La lezione del 4 marzo

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di Pino Cosentino

Si può capire meglio l’imponente spostamento negli umori e nelle scelte di voto di gran parte dell’elettorato italiano se confrontiamo i risultati delle tre ultime elezioni politiche: 2008, 2013 e 2018. 

Dal 1994, prima prova elettorale nazionale dopo Tangentopoli e con il nuovo sistema elettorale maggioritario, il panorama politico si presenta dominato da due poli, in ognuno dei quali un grande partito è stato il centro di attrazione e di regolazione attorno a cui, come in un piccolo sistema solare, ruotava fino a una dozzina di pianeti minori per massa e importanza. Nel 2008 i due poli contrapposti di centrodestra e centrosinistra attraevano a sé, complessivamente, quasi 31 milioni di voti su un totale di 36 milioni e mezzo, ossia l’84,36%. I due partiti maggiori, Partito Democratico (PD) e Popolo delle Libertà (PDL), raccoglievano insieme oltre 25,7 milioni di voti, pari al 70,56% dei voti validi. Dieci anni dopo, nel 2018, hanno raccolto insieme 10 milioni e mezzo di voti, pari al 32,75%.  Ben 15 milioni di voti, quasi la metà dei voti validi totali, hanno cambiato destinazione, al ritmo di un milione e mezzo all”anno (per inciso, i voti validi sono calati nel frattempo da 36,5 a 32,8 milioni). In contemporanea 13 milioni di voti si sono riversati, complessivamente, sul M5S e sulla Lega (ex Lega Nord).

Inoltre, stando ai sondaggi, il travaso di intenzioni di voto da PD e FI verso i due nuovi “dominatori” della scena politica non si è affatto arrestato con la chiusura dei seggi la sera del 4 marzo, anzi continua incessante, sicché molti ritengono che sarebbe interesse di M5S e Lega di arrivare tra breve a nuove elezioni, evitando la convivenza al governo dei due partiti destinati nel prossimo futuro a contendersi il governo del paese.

Se i due vecchi protagonisti appaiono emarginati dal vento “nuovo” che soffia impetuoso gonfiando le vele dei “populisti”, la sinistra – atteso che il PD non possa definirsi di sinistra, ma che con una certa benevolenza gli si possa  riconoscere la qualifica di partito liberale…- nelle sue diverse ramificazioni (“radicale”, “comunista”, ecologica o quant’altro) appare in via di estinzione. Nel 2006 PRC+PDCI+VERDI, presentandosi separatamente nella  coalizione guidata da Romano Prodi, ottennero complessivamente quasi 4 milioni di voti (esattamente 3.898.394 pari al 10,22% dei voti validi). Oggi, calcolando generosamente come “sinistra” LEU, quell’area arriva a malapena al 5%. Come è potuto accadere questo, proprio quando la violenta crisi innescata nel 2008 dalle principali istituzioni finanziarie USA ha messo all’ordine del giorno la bancarotta morale, politica e tecnica del neoliberismo, ossia del capitalismo del nostro tempo?

Da noi in Italia l’irresistibile ascesa di M5S e della Lega versione salviniana si spiega con le due serie tematiche ormai dominanti nel dibattito pubblico: onestà contro corruzione, con i corollari di competenza, efficienza, merito ecc. contro incapacità, spreco, privilegio ecc.;  identità contro globalizzazione, cioè le comunità locali fortemente caratterizzate, fonti di tradizioni uniche e di specifici interessi, contro un cosmopolitismo omologante, fonte di smarrimento e di anonimato. Temi che hanno cominciato a lievitare negli anni Ottanta del Novecento in concomitanza con la riscossa padronale, con il procedere della rivoluzione tecnologica e finanziaria, il rimpicciolimento delle unità produttive, la fine shock dell’URSS. 

La “lotta di classe”, che si era imposta come terreno decisivo della lotta politica degli anni ’70 del Novecento scivola gradatamente in secondo piano, mentre sale la lotta alla corruzione e al centralismo (PM di Milano, Grillo, Lega localista – federalista, ecc.). La comparsa di Berlusconi e Forza Italia nel 1994, con la sua linea basata sulla lotta al “comunismo”, ha ridato centralità a una versione farsesca e mistificatrice di “lotta di classe”. Al tema “onestà contro corruzione” Berlusconi contrapponeva la scelta tra libertà e tirannide (“comunista”, s’intende), mentre la spinta antiglobalizzazione raccolta dalla Lega (ricordiamo la lotta contro le quote latte) veniva incanalata nei ministeri romani dove si arenava. La legislazione “federalista” ottenuta dalla Lega si infrangeva beffardamente contro i diktat dei mercati, l’assoggettamento degli enti territoriali al patto di stabilità interno e il crescente centralismo di fatto.

Questo precario, a suo modo efficace, edificio che teneva insieme PD e Berlusconismo è però crollato sotto l’onda d’urto della crisi del 2008, arrivata tardivamente in Italia nel 2011. La crisi dello spread, la rivelazione del carattere irreversibile della depressione iniziata nel 2008 (non semplice crisi transitoria), con il corollario dell’inversione delle aspettative (oggi è peggio di ieri e meglio di domani) e dell’inesorabile competizione a carattere selettivo, senza sconti per i perdenti (solo i ricchi si salveranno), ha diffuso il panico, già serpeggiante negli strati più popolari, anche nella classe media e medio-alta. La richiesta di attenzione e di protezione espressa da gran parte della popolazione, minacciata da un impoverimento che fa paura, non trova risposta adeguata né da parte dei sindacati maggiori, né nell’appartenenza a una classe sociale, ma nelle comunità radicate nei territori e rappresentate dalle istituzioni pubbliche, statali e locali. Le comunità sono solide se si basano sulla lealtà reciproca (onestà) e sul reciproco riconoscimento (identità).

Con la sinistra “liberale” affonda anche la sinistra socialdemocratica e la sinistra “di classe”, o “radicale”, o “comunista”, qualunque cosa si intenda con queste aggettivazioni.

La domanda che ci poniamo è: perché la crisi profonda del sistema socioeconomico e politico attuale non rafforza i movimenti di lotta autenticamente popolari contro la globalizzazione finanziaria? Perché il grande movimento no global o altermondialista si è dissolto sotto i colpi della repressione  poliziesca del luglio 2001?

Perché M5S e Lega danno speranza, mentre noi siamo capaci di produrre analisi molto o abbastanza approfondite e precise delle malefatte del sistema, ma non offrendo soluzioni politicamente (non “tecnicamente”) credibili produciamo scoraggiamento più che mobilitazione.

Qui bisogna essere chiari. Il nostro compito è più difficile di quello di M5S e della Lega. Essi distribuiscono promesse e chiedono una delega. Ci penseranno loro a realizzare il cambiamento che la maggioranza dell’elettorato “attivo” invoca. Per noi è diverso. Noi non vogliamo deleghe, ma ci poniamo lo scopo di costruire il soggetto politico. Una qualunque entità (persona singola, comunità locale, popolo…) diventa “soggetto” quando si dota di un progetto. Che riguarda prioritariamente sé stesso. Cosa vuole diventare? Noi, popolo italiano, cosa vogliamo essere? Oggi siamo “un volgo disperso”, cioè niente. Cosa vogliamo diventare? Questo è il passo che occorre compiere ora. A questo sono indirizzati i nostri sforzi. 

La rappresentanza politica deve essere strumento dell’esercizio popolare della sovranità, non il luogo del potere effettivo (oggi nei limiti concessi dai poteri di fatto, nazionali e sovra-nazionali), ma ciò è possibile solo se il popolo è un “soggetto” non una moltitudine di individui isolati. I temi dell’onestà e dell’identità sono nostri temi, includono la versione attualizzata della lotta di classe di una volta ma occorre abbandonare dogmi e liturgie che conservano le forme dell’alternativa ma travisano la sostanza. Bisogna discutere apertamente degli obiettivi veri e sostanziali del nostro movimento. Solo così la speranza sostituirà la depressione.  

Potere al Popolo è una vera novità? Oggi appare sospeso, in bilico tra vita e morte. Tra presente e passato, tra realtà e immaginazione. L’innesto di realtà di movimento, come “Je so’ pazzo” e tante altre, sul tronco di partiti ormai degenerati in sette nostalgiche logorate da anni e anni di pratiche opportunistiche (in molti casi – non tutti – in perfetta buona fede e con il massimo disinteresse personale), riuscirà a produrre una nuova pianta? Alcuni indizi farebbero inclinare all’assenso. Lo scopo primario enunciato da PalP sarebbe unire i movimenti, non vincere le elezioni. Due obiettivi non in contrasto tra loro, ma da porre in successione, dove il primo (unire i movimenti) è la premessa ineludibile del secondo, e porta al terzo: vincere, vincere davvero. Non vincere le elezioni per poi attuare il programma del nemico.

Questo concetto è presente nel programma, proprio nelle ultime righe: “…crediamo e speriamo che il nostro compito non si esaurisca con le elezioni, ma che il lavoro che riusciremo a mettere in campo ci consegni, il giorno dopo le urne, un piccolo ma determinato esercito di sognatori, un gruppo compatto che continui a marciare nella direzione di una società più libera, più giusta, più equa”. Con il “controllo popolare”, di derivazione trotskista, la componente napoletana dà il buon esempio, tuttavia bisogna ricordare che la realtà sociale è prodotta, nel suo incessante divenire, dalla dialettica movimenti – istituzioni. Di queste bisogna ragionare. Ma il limite più ingombrante si trova proprio nel programma elettorale. E’ un programma difensivo, che riesce a essere contemporaneamente troppo e troppo poco: conservatore e utopistico, in senso negativo: Art. 18, nazionalizzazione delle banche, pensioni come prima della legge Fornero  ecc., da un lato sono irricevibili per i “mercati”, dall’altro lato non risolvono niente. O si instaurano condizioni nuove, che rendono possibile sostituire questo sistema con un altro sistema coerente e capace di funzionare, oppure con soluzioni Frankenstein non si va da nessuna parte.

A che serve proporre soluzioni apparentemente fattibili nelle condizioni attuali se questo ti dà l’1% dei voti?Oppure, anche se vinci le elezioni, se ti fa fare la fine di Tsipras, perché il sistema è più forte, ha una sua coerenza che non si può azzoppare pena il disastro economico, ossia il blocco del meccanismo che comunque assicura la sopravvivenza quotidiana dell’intera popolazione?
Non come immaginarie avanguardie o soggetti politici auto-referenziali, ma come parte del popolo, abbiamo il diritto-dovere, come chiunque altro, di  proporre quelli che per noi sono i veri obiettivi, capaci di trasformare il popolo in un soggetto politico plurale capace di auto-governarsi e con ciò di chiudere la partita con il lavoro alienato, il dominio del capitale, la mercificazione dell’ambiente naturale e della vita delle persone. A queste condizioni cercheremo e otterremo una vittoria elettorale che non avrà come conseguenza la sconfitta, il dover piegare la testa e attuare il programma dettato dai “mercati”. L’obiettivo è che la proprietà di ogni luogo di lavoro deve essere di chi ci lavora: né dei capitalisti, né dello Stato.

Il resto viene di conseguenza: siamo contrari a ogni forma di dittatura, autoritarismo, pensiero unico. Siamo per il pluralismo, per un sistema politico che si basi sulla rappresentanza liberamente eletta e sulla partecipazione, sulla divisione dei poteri e l’habeas corpus. Solo un tale sistema politico, come espressione di una società basata sulla supremazia del lavoro liberato e dei cittadini-lavoratori rende possibile una finanza “pubblica e sociale”, un credito per investimenti produttivi erogato direttamente dal potere pubblico senza che il denaro diventi capitale, ossia strumento di arricchimento e di dominio.

Questo scenario oggi appare lontanissimo, ma proprio per questo non vale la pena di attivarsi e di spendere le nostre migliori energie per allontanarlo ulteriormente. Vi sono nella storia delle precipitazioni improvvise, anni in cui accade ciò che normalmente impiegherebbe secoli. Non sappiamo quando arriveremo, ma avendo un’idea sufficientemente approssimata e condivisa della méta è possibile che ogni passo (o almeno una larga maggioranza) venga fatto nella direzione giusta. 

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 33 di Marzo – Aprile 2018: “Fuori dal mercato

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