Le precondizioni per la partecipazione/movimento – n.15 ottobre 2014

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di Pino Cosentino

In margine all’università popolare di Cecina, all’assemblea macroregionale del Forum dei Movimenti per l’acqua a Genova, e alla lettera del Comitato di Frosinone

I movimenti per l’acqua, la strategia rifiuti zero, il paesaggio, la salvaguardia di località minacciate dalle più diverse iniziative speculative (dalle lottizzazioni urbanistiche alle centrali a biomasse) e così via si interrogano sui risultati e i limiti della loro azione. Il bilancio non è incoraggiante: i governi locali e quello nazionale proseguono imperterriti nella demolizione della democrazia, nella difesa a oltranza delle posizioni di privilegio della finanza, nel saccheggio dell’ambiente. In queste condizioni la democrazia partecipativa sembra un miraggio: più che una strategia, appare un’utopia generosa, ma del tutto anacronistica.

Nella realtà che viviamo nulla va in quella direzione: la gente è sempre più oppressa da preoccupazioni economiche e la partecipazione ai processi decisionali, come la tutela dell’ambiente, sembrano lussi sconsiderati; da inserire tra quelli che ci hanno fatto vivere al di sopra delle nostre possibilità e che ci stanno trascinando nel baratro. È questa la retorica che novelli Cincinnati come l’incompreso prof. Monti e ora l’ardente predicatore Renzi ci hanno propinato, e che sembra lasciare spazio solo al motto “io speriamo che me la cavo”.

A riprova di questo, la strategia dell’alleanza tra movimenti, nuovamente (e giustamente) rilanciata all’assemblea macroregionale dei movimenti per l’acqua tenutasi a Genova alla fine di settembre, stenta a decollare. Le molte iniziative, eventi, manifestazioni organizzate unitariamente da ampi schieramenti non producono, salvo eccezioni, una nuova soggettività, né nuove e più fruttuose relazioni. Finita la manifestazione, gran compiacimento, ma poi ognuno se ne torna a casa e continua a fare quello che faceva prima.

I movimenti tematici restano racchiusi ognuno nella propria specializzazione, abbarbicati ai propri tecnicismi. La politica resta sullo sfondo, mentre la scena è occupata dagli esperti fai-da-te dei movimenti. In tal modo, tranne alcuni casi esemplari, i movimenti finiscono per diventare gruppi di élite (per non dire sètte), staccati dal popolo. Si può parlare, anzi, di un doppio distacco, rispetto agli altri movimenti e tra movimenti e popolazione: una posizione di consiglieri/contestatori (disarmati) del principe, come se la partita si giocasse tra il potere e gli attivisti.

Un abbaglio clamoroso può addirittura indurre a prendere questa per “partecipazione”, come se la partecipazione fosse affare di gruppuscoli. In realtà, tralasciando una certa spocchia tradizionale della sinistra, convinta di possedere la verità e di non essere maggioranza solo perché il popolo è una massa di consumatori inebetiti, i movimenti non riescono a collegarsi tra loro perché gli obiettivi comuni sono attualmente fuori della loro portata. Obiettivi comuni sono la democrazia, i soldi (che ci sono) l’ambiente.

Alzare l’assicella non è questione di temi. E’ questione di soggetto. Se i movimenti restano gli stessi che erano, se la collaborazione su obiettivi di grado più elevato non produce una trasformazione dei movimenti coinvolti, se il tema e gli obiettivi più avanzati non operano anche come fattori trasformativi delle loro stesse pratiche, sembra di aver compiuto un passo avanti, ma si è rimasti fermi.

Cosa manca in questo schema? La territorializzazione dei movimenti.

Il territorio, considerato come un organismo vivente dato dall’interazione di innumerevoli elementi, è il corrispettivo oggettivo di movimenti che abbiano rielaborato i contenuti specialistici in una visione unitaria. Eppure, questo non basta. Il rilancio dei movimenti non può essere un’operazione puramente intellettuale, non può avvenire a freddo. Solo stabilendo una relazione con la popolazione, il cui vissuto rappresenta il corrispettivo soggettivo dell’unità del territorio, i movimenti potranno effettivamente compiere un salto di qualità, rafforzando il loro legame.

Stabilire un rapporto con la popolazione impone di superare le pratiche dell’attivismo classico, di andare verso forme di partecipazione politica praticabili da persone normali, con i loro impegni famigliari, lavorativi, personali. In poche parole, ricostruire forme comunitarie praticabili da tutti. Occorre superare la prassi consolidata: la riunione, il volantino, il comunicato, l’urlo e il pugno alzato, che ha generato una sclerosi burocratica difficile da smuovere, ma che tiene lontane le persone “normali”. Alla stregua dei dervisci o dei monaci buddisti, l’attivismo, per come è praticato adesso, è una vocazione particolare e non può essere una pratica di massa.

Bisogna urgentemente trovare e praticare forme diverse, che consentano di attivare larghi strati popolari. Una via è sicuramente l’uso di internet, ma non basta. Occorrono azioni “virali” da compiere personalmente. Costruire la partecipazione non è questione di ingegneria istituzionale, né di regole. Si tratta di cambiare la società, i modi di vita, non su basi puramente soggettive, ma ancorando questa trasformazione a dati e situazioni oggettive.

In definitiva l’unità territorio-popolazione è la chiave per costruire la partecipazione-movimento: precondizione per affrontare la battaglia decisiva per la democrazia (partecipativa). Individuare obiettivi specifici per il singolo territorio è la leva per creare canali di comunicazione interni alla popolazione, di cui noi siamo una parte. E’ sbagliato pensare a uno schema di comunicazione noi-popolo, come se si trattasse di due poli distinti. In tal modo si ricreerebbe una verticalizzazione, che non è estranea al persistente schema autoritario che alberga anche in molti di noi, conseguenza del rappresentarsi come avanguardie incomprese di un popolo abbruttito che si salva solo accettando la verità che “noi” gli porgiamo.

L’organizzazione popolare diffusa potrà porre sul tavolo la questione della legittimità di questo sistema politico: una finta “democrazia” che produce oligarchia e non permette la formazione di una libera e autonoma volontà popolare, precondizione per l’esercizio della sovranità. L’orizzonte della democrazia partecipativa non può essere che il superamento dell’esistente.

Purtroppo la discussione resta spesso invischiata nell’esistente. Parlando di beni comuni, la realtà è costituita da un settore pubblico ormai in piena aziendalizzazione. Dalla sanità (ASL Azienda Sanitaria Locale) ai servizi pubblici locali l’attenzione si è spostata dal servizio alla redditività dell’azienda (privatizzata) che lo gestisce. Poiché è l’azienda che produce o può produrre valore, è questa che interessa chi comanda, si prende quello che gli fa comodo e orienta il dibattito pubblico.

La partecipazione ha poco o nessun senso a livello di azienda, soprattutto nel contesto attuale. Essa è tale solo se viene esercitata dalla popolazione in un ambito territoriale e come espressione di finalità di interesse generale. Altrimenti è lobbying, come scrive giustamente il comitato di Frosinone.

I contenuti programmatici e le pratiche partecipative che una creatività guidata dalla ragione sapranno in parte isolare ed estrarre dal magma incandescente e confuso del presente, in parte inventare dal nulla, saranno semi di un futuro che attende un’operosa collaborazione per dischiudere i suoi frutti.

Tratto dal Granello di Sabbia di Ottobre 2014: “La Buona ScuolAzienda”, scaricabile QUI


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