla prima sede veneziana dell’Arcigay-Arcilesbica e da un’occupazione studentesca avvenuta proprio a denunciarne l’abbandono. Nel Piano regolatore della Città Antica (fine anni ’90) ne viene comunque ribadito l’interesse storico nonché la destinazione d’uso pubblico. Di fatto è registrato come un monumento. Ciononostante, nel 2017 l’immobile viene messo in vendita3 e le bocche di tutta la città iniziano a parlare della possibilità che diventi un altro ristorante. Base d’asta: 900 mila euro per quasi duecento metri quadri – insomma meno della metà del valore di mercato.

Per inciso: la Regione ha annunciato l’estate scorsa l’alienazione di un altro centinaio di immobili per un valore di 160 milioni di euro, meno dell’1% del suo bilancio annuale e più o meno pari alla rata annuale di debito. Anche un bambino può capire che, se vendo un pezzo di patrimonio oggi in cambio di denaro che mi va via subito, nell’arco di poco tempo rimango senza soldi e senza patrimonio. E se patrimonio vuol dire compito del padre (ne riparliamo più avanti) questo approccio non sembra proprio quello di un buon padre di famiglia.

L’immobile viene messo in vendita – dicevamo – e associazioni cittadine e singoli abitanti tornano a chiedere di porre fine all’abbandono, rivendicandone la funzione pubblica in quanto tra i pochi immobili pubblici ancora rimasti in zona e, più in generale, alla luce delle dinamiche di trasformazione urbana (turistificazione) in corso. Organizzano quindi cene e iniziative in campo, compreso un laboratorio che porta all’elaborazione di un progetto di uso pubblico rispedito però al mittente. La vendita viene perfezionata nell’estate del 2017, prevedendo però, trattandosi di patrimonio pubblico, un lasso di tempo in cui un altro ente pubblico può esercitare il diritto di prelazione. Il nuovo proprietario manifesta l’intenzione – in barba alla destinazione d’uso – di farne un ennesimo ristorante.

È in questa fase che lo spazio, riaperto da alcuni operai per effettuare dei lavori di routine, viene popolato spontaneamente dagli abitanti del quartiere che, preoccupati per l’imminente privatizzazione, subito lo aprono alla città, invitando gli enti pubblici competenti ad esprimersi per la prelazione e facendo dell’Antico Teatro un laboratorio di autorganizzazione dal basso. Dagli enti pubblici ovviamente solo un eloquente silenzio (chissà se qualcuno ha mai davvero creduto al romantico lieto fine…). Ad ogni modo, abitanti di ogni fascia di età si fanno intanto protagonisti di un calendario di attività puntuali e quotidiane promosse e condotte gratuitamente, diventando un organismo fluido e inclusivo (cioè senza operare una pur frequente “recinzione” di un bene comune4).

All’interno di questa esperienza5 si moltiplicano i discorsi sulla città, sulla sua turistificazione e sui problemi dell’abitare in un contesto in balìa dell’iniziativa privata, come si denuncia sempre più spesso, ma con il solito “aiutino” del pubblico, come si dice un po’ meno. Momenti di semplice incontro e di convivialità con, adesso sì, giovani e meno giovani, con persone di varie estrazioni sociali e con trascorsi non necessariamente impegnati. Le persone si avvicinano come possono e come possono contribuiscono, in un fermento che ricorda una vecchia canzone di Pierangelo Bertoli (“Vedere il quartiere”), mettendo da parte la retorica e in Campo una partecipazione genuina. Un fermento che rivela la gioia condivisa di uscire di casa e di farlo al di là del venale commercio, un commercio che, scomparendo inesorabilmente tutte le altre attività, è sempre più marcato dal meccanico registratore di cassa del supermercato.

Centinaia se non migliaia di persone sperimentano nei mesi lo scambio, il dono, il favore, il mutuo aiuto e il lavoro informale. Un fare comunità che fa fiorire le relazioni, che rende resilienti (per usare non a sproposito una parola fin troppo alla moda). Qualità queste che però non rendono, non monetizzabili e dunque ostili. La comunità così creatasi recupera la memoria del quartiere e dà vita a una ludoteca permanente, a mostre, prove e spettacoli musicali e teatrali, festival di danza, semplici pranzi e cene condivise in campo, incontri e dibattiti con persone provenienti da tutto il mondo, dal filosofo “nostrano” Giorgio Agamben alle compagne honduregne di Berta Caceres6. Mantiene uno scambio continuo con studenti e ricercatrici di atenei italiani, europei ed oltre, ma soprattutto un dialogo aperto con tutte quelle realtà che, a Venezia come fuori, si interessano della difesa dal basso delle città.

Assieme all’Associazione Poveglia Per Tutti7 e all’Università Iuav di Venezia, ad aprile 2018 la Comunità organizza un Convegno nazionale “L’altro uso. Usi civici e patrimonio pubblico”. Poco prima aveva firmato una Carta cittadina sul patrimonio pubblico e collettivo insieme a decine di altri gruppi e associazioni. Questo per inserire ogni singola vertenza in un ragionamento più ampio che coinvolge tutta la città, smantellata e privatizzata pezzo dopo pezzo, con l’obiettivo di frenare tale tendenza. Dopo il convegno si creano tavoli tematici più ampi, che insieme alle/agli abitanti dell’esperienza di Campo San Giacomo proseguono le attività di dialogo col resto della città, di mappatura dei pezzi di città in pericolo e di elaborazione di proposte per far posto anche a Venezia a modi non convenzionali di animare dal basso degli spazi collettivi.

Sgomberata dai locali nell’arco di meno di sei mesi, quella che si è da subito definita “la comunità della Vida” continua ad esistere, a testimonianza del fatto che la sua esperienza di cura di uno spazio fisico ha coinciso soprattutto con la nascita di un’esperienza immateriale fatta dalle relazioni innescate. Dopo aver ricevuto la solidarietà di migliaia di persone durante una manifestazione spontanea e poi quotidianamente con adesivi e cartelli sui vetri di case ed esercizi commerciali, la comunità rimane altri nove mesi in campo a rivendicare l’uso collettivo dell’immobile. Oggi la comunità non è più ogni giorno in campo ma continua a vigilare sulla corretta destinazione d’uso dell’Antico Teatro di Anatomia, forte di una diffida presentata da tre associazioni affinché il Comune di Venezia non forzi gli strumenti urbanistici consentendo la trasformazione in un ristorante, e a proporre una sua idea di città altra. Non dimentica del suo punto forte conviviale, continua ad animare saltuariamente il “suo” Campo con pranzi e cene condivisi.

Resta in sospeso la questione del patrimonio pubblico e del “compito del padre” che abbiamo incontrato nell’inciso: lo stato delle cose sembra suggerirci che “il bene di tutte e tutti” non è nelle mani di un buon padre di famiglia. Sulla base dell’esperienza de “La Vida” e di tutte le comunità aperte che si creano e fioriscono dal basso, c’è forse da immaginare non più un padre bensì una madre, tante madri, per perseguirlo: un’alternativa a un modello per cui una città che vive va cancellata, ma una città che muore può ancora far profitto per il privato (pare emblematica la celebre fotografia che ritrae due turiste con sporte griffate nel bel mezzo dell’acqua alta eccezionale di ottobre dello scorso anno) e tutto sommato convenire anche alle pubbliche amministrazioni, se non altro per vantare a fine anno qualche misero punto in più sul PIL8.

L’esperienza della Vida pone allora una serie di domande. Cos’è allora una città se non chi la vive? Cos’è invece se non un feticcio quel contenitore vuoto che smuove i consumatori del viaggiare compulsivo? Che spazio resta ancora per un’idea di città come luogo di relazione, scambio e condivisione? Quale eredità per la preziosa saggezza di una città lenta come Venezia, per sua natura catalizzatrice di incontri, aperta e col senso del limite in un’epoca in cui – le giovanissime e i giovanissimi ce lo stanno gridando forte – dovremmo essere più vigili che mai e riconsiderare tutto e subito?

Chiaro, il Sestiere di Santa Croce a Venezia non è una periferia e nemmeno un quartiere disagiato. Ma, forse proprio per il loro non soffrire di problemi di base che inevitabilmente distraggono nel quotidiano, esperienze come quelle della Vida sembrano in grado di testimoniare che può esistere ancora qualcosa che si sta invece perdendo: i ritmi e la vita di quartiere che dall’alto vengono dimenticati nei casermoni di periferia e nelle villette della banalità suburbana. E, soprattutto, un’esperienza del genere sembra essere figlia delle stesse dinamiche che sfrattano e spingono povertà e “anomalie” – cioè anche solo gente che parla e si ritrova – sempre più fuori dagli occhi dei centri urbani. Ma anche chi crede di essere ora tranquillo può ricadere domani vittima dello stesso meccanismo: ci sarà sempre qualcuno o qualcosa in grado di far fruttare più soldi e per al quale cedere volenti o nolenti il passo. Ed è proprio qui che un filo rosso lega aree quali quella di San Giacomo a Venezia, Trastevere a Roma e il Barri Gòtic a Barcellona, con contesti diversi ma a questo punto forse solo apparentemente lontani come il quartiere Aurora di Torino, balzato sulle pagine di cronaca nazionale dopo le operazioni del febbraio scorso.

Certo, oltre alla “semplice” speculazione esistono delle realtà in crisi economica, ma forse è proprio la crisi il momento buono per immaginare qualcosa di totalmente diverso che parta dai punti di forza e non dalle mancanze; d’altra parte, anche laddove costituisse la ragione di alcune scelte urbanistiche, il debito non può neanche diventare – come ricorda Marco Bersani – una colpa, una colpa che giustifichi qualsiasi azione, qualsiasi alienazione – una colpa, per tornare all’inciso, da espiare in eterno finché insolvenza non ci separi.

[1] Non serve chiarire che a Venezia i campi sono una sorta di piazze, giusto?

[2] “Alla vida”, prendeva il nome di un pergolato di vite sopravvissuto fino a pochi decenni fa.

[3] Ovviamente dall’allora proprietaria Regione Veneto.

[4] Si vedano ad esempio le esperienze “collettivamente private” descritte da Stavros Stavrides – architetto, attivista e professore presso il Politecnico di Atene – nel suo libro “Common Space” (ossia lo “spazio pubblico”) edito da Zed Books nel 2016.

[5] Per approfondimenti si legga anche http://www.lavoroculturale.org/venezia-la-vida/

[6] Ambientalista ed attivista honduregna, assassinata nel 2016; ricevette diversi riconoscimenti mondiali per la sua lotta di contrasto a una diga per proteggere un fiume sacro a una popolazione indigena mesoamericana.

[7] Ben descritta in un altro articolo di questo numero di Granello di Sabbia.

[8] Sappiamo bene che anche (e soprattutto) il profitto di pochi fa aumentare il Prodotto Interno Lordo per tutti, anche se questo indicatore non significa nulla, e che chi governa sembra perseguire la crescita economica anche a scapito delle condizioni di vita dei più.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 40 di Maggio – Giugno 2019. “Una città per tutti

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