La partecipazione impossibile nei grandi comuni, di Pino Cosentino, il granello di sabbia n.28, marzo-aprile 2017

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di Pino Cosentino, dal granello di sabbia n.28, marzo-aprile 2017 

Anche quest’anno il termine ultimo concesso agli Enti Territoriali per evitare la forma più rigorosa di esercizio provvisorio è stato prorogato, all’ultimo momento, dal decreto Milleproroghe. Fissato dapprima al 28 febbraio 2017, è slittato al mese dopo, 31 marzo. Di questi fatti si sente parlare poco, o niente. Questioni tecniche, che riguardano gli uffici di ragioneria? Certamente sì. Ma questioni che nascondono, sotto il velo dell’adempimento burocratico, una sostanza decisiva.

Se il Rendiconto dell’esercizio presenta dati “veri” (per quanto possano essere veri i numeri di un bilancio), o quanto meno accertati, il bilancio di previsione è (o dovrebbe essere) il vero oggetto del contendere, ammesso che ci sia materia di contesa. Infatti, il bilancio di previsione contiene tutta l’azione amministrativa, di governo del territorio, per l’anno successivo. Dall’erogazione dei servizi per i cittadini, agli investimenti, alle spese per il funzionamento della macchina comunale.

Le cifre del bilancio hanno natura autorizzativa, ossia: gli uffici competenti hanno come limite di spesa le cifre scritte sul bilancio, le quali sono dettagliate minuziosamente per ogni singolo centro di spesa, distintamente per spese correnti e per investimenti nel Piano Esecutivo di Gestione (PEG). È evidente che la quantità e, per diversi aspetti, anche la qualità dei servizi resi dal Comune ai cittadini dipende in larga misura dalle risorse disponibili: una volta che queste siano state fissate e distribuite tra le diverse destinazioni, il gioco è fatto! La costruzione dei bilanci, dalla determinazione dell’entità delle entrate (per es. fissando le aliquote IMU, con tutta l’articolazione secondo condizione e usi) no alla distribuzione delle risorse disponibili tra spese correnti e investimenti, e successivamente all’interno di queste due categorie, è l’atto politico più importante nella vita degli Enti. 

I movimenti di solito non se ne occupano perché materia ostica e perché probabilmente nemmeno sanno cos’è un bilancio, e se lo sanno non sono consapevoli dell’importanza “politica” di questo passaggio. Ma anche eliminando questi fattori, la dimensione dei grandi Comuni rende praticamente impossibile attivare processi partecipativi sul bilancio. La ragione non è tanto la complessità di questo documento (in realtà costituito da diversi documenti, di cui il Documento Unico di Programmazione (DUP) e il Piano Esecutivo di Gestione (PEG) sono i principali, per un totale di alcune migliaia di pagine), quanto il fatto che la partecipazione non è un’attività intellettuale. 

La conoscenza è certamente un presupposto della partecipazione, ma questa può basarsi anche sull’esperienza personale. Non ho bisogno di conoscere il bilancio comunale per sapere che mio figlio non è stato accettato dall’asilo nido comunale per mancanza di posti, e perciò sono stato costretto a ricorrere a una struttura privata che costa il doppio. O per sapere che l’autobus che mi porta al lavoro è sempre strapieno e qualche volta capita addirittura di non poterci salire ecc. Il problema dirimente è che partecipare significa “esserci di persona”, e quando la dimensione dell’organismo ai cui processi decisionali vorrei partecipare è troppo grande strutturare situazioni reali di partecipazione è praticamente impossibile.

Si possono fare assemblee di migliaia di persone? Che discussione sarebbe possibile in tali condizioni? Occorre frazionare il territorio comunale, in modo da avvicinare i processi decisionali ai cittadini. Peccato che le Circoscrizioni, o Municipi, ammessi solo per i comuni con popolazione superiore ai 250.000 abitanti, non siano, tranne casi marginali, centri decisionali. E questo nonostante che le circoscrizioni di decentramento vengano definite “organismi di partecipazione, di consultazione e di gestione di servizi di base, nonché di esercizio delle funzioni delegate dal comune” secondo quanto recita il Testo Unico degli Enti Locali all’art. 17 c. 1. O forse proprio per questo. Tuttavia, al comma 5 lo stesso articolo propone, per i comuni sopra i 300.000 abitanti, una possibilità diversa: “…lo Statuto [del comune] può prevedere particolari e più accentuate forme di decentramento di funzioni e di autonomia organizzativa e funzionale…”. Ricadono in questa tipologia 10 comuni italiani: Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari e Catania. In essi circoscrizioni e municipi potrebbero essere dotati di funzioni e poteri, nel proprio ambito, non diversi a quelli di un comune di uguale popolazione. Se ciò avvenisse, si avrebbe un duplice risultato: il Consiglio Comunale sarebbe liberato da moltissimi adempimenti e funzioni; sarebbe quindi possibile una sessione di bilancio veramente approfondita, analitica e partecipativa avendo alle spalle gli esiti dei processi partecipativi negli organismi decentrati. Avremmo, insomma, due piccioni con una fava: un approccio più serio e sistemico dell’attuale da parte dei rappresentanti eletti, una partecipazione popolare ampia e diffusa sul territorio comunale.

Il passaggio fondamentale prioritario da compiere è l’attribuzione di competenze e poteri decisionali congrui agli organi di decentramento. Sarebbe una riforma di buon senso, totalmente nella disponibilità dei comuni stessi.

È una battaglia cui ogni movimento di partecipazione dovrebbe impegnarsi, prima di tutto come passaggio per la costruzione di sé stesso.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 30 di Settembre-Ottobre 2017: “Democrazia Partecipativa” 

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