Invalsi: valutazione a crocette – n.15 ottobre 2014

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di Ferdinando Goglia  (COBAS Napoli)

La “valutazione della scuola” non è un’idea generica. Appartiene ad uno specifico paradigma, il New Public Management (NPM), secondo cui collocare i servizi pubblici in un regime di concorrenza (quasi mercato) ne determinerebbe il progressivo miglioramento (efficacia) associato alla riduzione dei costi (efficienza). La concorrenza non avviene sul prezzo ma sul servizio, che ciascun ente erogatore può differenziare per competere con gli altri. Se il servizio è differenziato, il controllo inteso come conformità amministrativa alle direttive centrali non ha più senso e ad esso subentra l’esigenza di una verifica a valle che consenta di comparare i risultati, classificarli (ranking) e di orientare le scelte dell’utenza.

           

          L’Italia sposa questa politica scolastica con due passaggi ravvicinati: l’autonomia (DPR 275/99), che permette alle scuole di differenziare la propria “offerta formativa”, e la trasformazione del CEDE in INVALSI (DLGS 258/99), che traccia una netta svolta nei metodi a favore della docimologia (valutazione “oggettiva”) e delle prove standardizzate. Perché? Perché le prove standardizzate, a fronte di insuperabili limiti, presentano un requisito funzionale al NPM: la comparabilità. Diversamente da altre forme di verifica (colloqui, elaborati, relazioni etc.), le prove standardizzate permettono di ottenere dati comparabili grazie ad una duplice rimozione delle variabili di contesto: nei quesiti e nella correzione, entrambi predisposti dal centro secondo una logica essenzialmente binaria (risposta giusta/risposta errata). E’ un’oggettività fasulla, in quanto la valutazione è sempre fatta da soggetti su altri soggetti, ma l’artificio fornisce una sorta di metro degli apprendimenti. Ecco perché parlare di valutazione delle scuole significa in sostanza parlare di prove standardizzate, che possono essere affiancate da altri strumenti in subordine (visite ispettive, procedure reputazionali, etc) ma mai rimosse.

         Non a caso il DPR 80del 2013affida all’INVALSI il controllo pressoché esclusivo del Sistema Nazionale di Valutazione. Ai sensi degli articoli 3 e 6, l’INVALSI: coordina il sistema, propone i protocolli di valutazione e il programma delle visite ispettive, definisce gli indicatori di efficienza e di efficacia del servizio e quelli per la valutazione dei dirigenti scolastici, forma gli esperti e gli ispettori dei nuclei di valutazione esterna che intervengono – commissariandole – sulle scuole deficitarie, governa la cosiddetta “autovalutazione”, vincolata ai parametri e ai risultati INVALSI. Tutto l’impegno delle scuole viene così diretto – oltre che ad un aumento quantitativo dell’offerta in termini di marketing (corsi ed altre attività extra-curriculari) – ad una “qualità” che coincide col miglioramento degli esiti delle prove standardizzate. Ma tale equivalenza è legittima? E, se non lo è, quali sono le reali conseguenze della “valutazione”?

            In didattica rimuovere le variabili di contesto non è ammissibile. Se ogni apprendimento è relativo a determinati obiettivi, questi non possono essere stabiliti all’esterno del dialogo educativo; non è ammissibile prescindere dalla soggettività dei suoi partecipanti, discente e docente. Proporre ad uno scolaro che non possiede certi requisiti lo stesso percorso di un suo compagno che li possiede, significa predisporne il fallimento; e l’insegnante, entro le linee generali dei “programmi” e sulla scorta sia della propria competenza specifica sia dell’osservazione sul campo, deve essere libero di modulare, insieme agli obiettivi, contenuti e metodi. Non è ammissibile – riguardo alle verifiche – presentare come oggettivi i parametri che determinano l’attribuzione del punteggio; in tal senso, l’uso di scale numeriche, decimali, medie aritmetiche non fa che fornire una maschera di apparente rigore scientifico ad un sistema di opinioni. Per essere più chiari, se alla luce delle convenzioni ortografiche è un errore scrivere senza l’accento la terza persona singolare del verbo essere, chi, come e perché stabilisce quanti punti di penalità tale errore valga? Si tratta di scelte, sempre opinabili, su cui l’insegnante deve render conto in presenza, mettendoci la faccia, e che non possono essere affidate ad un soggetto esterno arroccato nella propria inaccessibilità tecnocratica. Ogni buon insegnante, inoltre, sa che persino all’interno di una classe uno stesso voto esprime situazioni diverse e, per questo, si guarda bene dal porle in competizione. Non è ammissibile che un giudizio scaturisca da una singola prova e non, come dovrebbe, da un esteso periodo di osservazione. Non è ammissibile restringere gli ambiti da valutare in funzione della logica binaria delle griglie di correzione, escludendo così tutte le dimensioni – cruciali per la formazione dell’uomo – che afferiscono alla creatività, all’espressività, all’autonomia, alle capacità critiche, al pluralismo interpretativo e culturale. Non è ammissibile imputare il risultato di qualsivoglia prova ad uno soltanto dei tre poli dell’area formativa. Il primo polo, di cui il singolo insegnante rappresenta una frazione, è la struttura scolastica, che comprende aspetti logistici (aule, attrezzature, etc), organizzativi (orari delle lezioni, procedure, etc) e relazionali (equipe pedagogica, collaboratori scolastici, etc.), ma con essa interagiscono il polo “famiglia” e il polo “scolaro”, che insieme incidono sul risultato assai più della differenza tra una scuola e l’altra (non a caso le tabelle e i grafici INVALSI riflettono le disparità socio-economiche territoriali e familiari). Ma poiché tutto questo confligge con l’esigenza della comparabilità, si finge di ignorarlo.

            In sostanza, in ossequio al NPM, che in modo ideologico individua nel mercato la risposta ottimale ad ogni bisogno dell’uomo, la scuola subisce la gravissima minaccia di un pervasivo dispositivo di controllo e condizionamento che, non potendo (e, direi, neppure volendo) attingere ad un giudizio autentico sulla qualità dell’insegnamento, ne propone un simulacro da dare in pasto all’opinione pubblica, modellato su obiettivi definiti dal ministero e di altri stakeholder pubblici e privati. È il cupo scenario di una scuola succube del potere, che catalizza risorse in proporzione alla propria capacità di omologarsi e omologare e che lascia morire ogni esperienza eccentrica; una scuola al cui interno il riverbero della competizione erode i legami di solidarietà e sostituisce alla collaborazione la complicità. È una cattiva scuola che tradisce il mandato di una società democratica, abdica alla propria funzione educativa e che, invece di ridurle, istituzionalizza e coltiva le diseguaglianze sotto il vessillo di un “merito” che è conservazione sociale e obbedienza alle gerarchie.

Tratto dal Granello di Sabbia di Ottobre 2014: “La Buona ScuolAzienda”, scaricabile QUI

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