di Pino Cosentino
“La maggiore sfida dei prossimi decenni consisterà nell’immaginare, progettare e implementare le condizioni che permettano di ridurre il ricorso alla forza e alla violenza di massa fino alla completa disapplicazione di questi metodi”. (dal discorso di Gino Strada alla cerimonia di consegna dei Nobel alternativi, Stoccolma, 30 novembre 2015).
Chi ha seguito almeno un po’ questa rubrica avrà ben chiaro, se non lo sapeva già per proprio conto, che la democrazia partecipativa è una specifica architettura istituzionale. Quindi nulla di generico o ornamentale, come potrebbe essere l’impressione ricavata da fiumi di retorica “partecipativa” tanto abbondanti quanto inconsistenti.
Essa è una forma di governo che sostituisce quella esistente, non la integra. Ma perché essa possa risolvere la questione posta da Gino Strada occorre compiere ancora un passo avanti.
La democrazia (partecipativa, tra parentesi perché la democrazia o è partecipativa o non è) deve essere intesa non solo come una forma di governo, ma anche come una forma di Sato.
O, vedendo la cosa da un diverso punto di vista, la forma di Stato che abolisce lo Stato, per come l’abbiamo conosciuto finora. Carattere costitutivo dello Stato è di impersonare l’uso legittimo della violenza. Ciò che nella vita normale è il tabù più potente, il delitto più efferato e condannato, l’assassinio, nei rapporti tra Stati diviene invece il dovere supremo, fonte di onore e gloria per chi lo compie. Se è glorioso morire per la patria (pro patria mori), ancora più glorioso è uccidere per la patria.
Ma il seme della violenza è nell’origine stessa degli Stati, che nascono e si sviluppano come strumento di una parte minoritaria della popolazione per affrancarsi dal fardello del lavoro produttivo.
La minoranza privilegiata deve, in cambio, adempiere una duplice funzione: garantire l’ordine interno e la difesa verso l’esterno. Due funzioni che richiedono entrambe l’uso della violenza, due funzioni che non possono essere separate: se cade l’una, cade anche l’altra. O meglio ancora: se c’è l’una, c’è (o si forma) anche l’altra. Nessuna rivoluzione è sopravissuta alla sua fase bellica (si pensi alla rivoluzione francese, o anche a quella russa).
L’esclusione della maggioranza della popolazione dall’esercizio effettivo del potere politico è in ogni tempo la condizione per l’esistenza dello Stato. Vale anche per la “democrazia” ateniese, detto per inciso.
La democrazia, come effettivo governo del popolo, porterebbe alla riduzione delle disuguaglianze sociali fino al punto da rendere superfluo l’apparato repressivo dello Stato all’interno. Lascio al lettore. come esercitazione, o compito a casa, di dimostrare con esempi storici che la mutazione dello Stato da organizzazione della violenza obbligata ad affermarsi anche all’esterno in pacifica amministrazione della vita sociale comporterebbe la fine delle guerre (aiutino: le cause della prima guerra mondiale).
“Immaginare, progettare e implementare le condizioni che permettano ecc.” coincide dunque con “immaginare, progettare e implementare le condizioni che permettano … l’instaurazione della democrazia (partecipativa)”.
E qui naturalmente è forte l’impressione di aver fatto un bel giro che però ci ha riportato al punto di partenza.
Se ci si ferma qui l’impressione è esatta. Ma Attac ha compiuto molta strada verso la definizione di una strategia per l’alternativa. Un passo fondamentale è stato compiuto con “Riprendiamoci il Comune”, dove l’originaria dicitura “C(c)omune”, sebbene poi scartata perché ritenuta criptica e fonte di confusione, rende bene la duplice valenza del termine “comune”, istituzione, ma anche legame tra persone concretizzato in beni collettivi.
Non è qui possibile sviluppare questo tema.
Mi resta solo da osservare che la nostra democrazia è rimasta ben indietro rispetto all’evoluzione della società. Il discredito senza precedenti che circonda tutte le istituzioni dello Stato sono la forma che assume la percezione generale che questo sistema di potere ha perso ogni legittimità, sia “dal basso” sia “dall’alto”.
Dal basso, perché è sempre più evidente che esso è ordinato ad escludere il popolo dall’esercizio della sovranità, il contrario della verità ufficiale. Dall’alto, perché è altrettanto evidente che il potere statale è attualmente solo un intermediario, lo strumento di un potere sovraordinato, chiamamolo “mercati”, oppure, in termini geopolitici, “NATO (USA)”, nei cui confronti esso si pone come i governatorati degli Stati coloniali nei confronti della metropoli.
Dedico queste poche righe ai bambini di Raqqa, di cui nulla sappiamo, con la speranza che questo non sia un necrologio, ma un piccolissimo contributo alla colonna infame che prima o poi l’umanità dovrà erigere ai cultori della rappresaglia contro popolazioni inermi.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 22 di Novembre-Dicembre 2015 “System Change NOT Climate Change”, scaricabile qui.